Zhìyǐ Tiāntái Dàshī
(智顗
天台 大師, anche: Chih-i, Tche-yi, 智者
Zhìzhě; coreano: 지의,
Jiui o 지자, Jija; giapponese:
Chigi o Chisha; Hubei, 538 – Monti Tiantai, 597) è stato un monaco
buddhista cinese, Patriarca della scuola Tiāntái.
Ventiseiesimo patriarca della scuola
buddhista cinese Tiāntái (天台宗,
giapp. Tendai), secondo il lignaggio che segue la lista dei ventitré
patriarchi indiani indicati nel Fù fǎzàng yīnyuán zhuàn
(付法藏因緣傳, cor.
Bubeopjang-inyeon, giapp. Fuhōzōin'enden, Trasmissione del tesoro
del Dharma, T.D. 2058.50) tradotto, secondo la tradizione, dal
sanscrito al cinese da Jíjiāyè (吉迦夜,
Kekaya or Kiïkara?, date non disponibili) e da Tányào (曇曜,
intorno al 450-490) nel 472 e a cui, nel VI secolo, furono aggiunti i
tre patriarchi cinesi: Huìwén (慧文,
V secolo), Huìsī (南嶽,
515-577) e Zhìyǐ. Zhìyǐ è comunque considerato il vero fondatore
della scuola Tiāntái avendone eretto il primo monastero sulla
omonima catena montuosa situata nella provincia cinese dello
Zhèjiāng.
Zhìyǐ
(il suo biǎozì era 德安,
pinyin: Déān) nacque nel 538 a Jingzhou (oggi Hubei, situata nella
provincia dello Hunan), figlio di un funzionario della Dinastia Liang
meridionale (502-557) di nome Chén Qǐzǔ ((陳起祖).
Secondo alcune cronache monastiche e secondo il Tiāntái Zhìzhě
Dàshī biézhuán (天台智者大師別伝,
cor. Cheontae Jijadaesa byeonjeon, giapp. Tendai Chishadaishi
betsuden), la biografia redatta dal suo principale discepolo ed erede
nel Dharma, Guàndǐng (灌頂,
561-632), Zhìyǐ all'età di sei anni ascoltò in un tempio la
recitazione del Guānyin jīng (觀音經,
Sutra di Avalokiteśvara, XXV capitolo del Sutra del Loto, giapp.:
Kan'nongyō) e ne fu profondamente impressionato; tale evento segnò
il resto della sua vita. La sua famiglia decadde durante le guerre
dinastiche e Zhìyǐ perse entrambi i genitori durante il conflitto;
all'età di diciotto anni entrò come novizio nel tempio di Guoyan
(果願寺, oggi nel Distretto
di Xiangzhou) contro la volontà del fratello maggiore, Chén Zhen,
all'epoca alto ufficiale dell'esercito. Nel tempio di Guoyan studio
sotto il maestro Huìkuàng (慧曠).
Dopo un periodo nel monastero del Monte
Daxian (大賢山, Dàxián shān
nello Hengzhou,), all'età di ventitré anni Zhìyǐ raggiunse il
monastero del Monte Dasu (大蘇山,
Dàsū shān, nello Henan) dove insegnava Nányuè Huìsī (南岳慧思,
515-577) venticinquesimo patriarca secondo il lignaggio Tiāntái.
Huìsī conferì la piena ordinazione
monastica a Zhìyǐ e ne divenne il maestro avviandolo
all'approfondimento del Saddharmapuṇḍarīkasūtra (Sutra del
Loto, cin. 妙法蓮華經 Miàofǎ
Liánhuā Jīng, giapp. Myōhō Renge Kyō, conservato nel Fǎhuābù),
del Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra (Grande sutra mahayana della
totale estinzione, cin. 大般泥洹經
Dà bān níhuán jīng, giapp. Dainehankyō, conservato nel
Nièpánbù) e del Buddhavataṃsakasūtra o Avataṃsakasūtra
(Sutra della ghirlanda preziosa, cin. 華嚴經
Huāyán jīng, giapp. Kegon kyō, conservato nel Huāyánbù).
