venerdì 13 maggio 2011

Turcasso

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Il turcasso è una particolare tipologia di custodia per le frecce, altrimenti detta faretra.
Data l'influenza ellenica e medio orientale e la datazione storica d'inizio dell'utilizzo del termine, col termine turcasso è più precisamente indicata la faretra in uso agli arcieri turchi. Tipicamente si differenzia dall'equivalente guaina per frecce a tracolla per il suo alternativo fissaggio alla cintura. Confezionato prevalentemente con pelle conciata, il turcasso, è stato rinvenuto in differenti fogge, presentando come parti costituenti anche pelli di bovini e velli ovini.

Etimologia
Al vocabolo "turcasso" sono attribuite etimologie differenti, secondo lo studio dell'etimo di diverse culture e lingue (greco, turco, persiano), come lo sono anche le diverse accezioni che definiscono la scelta del termine. In lingua italiana, il vocabolo era già in uso nel XIV secolo, tanto da comparire nella Divina Commedia:
«E trasse del Turcasso due dardi di diverse opere, ed effetti: l'una caccia l'amore, ed è di piombo il suo ferro: l'altro il fa venire, ed è d'oro la sua gorbia...»
(Dante Alighieri, Paradiso (Divina Commedia), canto 1)
La parola turcasso viene utilizzata anche da Italo Calvino in "Le città invisibili" - "Un turcasso pieno di frecce indicava ora l'approssimarsi di una guerra, ora l'abbondanza di cacciagione oppure la bottega d'un armaiolo." (II Capitolo).

Storia
Utilizzo grafico
Simbolo molto utilizzato iconograficamente, il turcasso, appare in diversi vessilli e bandiere del passato ed altri odierni. La bandiera della Repubblica Cispadana lo inserisce al centro della fascia bianca, raffigurandolo in verticale, con quattro frecce al suo interno, circondato da un serto di lauro (alloro), sormontante la corona civica e ornato da un trofeo di armi.


giovedì 12 maggio 2011

Sagaris

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Sagaris è la parola che in greco antico indica la scure d'arcione utilizzata dalle popolazioni nomadi che abitavano le steppe euro-asiatiche e l'altopiano dell'Iran: Saka, Sciti, Medi, Persiani, Parti, Kushan, Tocari e Mossineci. Stando a diversi autori greci (Diodoro Siculo, Strabone ecc.), la sagaris sarebbe stata arma d'elezione anche delle leggendarie Amazzoni.

Costruzione
I reperti archeologici, soprattutto iconografici, in nostro possesso, descrivono la sagaris come un'ascia d'armi dal manico lungo 70-80 cm e la testa piccola, con lama di scure da una parte e "penna" a becco di piccone dall'altra.
Alcuni ritrovamenti (teste di martello invece che lame di scuri) porterebbero a supporre che il termine sagaris venisse utilizzato dai greci per indicare non un'arma specifica ma una tipologia di armi bianche d'arcione aventi forma più o meno simile in uso ai cavalieri della steppa.

Storia
La sagaris può ad oggi essere considerato l'archetipo da cui svilupparono le varie armi bianche d'arcione del maturo Medioevo europeo. Non a caso, già gli autori del Rinascimento (es. il bavarese Giovanni Aventino, autore del chronicon Annales Bojorum) indicarono nelle Amazzoni gli inventori della scure d'arcione, diffusasi in Europa partendo dalle steppe orientali.
Seppur veicolata alla nostra memoria da fonti greche, nella cultura ellenica la sagaris fu sempre arma barbara, non greca, brandita da guerrieri provenienti da una realtà bellica "aliena" dominata non dalle forze di fanteria pesante ma dalla cavalleria. Numerosi storici dell'Antica Grecia e dell'Impero romano, confermano l'uso della scure d'arcione nota come sagaris da parte delle popolazioni della steppa eurasiatica, come i Sarmati e gli Sciti, le origini dei quali sono sempre fatte risalire alle Amazzoni, donne guerriere il cui esercito era composto prevalentemente da forze di cavalleria leggera armata di arco composito ed ascia.
Dai nomadi della steppa, la sagaris passò in dotazione alla cavalleria pesante dell'Impero persiano che se ne servì per gli scontri nelle mischie. Narrando la vita di Alessandro Magno, lo storico Plutarco ci informa che, durante la Battaglia del Granico (334 a.C.), il Macedone rischiò di essere ucciso proprio da un colpo di scure vibratogli dal satrapo persiano Spitridate:
(EL)
«συμπεπτωκότων δ’ αὐτῶν, ὁ Σπιθριδάτης ὑποστήσας ἐκ πλαγίων τὸν ἵππον καὶ μετὰ σπουδῆς συνεξαναστάς, κοπίδι βαρβαρικῇ κατήνεγκε, καὶ τὸν μὲν λόφον ἀπέῤῥαξε μετὰ θατέρου πτεροῦ, τὸ δὲ κράνος πρὸς τὴν πληγὴν ἀκριβῶς καὶ μόλις ἀντέσχεν, ὥστε τῶν πρώτων ψαῦσαι τριχῶν τὴν πτέρυγα τῆς κοπίδος.»
(IT)
«I due caddero a terra avvinghiati e Spitridate, di lato, con il cavallo ritto sulle zampe posteriori, egli stesso ritto sul cavallo, menò giù un fendente con la sua scure barbarica: spezzò il cimiero con una delle penne mentre l'elmo a stento resistette al colpo, tanto che il filo della scure sfiorò i primi capelli.»
(Plutarco, Vite Parallele - Alessandro, 16)


