Il
giainismo
(anche jainismo) è
la religione dei seguaci di Jina (in sanscrito "il Vittorioso"),
epiteto di Vardhamāna ("colui che accresce"), noto anche
con i nomi di Nāyāputta ("figlio dei Nāya"), dal nome
del clan cui apparteneva, Jñāta ("asceta"), Muni
("saggio"), Bhagavān ("venerabile"), Araha
("onorevole"), Veyavī ("conoscitore del Veda") e
con i celebri epiteti di Mahāvīra ("grande eroe") e di
Tīrthaṃkara ("creatore di guado"), che visse nel VI
secolo a.C. nella regione del Bihar.
Si tratta di un gruppo eterodosso
rispetto alla religiosità brahmanica e vedica e che mira a ottenere
la liberazione dal ciclo delle esistenze e l’eliminazione del
karman attraverso una serie di pratiche di austerità. Fa riferimento
a una serie di testi (definiti in un Canone) che riportano
l’insegnamento del fondatore, ma i giainisti ritengono che
Vardhamāna sia solo il ventiquattresimo dei maestri definiti appunto
come Tīrthaṃkara che hanno insegnato la via della liberazione dal
ciclo delle esistenze. Si tratta di una dottrina che trasmette
pratiche salvifiche e ha aspetti che la discostano dalla dimensione
religiosa così come essa è intesa in Occidente (per esempio le
figure divine che nel giainismo sono presenti ma hanno ruolo molto
diverso rispetto a forme teistiche). In sostanza il giainismo indica
come uscire dal saṃsāra (ciclo delle vite continue) e come
liberarsi dal karman, elementi che determinano il continuo
trasmigrare di vita in vita e quindi una condizione di sofferenza.
È possibile che l'insegnamento
catalizzato e proposto da Vardhamāna poggi su precedenti nuclei,
trasmessi da figure di cui sono noti alcuni nomi, come Pārśva, il
ventritreesimo Tīrthaṃkara, cui possiamo probabilmente dare
contorni storici, o che rimandano a dimensioni mitiche, come il primo
Tīrthaṃkara, Ṛṣabha, la cui identità si perde nella leggenda
e in cui alcuni studiosi hanno voluto vedere una connessione con le
civiltà pre-arie (quella della civiltà della valle dell'Indo),
vista l’importanza delle figure taurine e bovine nella civiltà
vallinda (testimoniata dalle rappresentazioni dei famosi sigilli
vallindi) e il significato del termine Ṛṣabha, che è appunto
quello di "toro". L’originalità del pensiero giainista,
il suo accostamento a tradizioni come quelli dei Cārvāka e degli
Ājīvika, il mantenimento di un suo chiaro profilo attraverso i
secoli e la sua antichità indubbia rendono questa tradizione una
delle più preziose testimonianze del pensiero nel subcontinente
indiano.
La tradizione dogmatica distingue la
dottrina del giainismo in sette verità fondamentali chiamate tattva:
jīva, la sostanza spirituale che costituisce le anime, ajīva, le
sostanze inanimate, āśrava, l’afflusso della materia nell’anima,
bandha, il legame dell’anima rispetto alla materia, saṃvara,
l’arresto dell’afflusso di materia nell’anima, nirjarā,
l’eliminazione della materia accumulata, mokṣa, la liberazione
dal ciclo delle rinascite.
L’afflusso della materia nell’anima
è quello che è chiamato tradizionalmente karman.
Per i giainisti l’universo è eterno,
senza inizio né fine ed increato: si compone di sei sostanze
(dravya) o, secondo la tradizione śvetāmbara cinque, di cui vi sono
quelle senzienti, jīva, e quelle non senzienti, ajīva.
Le anime, jīva, sono infinite ed
eterne, sono mutevoli e incorporee, coscienti e prive di materia ma
dotate di quattro perfezioni: darśana (vista), jñāna (conoscenza),
sukha (felicità), vīrya (azione).
Le sostanze inanimate sono cinque (o
quattro): spazio (ākāśa), moto (dharma), quiete (adharma) e
materia (pudgala). Secondo la tradizione digambara anche il tempo
(kāla) sarebbe una sostanza ma su questo punto c’è dibattitto
all’interno della comunità e della tradizione.
Lo spazio è infinito e garantisce agli
esseri un luogo: esiste uno spazio occupato e uno spazio
(trans-cosmico) vuoto. Il primo è limitato nell’estensione, il
secondo è invece infinito.