Insegnandogli in particolar modo le tecniche meditative del fǎhuā
sānmèi (法華三昧, giapp.
hokke zanmai, Samadhi del Loto) tipiche della scuola Tiāntái.
Secondo la tradizione, Zhìyǐ ottenne
il profondo “risveglio” quattordici giorni dopo l'incontro con
Huìsī, “risveglio” che fu subito riconosciuto dal suo maestro
che lo nominò suo erede nel Dharma. Zhìyǐ rimase con Huìsī sul
Monte Dasu per altri sette anni. Lo scoppio di un'ulteriore guerra
dinastica separò nel 567 il maestro dall'allievo: Huìsī tornerà
al monastero di Nányuè (南岳,
meglio conosciuto come Tempio del Monte Heng, 南岳大庙,
attualmente nello Henan) da dove era partito anni prima e lì morirà
all'età di sessantadue anni.
Zhìyǐ invece si dirigerà verso
Nanchino (capitale della dinastia Chen meridionale, 557-589),
risiedendo nel tempio di Wǎguān (瓦官寺,
Wǎguānsì) per otto anni, dove tenne una prima serie di lezioni sul
Sutra del Loto, poi raccolta nel Fajie cidi chumen (giapp. Hokkai
shidai hatsumon ).
Nel 575, all'età di trentotto anni,
Zhìyǐ sentì la necessità di tornare alla vita meditativa e decise
di dirigersi verso una catena montuosa isolata e selvaggia,
denominata Tiāntái (天台,
Terrazza celeste), situata a sud di Nanchino, sul versante costiero
della provincia dello Zhejiang. Lì Zhìyǐ praticò la meditazione
sulla vetta più alta della catena, il Monte Huading (华顶山).
Presto raggiunto da alcuni seguaci, e grazie alla fama spirituale che
ne seguì, nel 577 l'imperatore della Dinastia Chen (557-589), Xuān
(宣, conosciuto anche come Chén
Xù, 陳頊, regno: 568-82)
promulgò un editto che destinava le entrate della Prefettura di
Shifeng al monastero Tiāntái. Parte di questi finanziamenti furono
utilizzati da Zhìyǐ anche per convincere i pescatori del luogo a
cambiare attività economica, la quale consisteva nella continua
uccisione di esseri viventi.
Nel 584, Zhìyǐ fu raggiunto sui monti
Tiāntái da un giovane monaco di Zhang'an (oggi nello Zhejiang),
Guàndǐng (灌頂, 561-632),
che diventò il suo principale discepolo e il suo successore nel
lignaggio Tiāntái.
Dopo dieci anni passati sulle vette,
nel 585 fu convinto dall'imperatore Hòu Zhǔ (後主,
conosciuto anche come Chén Shúbǎo, 陳叔寶,
ultimo imperatore della dinastia Chen, regno: 582-89) a rientrare a
Nanchino. Accompagnato da Guàndǐng, a Nanchino Zhìyǐ tenne una
seconda serie di lezioni sul Sutra del Loto, successivamente raccolta
nel Miàofǎliánhuājīng wénjù (妙法蓮華經文句,
anche Fǎhuā wénjù, Parole del Sutra del Loto, giapp.
Myōhōrengekyō mongu, T.D. 1718) dal suo discepolo e che
rappresenta la sua prima opera maggiore. Sempre a Nanchino vi fu
l'incontro tra Zhìyǐ e Zhìkǎi (智鎧,
533-610) al quale Zhìyǐ insegnò la tecnica meditativa dello
zhǐguān (止觀) e la
devozione al Sutra del Loto.