Successivamente, la sagaris passò in dotazione ai catafratti, la cavalleria pesante persiana nata dal sincretismo culturale dell'Impero di Alessandro mescolante caratteristiche degli hetairoi macedoni e della cavalleria sogdiana di Dario III.


mercoledì 11 maggio 2011

Zhìyǐ

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Zhìyǐ Tiāntái Dàshī (智顗 天台 大師, anche: Chih-i, Tche-yi, 智者 Zhìzhě; coreano: 지의, Jiui o 지자, Jija; giapponese: Chigi o Chisha; Hubei, 538 – Monti Tiantai, 597) è stato un monaco buddhista cinese, Patriarca della scuola Tiāntái.
Ventiseiesimo patriarca della scuola buddhista cinese Tiāntái (天台宗, giapp. Tendai), secondo il lignaggio che segue la lista dei ventitré patriarchi indiani indicati nel Fù fǎzàng yīnyuán zhuàn (付法藏因緣傳, cor. Bubeopjang-inyeon, giapp. Fuhōzōin'enden, Trasmissione del tesoro del Dharma, T.D. 2058.50) tradotto, secondo la tradizione, dal sanscrito al cinese da Jíjiāyè (吉迦夜, Kekaya or Kiïkara?, date non disponibili) e da Tányào (曇曜, intorno al 450-490) nel 472 e a cui, nel VI secolo, furono aggiunti i tre patriarchi cinesi: Huìwén (慧文, V secolo), Huìsī (南嶽, 515-577) e Zhìyǐ. Zhìyǐ è comunque considerato il vero fondatore della scuola Tiāntái avendone eretto il primo monastero sulla omonima catena montuosa situata nella provincia cinese dello Zhèjiāng.