Con i termini dharma e adharma i
giainisti indicano due sostanze del tutto particolari: sono di fatto
i presupposti del movimento e della stasi. Per comprenderne il senso
la tradizione fa l’esempio dell’acqua per i pesci: il pesce è in
grado di nuotare per sua capacità propria ma non potrebbe farlo se
non avesse il mezzo che garantisse la possibilità di esercitare
questa sua capacità. L’acqua, che è il mezzo che garantisce al
pesce la capacità di nuotare, è dharma. Stesso discorso vale per
adharma, la quiete, la stasi. Non sarebbe possibile stare fermi se
non ci fosse questa sostanza: come l’ombra di un albero garantisce
la possibilità di riposo e ristoro nelle giornate assolate, così
adharma garantisce la possibilità di stare fermi.
La materia è invece costituita da
atomi, micro particelle indivisibili (paramaṇu) che si aggregano
insieme in composti denominati skandha generando i vari fenomeni del
mondo empirico.
È la materia a determinare per le
anime un corpo e le passioni a questo collegate.
Per i giainisti non c’è dunque
distinzione tra essere e divenire perché la realtà coincide con ciò
che esiste e si manifesta. Tutto questo è però soggetto alla legge
del mutamento (pariṇāma). Il giainismo vede dunque come
prospettive estremiste quelle del Vedānta, che nega valore di verità
alla manifestazione del reale, rifugiandosi in un monismo assoluto, e
quella del buddismo che invece nega la sussistenza di elementi reali
nella manifestazione giudicando tutto illusione.
La materia dunque si unisce all’anima
determinandone una serie di conseguenze, in particolare un
offuscamento delle possibilità e della capacità conoscitive. Il
corpo fisico è solo uno degli “strati” di materia che si
agganciano all’anima. Esistono diversi corpi tra i quali in
particolare il corpo karmico che muta continuamente a causa
dell’attrazione di particelle di materia da parte dell’anima a
causa del desiderio e delle passioni.
L’azione (yoga) è la causa
dell’afflusso di karman che impedisce la corretta visione delle
cose, offusca l’intuizione e la percezione, rende sensibili al
dolore e alla gioia (sensazione), confonde la retta fede e turba la
retta condotta, determina le nascite future, condiziona le qualità
fisiche e psichiche del futuro corpo, stabilisce il futuro status
sociale (casta, lignaggio, famiglia, etc.) e causa impedimenti di
varia natura all’anima.
Il giainismo ha dedicato molta
attenzione ai meccanismi che regolano l'afflusso karmico: le
particelle karmiche sfiorano l'anima ma non riescono ad agganciarsi a
essa se non per effetto delle passioni che consentono al karman di
attaccarsi all'anima. Come la polvere il karman si aggancia all'anima
solo se questa è "umida" a causa delle passioni.
L’anima è dunque schiava del karman
che, in quanto sostanza, è eterno e generato da cinque cause: errate
convinzioni (mithyādarśana), inosservanza (avirati), negligenza
(pramāda), passioni (kaṣāya), azione (yoga).
Il primo passo è dunque bloccare il
nuovo afflusso karmico attraverso la pratica delle rinunce o
austerità: quindi è possibile eliminare il karma (nirjarā) e a
quel punto l’anima otterrà la liberazione (mokṣa).
L’anima liberata è onnisciente
(kevalin) e possiede le tre gemme (raffigurate nei tre punti sopra lo
svastica nel simbolo giainista): retta fede (samyagdarśana), retta
conoscenza (samyag-jñāna) e retta condotta (samyag-cāritra).
Esistono quattordici livelli di
sviluppo spirituali denominati guṇasthāna che l’anima percorre
da una condizione di totale assoggettamento alle passioni fino
all’onniscienza e alla liberazione.
L’etica giainista prescrive dunque
una vita di totale rinuncia e privazione: l’astensione da ogni
forma di azione conduce alla liberazione dal karman che dall’azione
è generato.
Per eliminare il karma accumulato
bisogna poi far maturare questo frutto attraverso la pratica
ascetica: viene usato dai giainisti il termine tapas che in sanscrito
significa calore. Vengono denominate tapas una serie di pratiche e di
austerità che permettono di liberarsi dal karman accumulato.
Il monaco giainista deve vivere una
vita di rinunce e privazioni, esponendo il proprio corpo a
un'autentica mortificazione e liberandosi dagli impulsi delle
passioni. Predicando un'assoluta non-violenza, il giainismo prevede
di fatto una forma estrema di vegetarianesimo: la dieta del fedele
arriva a escludere anche molti vegetali e persino l'acqua viene
filtrata al fine di non ingerire involontariamente piccoli organismi.