Nel 588 Nanchino fu attaccata dalle
armate settentrionali della neonata Dinastia Sui (già Dinastia Zhou
settentrionale) e Zhìyǐ, Guàndǐng e Zhìkǎi si diressero prima
sul Monte Lu (廬山 Lú shān,
dove Zhìkǎi si fermò) poi al tempio di Nányuè dove era
risieduto, fino alla morte, il suo maestro Huìsī. Dopo il
rovesciamento della Dinastia Chen, Zhìyǐ si recò a Dangyang (nello
Hubei) e vi fondò il tempio Yuquan (玉泉寺)
sull'omonimo monte, dove tenne altre lezioni sul Sutra del Loto
raccolte, sempre da Guàndǐng, nel Miàofǎ liánhuā jīngxuán yì
(妙法蓮華經玄義, anche
Fǎhuā xuányì , Il profondo significato del Sutra del Loto della
Legge meravigliosa, giapp. Myōhō renge kyōgen gi, T.D. 1716,
33.618-815), la seconda delle sue opere maggiori.
L'anno successivo, 594, espose la sua
terza opera maggiore il Móhē Zhǐguān (摩訶止觀,
Grande trattato di calma e discernimento, giapp. Maka Shikan, T.D.
1911). Tornò quindi al monastero del monte Tiantai, dove morì nel
597 all'età di cinquantanove anni, dopo aver impartito i suoi ultimi
insegnamenti raccolti nel Guānxīn lùn (觀心論,
Vedere la mente, giapp. Kanjin ron, T.D. 1920, 46.584-587).
Mentre era ancora in vita, il primo
imperatore della dinastia Sui, Wén (文,
conosciuto anche come Yáng Jiān, 揚堅,
regno: 581-604), lo insignì del titolo di Zhìzhě dàshī (智者大師,
Maestro Sapiente); dopo la sua morte, in epoca Tang, ricevette
l'appellativo di Tiāntái dàshī (天台大師,
Grande Maestro Tiāntái).
Gli aspetti più interessanti della
dottrina buddhista insegnata da Zhìyǐ, e che rappresentano il cuore
dell'insegnamento della scuola Tiāntái, si fondano su un originale
sviluppo della scuola indiana dei Mādhyamika promossa da Nāgārjuna
nel II secolo. Questa dottrina, denominata della Triplice verità
(cin. 圓融三諦 yuánróng
sāndì, giapp. enyū santai) sostiene che dal punto di vista della
Verità assoluta (sans. paramārtha-satya o śūnyatā-satya, cin. 空諦
kōngdì, giapp. kūtai) tutta la Realtà che ci appare è
vuota di proprietà inerente: essa è impermanente dal punto di vista
temporale e, nel contempo, non c'è un fenomeno che non dipenda dagli
altri fenomeni. Questa vacuità (sans. śūnyatā, cin. 空
kōng, giapp. kū) si poggia tuttavia sulla Verità
convenzionale (sans. saṃvṛti-satya, cin. 假諦
jiǎdì, giapp. ketai) dove i singoli fenomeni vengono
percepiti nella loro unicità. La sintesi esperienziale di queste due
Verità, apparentemente contraddittorie, porta alla realizzazione
della terza verità, la Verità di mezzo (sanscrito mādhya-satya,
cin. 中諦 zhōngdì, giapp.
chūtai). È evidente l'originalità di questa posizione rispetto
allo sviluppo dottrinale contemporaneo della scuola dei Madhyamika
indiana (in particolare con l'opera di Candrakīrti) dove invece
veniva chiaramente indicata la prevalenza della Verità assoluta
(paramārthasatya) come 'vera' realtà delle cose, rispetto alla
Verità convenzionale (samvrtisatya), una 'verità' solamente
funzionale, strumentale, che non corrisponde alla vera Realtà che è
sempre e comunque vacuità (śūnyatā). Tale posizione viene
interpretata da Zhìyǐ come una possibile lettura nichilista della
dottrina del Buddha Śākyamuni.