La vita e le opere
Zhìyǐ (il suo biǎozì era 德安, pinyin: Déān) nacque nel 538 a Jingzhou (oggi Hubei, situata nella provincia dello Hunan), figlio di un funzionario della Dinastia Liang meridionale (502-557) di nome Chén Qǐzǔ ((陳起祖). Secondo alcune cronache monastiche e secondo il Tiāntái Zhìzhě Dàshī biézhuán (天台智者大師別伝, cor. Cheontae Jijadaesa byeonjeon, giapp. Tendai Chishadaishi betsuden), la biografia redatta dal suo principale discepolo ed erede nel Dharma, Guàndǐng (灌頂, 561-632), Zhìyǐ all'età di sei anni ascoltò in un tempio la recitazione del Guānyin jīng (觀音經, Sutra di Avalokiteśvara, XXV capitolo del Sutra del Loto, giapp.: Kan'nongyō) e ne fu profondamente impressionato; tale evento segnò il resto della sua vita. La sua famiglia decadde durante le guerre dinastiche e Zhìyǐ perse entrambi i genitori durante il conflitto; all'età di diciotto anni entrò come novizio nel tempio di Guoyan (果願寺, oggi nel Distretto di Xiangzhou) contro la volontà del fratello maggiore, Chén Zhen, all'epoca alto ufficiale dell'esercito. Nel tempio di Guoyan studio sotto il maestro Huìkuàng (慧曠).
Dopo un periodo nel monastero del Monte Daxian (大賢山, Dàxián shān nello Hengzhou,), all'età di ventitré anni Zhìyǐ raggiunse il monastero del Monte Dasu (大蘇山, Dàsū shān, nello Henan) dove insegnava Nányuè Huìsī (南岳慧思, 515-577) venticinquesimo patriarca secondo il lignaggio Tiāntái.
Huìsī conferì la piena ordinazione monastica a Zhìyǐ e ne divenne il maestro avviandolo all'approfondimento del Saddharmapuṇḍarīkasūtra (Sutra del Loto, cin. 妙法蓮華經 Miàofǎ Liánhuā Jīng, giapp. Myōhō Renge Kyō, conservato nel Fǎhuābù), del Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra (Grande sutra mahayana della totale estinzione, cin. 大般泥洹經 Dà bān níhuán jīng, giapp. Dainehankyō, conservato nel Nièpánbù) e del Buddhavataṃsakasūtra o Avataṃsakasūtra (Sutra della ghirlanda preziosa, cin. 華嚴經 Huāyán jīng, giapp. Kegon kyō, conservato nel Huāyánbù). Insegnandogli in particolar modo le tecniche meditative del fǎhuā sānmèi (法華三昧, giapp. hokke zanmai, Samadhi del Loto) tipiche della scuola Tiāntái.
Secondo la tradizione, Zhìyǐ ottenne il profondo “risveglio” quattordici giorni dopo l'incontro con Huìsī, “risveglio” che fu subito riconosciuto dal suo maestro che lo nominò suo erede nel Dharma. Zhìyǐ rimase con Huìsī sul Monte Dasu per altri sette anni. Lo scoppio di un'ulteriore guerra dinastica separò nel 567 il maestro dall'allievo: Huìsī tornerà al monastero di Nányuè (南岳, meglio conosciuto come Tempio del Monte Heng, 南岳大庙, attualmente nello Henan) da dove era partito anni prima e lì morirà all'età di sessantadue anni.
Zhìyǐ invece si dirigerà verso Nanchino (capitale della dinastia Chen meridionale, 557-589), risiedendo nel tempio di Wǎguān (瓦官寺, Wǎguānsì) per otto anni, dove tenne una prima serie di lezioni sul Sutra del Loto, poi raccolta nel Fajie cidi chumen (giapp. Hokkai shidai hatsumon ).
Nel 575, all'età di trentotto anni, Zhìyǐ sentì la necessità di tornare alla vita meditativa e decise di dirigersi verso una catena montuosa isolata e selvaggia, denominata Tiāntái (天台, Terrazza celeste), situata a sud di Nanchino, sul versante costiero della provincia dello Zhejiang. Lì Zhìyǐ praticò la meditazione sulla vetta più alta della catena, il Monte Huading (华顶山). Presto raggiunto da alcuni seguaci, e grazie alla fama spirituale che ne seguì, nel 577 l'imperatore della Dinastia Chen (557-589), Xuān (, conosciuto anche come Chén Xù, 陳頊, regno: 568-82) promulgò un editto che destinava le entrate della Prefettura di Shifeng al monastero Tiāntái. Parte di questi finanziamenti furono utilizzati da Zhìyǐ anche per convincere i pescatori del luogo a cambiare attività economica, la quale consisteva nella continua uccisione di esseri viventi.
Nel 584, Zhìyǐ fu raggiunto sui monti Tiāntái da un giovane monaco di Zhang'an (oggi nello Zhejiang), Guàndǐng (灌頂, 561-632), che diventò il suo principale discepolo e il suo successore nel lignaggio Tiāntái.
Dopo dieci anni passati sulle vette, nel 585 fu convinto dall'imperatore Hòu Zhǔ (後主, conosciuto anche come Chén Shúbǎo, 陳叔寶, ultimo imperatore della dinastia Chen, regno: 582-89) a rientrare a Nanchino. Accompagnato da Guàndǐng, a Nanchino Zhìyǐ tenne una seconda serie di lezioni sul Sutra del Loto, successivamente raccolta nel Miàofǎliánhuājīng wénjù (妙法蓮華經文句, anche Fǎhuā wénjù, Parole del Sutra del Loto, giapp. Myōhōrengekyō mongu, T.D. 1718) dal suo discepolo e che rappresenta la sua prima opera maggiore. Sempre a Nanchino vi fu l'incontro tra Zhìyǐ e Zhìkǎi (智鎧, 533-610) al quale Zhìyǐ insegnò la tecnica meditativa dello zhǐguān (止觀) e la devozione al Sutra del Loto.
Nel 588 Nanchino fu attaccata dalle armate settentrionali della neonata Dinastia Sui (già Dinastia Zhou settentrionale) e Zhìyǐ, Guàndǐng e Zhìkǎi si diressero prima sul Monte Lu (廬山 Lú shān, dove Zhìkǎi si fermò) poi al tempio di Nányuè dove era risieduto, fino alla morte, il suo maestro Huìsī. Dopo il rovesciamento della Dinastia Chen, Zhìyǐ si recò a Dangyang (nello Hubei) e vi fondò il tempio Yuquan (玉泉寺) sull'omonimo monte, dove tenne altre lezioni sul Sutra del Loto raccolte, sempre da Guàndǐng, nel Miàofǎ liánhuā jīngxuán yì (妙法蓮華經玄義, anche Fǎhuā xuányì , Il profondo significato del Sutra del Loto della Legge meravigliosa, giapp. Myōhō renge kyōgen gi, T.D. 1716, 33.618-815), la seconda delle sue opere maggiori.
L'anno successivo, 594, espose la sua terza opera maggiore il Móhē Zhǐguān (摩訶止觀, Grande trattato di calma e discernimento, giapp. Maka Shikan, T.D. 1911). Tornò quindi al monastero del monte Tiantai, dove morì nel 597 all'età di cinquantanove anni, dopo aver impartito i suoi ultimi insegnamenti raccolti nel Guānxīn lùn (觀心論, Vedere la mente, giapp. Kanjin ron, T.D. 1920, 46.584-587).
Mentre era ancora in vita, il primo imperatore della dinastia Sui, Wén (, conosciuto anche come Yáng Jiān, 揚堅, regno: 581-604), lo insignì del titolo di Zhìzhě dàshī (智者大師, Maestro Sapiente); dopo la sua morte, in epoca Tang, ricevette l'appellativo di Tiāntái dàshī (天台大師, Grande Maestro Tiāntái).