L'insegnamento di Zhìyǐ della
Triplice verità legge il mondo fenomenico (la Verità convenzionale)
nella Verità ultima per cui anche la mondanità, se ben compresa
alla luce della Triplice Verità, non è distinta ed appartiene
proprio alla Verità ultima, in quanto tutte le cose e tutta la
Realtà additano l'Illuminazione. Grazie a questo insegnamento vi è
una riconciliazione della bellezza, dell'estetica e in generale di
tutte le attività umane, con più ascetici insegnamenti buddhisti
sulla verità. Così la poesia, ad esempio, può essere considerata
come un mezzo che conduce al perfezionamento spirituale. La
contemplazione della poesia è semplicemente contemplazione del
Dharma. Ciò può essere affermato per ogni altra forma d'arte, di
studio e di attività. La traccia di questo percorso di svelamento
della Realtà, secondo la scuola Tiāntái, ha inizio con l'opera di
Huìwén (慧文, vissuto
intorno alla metà del VI sec., di lui non rimane alcuna opera) a cui
la tradizione dà il merito di aver, per primo, intuito la
'simultaneità delle tre consapevolezze': consapevolezza della
vacuità di ogni fenomeno, consapevolezza della sua unicità
provvisoria e quindi consapevolezza unita di vacuità e unicità
provvisoria di ogni fenomeno o suoi insiemi. All'opera di Huìwén
segue quella di Huìsī (南嶽,
515-577, si conservano di lui diverse opere), grande cultore del
Sutra del Loto (sanscrito Saddharmapundarīkasūtra, cin. 妙法蓮華經
Fǎhuā jīng o Miàofǎ Liánhuā Jīng, giapp. Myōhō renge
kyō o Hokkekyō, è conservato nel Fǎhuābù). Huìsī intuisce nel
simbolo del Loto, che non ha fiore che non produca frutti, una
metafora della stessa vita. Non c'è vita che non si poggi sulla
buddhità, sulla natura di Buddha. Quando la vita si esprime nelle
condotte esse stesse non possono che condurre verso la stessa
buddhità. Ogni azione è azione della natura di Buddha e conduce
alla buddhità stessa, questo anche quando colui che agisce non ne è
consapevole. La dottrina delle 'Tre consapevolezze' di Huìwén unita
alle intuizioni di Huìsī sul Sutra del Loto, con particolare
riguardo al II capitolo dove vengono elencate le dieci talità della
Realtà ognuna vista contemporaneamente nella sua vacuità e unicità
provvisoria, portano Zhìyǐ ad esprimere la prima dottrina compiuta
della scuola Tiāntái. È da tener presente il fondamentale ruolo
del Sutra del Loto nell'insegnamento della scuola Tiāntái, in
quanto questo sutra contiene una complessiva reinterpretazione, sotto
forma di rivelazione, di tutte le dottrine buddhiste all'epoca
discusse, sia nell'ambito del Buddhismo dei Nikāya (Hīnayāna) sia
in quello del Mahāyāna. La lettura che dà di quest'opera Zhìyǐ
non è tuttavia una lettura polemica nei confronti degli śrāvaka
(聲聞, shēngwèn) e dei
pratyekabuddha (緣覺,
yuánjué), le due vie Hīnayāna secondo i mahayanisti indiani,
bensì esprime la consapevolezza che all'interno di una lettura
radicale della interdipendenza di tutti i fenomeni, anche i
comportamenti ritenuti 'inferiori' da parte dei mahayanisti rivestono
un autentico lavoro del Buddha. Questo profondo lavoro ermeneutico da
parte Zhìyǐ trova origine nel fatto che, grazie soprattutto
all'opera di Kumārajīva (344-413), dei suoi collaboratori e dei
suoi discepoli, il Canone buddhista cinese conteneva ormai la quasi
totalità delle principali opere buddhiste indiane. L'origine di tali
opere, sutra e commentari, veniva per tradizione attribuita allo
stesso Buddha Shakyamuni. Purtuttavia, erano evidenti le
contraddizioni tra queste opere. Il Sutra del Loto rileggeva tutti
questi insegnamenti fornendo un'organica interpretazione e fornendo
un ulteriore e innovativo messaggio di liberazione. Da qui la scelta
del Tiantai di farsi portavoce di questa antichissima opera buddhista
indiana e del suo messaggio rivelatore.