La rivelazione del Miàofǎ Liánhuā Jīng (妙法蓮華經) e la dottrina dello yuánróng sāndì(圓融三諦)
Gli aspetti più interessanti della dottrina buddhista insegnata da Zhìyǐ, e che rappresentano il cuore dell'insegnamento della scuola Tiāntái, si fondano su un originale sviluppo della scuola indiana dei Mādhyamika promossa da Nāgārjuna nel II secolo. Questa dottrina, denominata della Triplice verità (cin. 圓融三諦 yuánróng sāndì, giapp. enyū santai) sostiene che dal punto di vista della Verità assoluta (sans. paramārtha-satya o śūnyatā-satya, cin. 空諦 kōngdì, giapp. kūtai) tutta la Realtà che ci appare è vuota di proprietà inerente: essa è impermanente dal punto di vista temporale e, nel contempo, non c'è un fenomeno che non dipenda dagli altri fenomeni. Questa vacuità (sans. śūnyatā, cin. kōng, giapp. kū) si poggia tuttavia sulla Verità convenzionale (sans. saṃvṛti-satya, cin. 假諦 jiǎdì, giapp. ketai) dove i singoli fenomeni vengono percepiti nella loro unicità. La sintesi esperienziale di queste due Verità, apparentemente contraddittorie, porta alla realizzazione della terza verità, la Verità di mezzo (sanscrito mādhya-satya, cin. 中諦 zhōngdì, giapp. chūtai). È evidente l'originalità di questa posizione rispetto allo sviluppo dottrinale contemporaneo della scuola dei Madhyamika indiana (in particolare con l'opera di Candrakīrti) dove invece veniva chiaramente indicata la prevalenza della Verità assoluta (paramārthasatya) come 'vera' realtà delle cose, rispetto alla Verità convenzionale (samvrtisatya), una 'verità' solamente funzionale, strumentale, che non corrisponde alla vera Realtà che è sempre e comunque vacuità (śūnyatā). Tale posizione viene interpretata da Zhìyǐ come una possibile lettura nichilista della dottrina del Buddha Śākyamuni.
L'insegnamento di Zhìyǐ della Triplice verità legge il mondo fenomenico (la Verità convenzionale) nella Verità ultima per cui anche la mondanità, se ben compresa alla luce della Triplice Verità, non è distinta ed appartiene proprio alla Verità ultima, in quanto tutte le cose e tutta la Realtà additano l'Illuminazione. Grazie a questo insegnamento vi è una riconciliazione della bellezza, dell'estetica e in generale di tutte le attività umane, con più ascetici insegnamenti buddhisti sulla verità. Così la poesia, ad esempio, può essere considerata come un mezzo che conduce al perfezionamento spirituale. La contemplazione della poesia è semplicemente contemplazione del Dharma. Ciò può essere affermato per ogni altra forma d'arte, di studio e di attività. La traccia di questo percorso di svelamento della Realtà, secondo la scuola Tiāntái, ha inizio con l'opera di Huìwén (慧文, vissuto intorno alla metà del VI sec., di lui non rimane alcuna opera) a cui la tradizione dà il merito di aver, per primo, intuito la 'simultaneità delle tre consapevolezze': consapevolezza della vacuità di ogni fenomeno, consapevolezza della sua unicità provvisoria e quindi consapevolezza unita di vacuità e unicità provvisoria di ogni fenomeno o suoi insiemi. All'opera di Huìwén segue quella di Huìsī (南嶽, 515-577, si conservano di lui diverse opere), grande cultore del Sutra del Loto (sanscrito Saddharmapundarīkasūtra, cin. 妙法蓮華經 Fǎhuā jīng o Miàofǎ Liánhuā Jīng, giapp. Myōhō renge kyō o Hokkekyō, è conservato nel Fǎhuābù). Huìsī intuisce nel simbolo del Loto, che non ha fiore che non produca frutti, una metafora della stessa vita. Non c'è vita che non si poggi sulla buddhità, sulla natura di Buddha. Quando la vita si esprime nelle condotte esse stesse non possono che condurre verso la stessa buddhità. Ogni azione è azione della natura di Buddha e conduce alla buddhità stessa, questo anche quando colui che agisce non ne è consapevole. La dottrina delle 'Tre consapevolezze' di Huìwén unita alle intuizioni di Huìsī sul Sutra del Loto, con particolare riguardo al II capitolo dove vengono elencate le dieci talità della Realtà ognuna vista contemporaneamente nella sua vacuità e unicità provvisoria, portano Zhìyǐ ad esprimere la prima dottrina compiuta della scuola Tiāntái. È da tener presente il fondamentale ruolo del Sutra del Loto nell'insegnamento della scuola Tiāntái, in quanto questo sutra contiene una complessiva reinterpretazione, sotto forma di rivelazione, di tutte le dottrine buddhiste all'epoca discusse, sia nell'ambito del Buddhismo dei Nikāya (Hīnayāna) sia in quello del Mahāyāna. La lettura che dà di quest'opera Zhìyǐ non è tuttavia una lettura polemica nei confronti degli śrāvaka (聲聞, shēngwèn) e dei pratyekabuddha (緣覺, yuánjué), le due vie Hīnayāna secondo i mahayanisti indiani, bensì esprime la consapevolezza che all'interno di una lettura radicale della interdipendenza di tutti i fenomeni, anche i comportamenti ritenuti 'inferiori' da parte dei mahayanisti rivestono un autentico lavoro del Buddha. Questo profondo lavoro ermeneutico da parte Zhìyǐ trova origine nel fatto che, grazie soprattutto all'opera di Kumārajīva (344-413), dei suoi collaboratori e dei suoi discepoli, il Canone buddhista cinese conteneva ormai la quasi totalità delle principali opere buddhiste indiane. L'origine di tali opere, sutra e commentari, veniva per tradizione attribuita allo stesso Buddha Shakyamuni. Purtuttavia, erano evidenti le contraddizioni tra queste opere. Il Sutra del Loto rileggeva tutti questi insegnamenti fornendo un'organica interpretazione e fornendo un ulteriore e innovativo messaggio di liberazione. Da qui la scelta del Tiantai di farsi portavoce di questa antichissima opera buddhista indiana e del suo messaggio rivelatore.

La dottrina dello yīniàn sānqiān (一念三千)
La lettura del Sutra del Loto alla luce della elaborazione, di impronta Mādhyamika, della Triplice verità porta Zhìyǐ a elaborare la dottrina dello yīniàn sānqiān (一念三千, "tremila mondi in un istante di vita", giapp. ichinen sanzen). Questa dottrina esprime un complesso olismo e omnicentrismo radicale che caratterizza l'unicità dell'insegnamento Tiāntái nel panorama delle dottrine buddhiste. Essa sostiene che, dal punto di vista del pensiero, tutti i mondi (le singole esperienze e la individuazione dei singoli oggetti di esperienza) esistono certamente, ma la pratica meditativa consente di scorgerne la loro ambiguità, la loro indeterminatezza. Essi esistono solo in quanto la mente li delimita in modo arbitrario sia dal punto di vista spaziale che da quello temporale. Visti nella loro continuità temporale e nel loro condizionamente reciproco questi 'mondi' non possono essere considerati che 'vuoti', privi di un'identità inerente. Ma il pensiero, ovvero la vita, non si accontenta della loro vacuità, soffrendo d'altro canto per la loro incostante 'esistenza' (ogni fenomeno appare, esiste e scompare): è l'ambiguità di questi 'mondi' a generare la sofferenza negli esseri senzienti (sanscrito sattva, cin. 衆生 zhòngshēng, giapp. shūjō) ed è il continuo esercizio di consapevolezza dello zhǐguān sulla dottrina dello yīniàn sānqiān e dello yuánróng sāndì (Triplice verità) che può portare, secondo Zhìyǐ la salvezza da questa condizione. Le realtà possibili in un solo pensiero (sans. eka-kṣaṇa, cin. 一念 yīniàn, giapp. ichinen) indicati in questa dottrina, sono tremila (sanscrito tri-sāhasra, cin. 三千 sānqiān, giapp. sanzen) in quanto inglobano tutte le condizioni esperibili: 10 sono le condizioni esistenziali Dieci mondi, (十界 cin. shíjiè, giapp. jùkai) che vanno dalla condizione infernale (sanscrito apāya-bhūmi, 地獄 cin. dìyù, giapp. jigoku) vincolato all'odio, alla stato di buddha (cin. Fó, giapp. butsu), che corrisponde alla realizzazione del nirvana non statico (sans. apratiṣṭhita-nirvāṇa, 無住涅槃 cin. wúzhù nièpán, giapp. mujū nehan) proprio di chi realizza la piena illuminazione (sans. samyak-saṃbodhi, 正等覺 cin. zhèngděngjué, giapp. shōtōkaku). Tali condizioni esistenziali vanno moltiplicate per sé stesse in quanto tutte queste condizioni, da quella infernale a quella buddhica, implicano potenzialmente le altre nove esistenze al loro stesso interno. Queste cento potenziali esistenze vanno poi moltiplicate per le 10 talità (vera natura dei dharma, sans. tathātā, 如是實相 cin. rúshì shíxiàng, giapp. nyoze jissō) indicate nel Sutra del Loto e che corrispondono a: caratteristiche, natura, essenza, forza, azione, causa, condizione, retribuzione, frutto e uguaglianza di tutte queste talità tra loro. Questi mille dharma vanno poi moltiplicati per i tre mondi (sans. loka, cin. shì, giapp. se) ovvero per i cinque aggregati (sans. pañca skandha, 五蘊 cin. wǔyùn, giapp. goun), per gli esseri costituiti dai cinque aggregati (sanscrito sattva, cin. 衆生 zhòngshēng, giapp. shūjō) e per il luogo in cui essi vivono (sanscrito talima, cin. dì, giapp. ji), raggiungendo il numero di tremila mondi (sanscrito tri-sāhasra, cin. 三千 sānqiān, giapp. sanzen). La vita può manifestarsi in queste tremila condizioni cambiando costantemente anche a seconda dei vissuti della mente, ma questi tremila mondi sono, per la dottrina Tiāntái, tutti immancabilmente vuoti (sans. śūnyatā, cin. kōng, giapp. kū) e non sono né esistenti né non esistenti.