La lettura del Sutra del Loto alla luce
della elaborazione, di impronta Mādhyamika, della Triplice verità
porta Zhìyǐ a elaborare la dottrina dello yīniàn sānqiān (一念三千,
"tremila mondi in un istante di vita", giapp. ichinen
sanzen). Questa dottrina esprime un complesso olismo e omnicentrismo
radicale che caratterizza l'unicità dell'insegnamento Tiāntái nel
panorama delle dottrine buddhiste. Essa sostiene che, dal punto di
vista del pensiero, tutti i mondi (le singole esperienze e la
individuazione dei singoli oggetti di esperienza) esistono
certamente, ma la pratica meditativa consente di scorgerne la loro
ambiguità, la loro indeterminatezza. Essi esistono solo in quanto la
mente li delimita in modo arbitrario sia dal punto di vista spaziale
che da quello temporale. Visti nella loro continuità temporale e nel
loro condizionamente reciproco questi 'mondi' non possono essere
considerati che 'vuoti', privi di un'identità inerente. Ma il
pensiero, ovvero la vita, non si accontenta della loro vacuità,
soffrendo d'altro canto per la loro incostante 'esistenza' (ogni
fenomeno appare, esiste e scompare): è l'ambiguità di questi
'mondi' a generare la sofferenza negli esseri senzienti (sanscrito
sattva, cin. 衆生 zhòngshēng,
giapp. shūjō) ed è il continuo esercizio di consapevolezza dello
zhǐguān sulla dottrina dello yīniàn sānqiān e dello yuánróng
sāndì (Triplice verità) che può portare, secondo Zhìyǐ la
salvezza da questa condizione. Le realtà possibili in un solo
pensiero (sans. eka-kṣaṇa, cin. 一念
yīniàn, giapp. ichinen) indicati in questa dottrina, sono
tremila (sanscrito tri-sāhasra, cin. 三千
sānqiān, giapp. sanzen) in quanto inglobano tutte le
condizioni esperibili: 10 sono le condizioni esistenziali Dieci
mondi, (十界 cin. shíjiè,
giapp. jùkai) che vanno dalla condizione infernale (sanscrito
apāya-bhūmi, 地獄 cin. dìyù,
giapp. jigoku) vincolato all'odio, alla stato di buddha (佛
cin. Fó, giapp. butsu), che corrisponde alla realizzazione
del nirvana non statico (sans. apratiṣṭhita-nirvāṇa, 無住涅槃
cin. wúzhù nièpán, giapp. mujū nehan) proprio di chi
realizza la piena illuminazione (sans. samyak-saṃbodhi, 正等覺
cin. zhèngděngjué, giapp. shōtōkaku). Tali condizioni
esistenziali vanno moltiplicate per sé stesse in quanto tutte queste
condizioni, da quella infernale a quella buddhica, implicano
potenzialmente le altre nove esistenze al loro stesso interno. Queste
cento potenziali esistenze vanno poi moltiplicate per le 10 talità
(vera natura dei dharma, sans. tathātā, 如是實相
cin. rúshì shíxiàng, giapp. nyoze jissō) indicate nel
Sutra del Loto e che corrispondono a: caratteristiche, natura,
essenza, forza, azione, causa, condizione, retribuzione, frutto e
uguaglianza di tutte queste talità tra loro. Questi mille dharma
vanno poi moltiplicati per i tre mondi (sans. loka, 世
cin. shì, giapp. se) ovvero per i cinque aggregati (sans.
pañca skandha, 五蘊 cin.
wǔyùn, giapp. goun), per gli esseri costituiti dai cinque aggregati
(sanscrito sattva, cin. 衆生
zhòngshēng, giapp. shūjō) e per il luogo in cui essi
vivono (sanscrito talima, 地 cin.
dì, giapp. ji), raggiungendo il numero di tremila mondi (sanscrito
tri-sāhasra, cin. 三千 sānqiān,
giapp. sanzen). La vita può manifestarsi in queste tremila
condizioni cambiando costantemente anche a seconda dei vissuti della
mente, ma questi tremila mondi sono, per la dottrina Tiāntái, tutti
immancabilmente vuoti (sans. śūnyatā, cin. 空
kōng, giapp. kū) e non sono né esistenti né non esistenti.
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