martedì 10 maggio 2011

Masakari

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Il masakari () (anche conosciuta come fuetsu (斧鉞) e ono ()) è una grossa ascia giapponese da guerra ad un solo taglio, per certi aspetti analoga a modelli cinesi e occidentali.

Informazioni generali
A differenza delle scuri occidentali o cinesi non presenta un manico rotondo o ottagonale, ma un manico rettangolare. Anche la lama è particolare dato che è molto curva verso il basso, questa forma a gancio probabilmente serviva ad agganciare l'arma del nemico per disarmarlo.

Nelle arti marziali
L'arte che ne trasmette l'uso in battaglia faceva parte di alcune tradizioni di bujutsu, tuttavia a partire dall'epoca Heian quest'arma fu gradualmente abbandonata in favore di altre più maneggevoli e utili nelle grandi battaglie campali. Rimase così per lo più relegata nelle dimore o nei templi, come arma da difesa o simbolica.


lunedì 9 maggio 2011

Imperatore di Giada

Imperatore di giada | l'origine e la storia



L'Imperatore di Giada (玉皇 Pinyin: Yù Huáng o 玉帝 Yù Dì), informalmente conosciuto anche come Padre Cielo (天公 Tiān Gōng) e formalmente come Puro Imperatore di Giada (玉皇上帝 Yu Huang Shangdi o 玉皇大帝 Yu Huang Dadi), è il sovrano del paradiso della mitologia cinese e una delle maggiori divinità del pantheon della religione taoista.
Dal Nono secolo, era anche il patrono della famiglia imperiale cinese, era infatti considerato il corrispondente celeste dell'imperatore terrestre. Nell'antica Cina era rappresentato come il capostipite di una burocrazia celeste.
A un cratere del satellite Rea, di Saturno, scoperto dal Voyager 2, è stato dato il nome della divinità cinese.

Mitologia cinese
Ci sono molte storie nella mitologia cinese riguardanti l'Imperatore di Giada.

Le origini dell'Imperatore di Giada
Una leggenda racconta che originariamente era il principe del Regno della pura Felicità e della Mistica Luce Celeste. Alla nascita emise uno straordinario bagliore luminoso che aveva invaso tutto il regno. Già in gioventù era intelligente e saggio. Spese tutta la sua giovinezza nel sostentamento dei poveri, dei sofferenti e degli ammalati, ottenendo grande rispetto e benevolenza da ogni creatura.
Successivamente il padre morì, ed egli ascese al trono. Si assicurò che nel suo regno chiunque potesse trovare pace e felicità, e fatto questo iniziò a ritirarsi su di un monte per studiare e coltivare il Tao.
Dopo 1.750 periodi di tempo, ciascuno di 120.976 anni, ottenne l'Immortalità Dorata. Dopo altri cento milioni di anni di accrescimento, divenne finalmente l'Imperatore di Giada.

L'Imperatore di Giada sconfigge il Male
C'è un mito poco conosciuto su come l'Imperatore di Giada divenne il capo di tutti gli dèi del paradiso.
All'inizio dei tempi, la Terra era un luogo inospitale e non adatto alla vita. Gli uomini andavano incontro a tremende difficoltà; ma non avevano solo a che fare con una difficile sopravvivenza, ma anche con vari tipi di esseri mostruosi.
A quest'epoca, non c'erano molte divinità a proteggere gli umani, e gli Xian (immortali) del cielo erano minacciati da potenti demoni. L'Imperatore di Giada era ancora un semplice immortale che aiutava, come poteva, gli umani sulla Terra, ma era triste poiché i suoi poteri non bastavano ad alleviare le sofferenze degli uomini. Decise così di ritirarsi su una montagna e coltivare il Tao. Lo fece per 3000 periodi di tempo, ognuno di 3 miliardi di anni.
Sfortunatamente, una potente entità del Male stava conquistando la Terra e sottomettendo gli Xian e gli dèi del cielo, per proclamare la sua sovranità sull'intero Universo. Ma anche l'entità maligna si ritirò per accrescere i suoi poteri, e dopo altri 3000 periodi di tempo di 3 miliardi di anni ognuno, tornò, reclutò un'armata di demoni e si preparò per attaccare il Cielo.
Gli Xian immortali si prepararono alla guerra, ma gli dèi non erano abbastanza potenti per respingere i demoni. In questo periodo erano i Tre Puri i sovrani degli esseri celesti.
Fortunatamente l'Imperatore di Giada concluse il suo accrescimento nello stesso periodo della guerra. Era ormai abbastanza potente per sconfiggere il Male.
Salì al cielo, constatò che la guerra stava per iniziare e che i demoni erano troppo potenti per essere sconfitti dagli dèi presenti. Decise di sfidare i demoni e la guerra iniziò. Montagne crollarono e fiumi strariparono; comunque l'Imperatore di Giada uscì dalla guerra vittorioso, grazie alla grande saggezza che aveva coltivato. Dopo aver scacciato i demoni più potenti, gli altri furono sconfitti dagli Xian e dagli dèi.
Grazie alla sua saggezza, dèi e immortali proclamarono l'Imperatore di Giada loro sovrano.
Lo zodiaco cinese
Ci sono parecchie storie riguardanti i dodici animali dello zodiaco cinese, e su come siano stati scelti. In una leggenda, l'Imperatore di Giada, già sovrano del Cielo e della terra da parecchi anni, decise di visitare la Terra personalmente. Si stupì nell'ammirare le curiose creature terrestri. Decise di prenderne dodici, da portare al Cielo, per mostrarle agli esseri divini.
Gli animali che portò via furono: un topo, un gatto, un toro, una tigre, un coniglio, un drago, un serpente, un cavallo, una capra, una scimmia, una gallina, e un cane. Il gatto, il più bello degli animali, chiese al topo di informarlo il giorno in cui l'Imperatore di Giada sarebbe venuto a prenderli. Ma il topo, geloso della bellezza del gatto paragonata alla sua, non lo informò. Conseguentemente, il gatto non si presentò all'arrivo dell'Imperatore di Giada, e fu sostituito con il maiale. L'Imperatore di Giada, affascinato dagli animali, decise di attribuire ad ognuno di essi un anno del calendario. Quando il gatto venne a sapere cosa era successo, si arrabbiò furiosamente con il topo. La leggenda vuole spiegare anche l'origine dell'inimicizia tra gatti e topi.

Suoi predecessori e successori
In origine l'Imperatore di Giada era assistente del Divino maestro delle Origini Celesti, Yuan-shi tian-zong. La mitologia vuole che Yuan-shi tian-zong fosse l'origine di tutto, e che avesse scelto l'Imperatore di Giada come suo successore. L'Imperatore di Giada è anche considerato successore del Maestro Divino della Porta Dorata. I volti dei due dèi sono raffigurati sui braccioli del trono dell'Imperatore di Giada.

Venerazione e festività
Il compleanno dell'Imperatore di Giada è festeggiato durante il primo mese lunare. In questo giorno i templi taoisti svolgono un rituale in onore del dio, l'Adorazione del Cielo (拜天公 bài tiān gōng), durante il quale preti e monaci si prostrano ai piedi delle statue, bruciano incenso e preparano cibo votivo.
La festa del Capodanno cinese è anch'essa un giorno di adorazione: la leggenda vuole che in questo giorno l'Imperatore di Giada svolga la sua ispezione annuale delle azioni umane, per poi punire quelle maligne e ricompensare quelle benevole. Nel giorno del Nuovo Anno vengono bruciati incensi e si offrono doni all'Imperatore di Giada e al dio Zao Jun, divinità della casa e della famiglia.


domenica 17 ottobre 2010

Spada d'abbordaggio genovese

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La spada d'abbordaggio genovese è un'arma bianca e uno strumento di lavoro utilizzato da marinai, pirati e militari dalla seconda metà del XVII secolo al XX.

Dimensioni e uso
L'arma è caratterizzata da una lama massiccia e larga (4-6 cm). La lunghezza è di circa 60 cm. La differenza tra quest'arma e le sciabole d'abbordaggio risiede nella lama, il cui andamento è meno curvo. La spada consente un maggiore controllo e permette di combattere più efficacemente a distanza corta e durante la abbordaggio. Con la spada si pratica la scherma genovese.
Con la spada d'abbordaggio genovese si può tagliare, pungere, o utilizzarla come un'arma bianca. Il pomo, costituito da un pomello di metallo situato alla base dell'impugnatura, assicura un bilanciamento ottimale dell'arma, oltre che migliorare la presa е difendere il pennello. La scherma genovese include la tecnica di attacco con la spada d'abbordaggio genovese.
La lama pesante permette di tagliare porte, corde e altro.


sabato 16 ottobre 2010

Spada a tazza

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La spada a tazza è una tipica arma bianca dell'esercito mamelucco. Prese piede in occidente durante il periodo che va dal 1650 al 1700 circa, quando l'impero turco controllava buona parte del Mediterraneo. Era costituita da una lama sottile e flessibile, che si ripiegava più volte su se stessa. La lama veniva poi inserita nel fodero, costituito da una tazza, o un recipiente atto a contenere liquidi, molto spesso una tazzina decorata. L'impugnatura dell'arma corrispondeva al manico della tazzina. L'aspetto di quest'arma era camuffato per non destare sospetti, e veniva sguainata nel momento opportuno per effettuare un attacco a sorpresa.