È fatto divieto di mangiare, bere e viaggiare dopo il tramonto ed è
invece necessario alzarsi prima dell'alba, poiché la luce del sole
(e quindi del mondo) deve cogliere l'uomo sveglio e vigile.
A questo punto è possibile praticare
il cosiddetto saṃlekhana
ossia la morte per inedia: il
monaco rinuncia addirittura all’alimentazione e piano piano muore
ottenendo così la liberazione dal ciclo delle rinascite e accedendo
alla dimensione dell’onniscienza e della liberazione.
L’anima sale verso le regioni superne
del cosmo e vive in comunione con le altre anime nella condizione di
conoscenza e perfezione assoluta.
Alla morte di Mahāvīra gli successero
alla guida della comunità figure di autorevoli asceti che vengono
denominati “patriarchi”. L’ultimo di questi patriarchi fu
Bhadrabāhu, morto 170 anni dopo la dipartita di Jina da questo
mondo. Nel IV sec. a.C. dunque questo Bhadrabāhu decise di guidare
la comunità verso il sud dell’India e si allontanò dalle regioni
originarie del Bihar a causa di una carestia. La parte di comunità
che lo seguì si stabilì a Śravaṇa Beḷgola nel Mysore e rimase
là per dodici anni. Una volta tornati in patria, gli emigranti
constatarono che i monaci e gli asceti rimasti nel Bihar avevano
preso l’abitudine di indossare una veste bianca e avevano stabilito
un canone di testi durante un concilio tenutosi a Pāṭaliputra,
odierna Patna, capitale dello Stato del Bihar. A causa di questo nel
79 a.C. un nuovo concilio stabilì un’autentica scissione tra due
gruppi, quello degli Śvetāmbara (letteralmente “vestiti di
bianco”) originatosi da coloro che non avevano seguito Bhadrabāhu
e avevano preso l’abitudine di indossare una veste di cotone
bianco, e quello dei Digambara (letteralmente “vestiti di cielo
[aria]”) che invece giravano nudi.
Ancora oggi i giainisti si distinguono
in questi due gruppi.
La versione che ha come protagonista
Bhadrabāhu è però di ambito Digambara e vuole di fatto rimarcare
un allontanamento degli Śvetāmbara dalla pratica originaria: in
particolare la nudità viene definita come un carattere distintivo
della pratica trasmessa da Mahāvīra stesso.
Esiste però anche una versione degli
Śvetāmbara sullo scisma: dopo 609 anni dalla morte del Jina un
certo Śivabhūti, divenuto monaco per auto-iniziazione, si unì a un
gruppo di Śvetāmbara. Durante il suo peregrinare ascoltò un
sermone nel quale si diceva che, secondo la tradizione, Mahāvīra
avesse praticato la nudità. Arrogantemente Śivabhūti decise di
iniziare a praticare la nudità e convinse pure una monaca a fare lo
stesso (ella venne poi però corretta da una prostituta che temeva le
ripercussioni che questa pratica avrebbe avuto sul suo mestiere). A
questa vicenda la tradizione degli Śvetāmbara fa risalire la
pratica della nudità.
Questa versione di fatto non nega la
nudità come pratica attuata da Mahāvīra ma ne vincola l’attuazione
a un certo livello di elevazione spirituale.
Di fatto nessuna di queste due storie
spiega da un punto di vista storico l’origine della distinzione dei
due gruppi. La versione dei Digambara è probabilmente del X secolo
mentre quella degli Śvetāmbara al V secolo.
È invece da ritenere fondata l’idea
che già all’epoca di Mahāvīra vi fosse una distinzione delle
pratiche secondo uno sviluppo graduale nel percorso di ascesi e di
rinuncia. Di fatto le immagini più antiche di Mahāvīra e degli
altri Tīrthaṃkara rappresentano questi maestri nudi e solo dopo il
V secolo iniziò l’abitudine a raffigurarli vestiti.
Esiste peraltro nei testi riferimento a
un’ulteriore setta, quella degli Yāpanīya che attuò una sorta di
compromesso tra i due gruppi, almeno stando a quanto riferisce
Hariṣena nel X secolo. Essi praticavano la nudità solo quando
stavano nella foresta e indossavano invece un panno che copriva le
parti intime quando entravano in contatto con altre persone, nelle
città o nei centri abitati.
La definitiva acquisizione della
distinzione avvenne durante il concilio di Valabhī, nel 453 o nel
466 d.C., allorché esponenti di soli Śvetāmbara sancirono di fatto
l’esistenza dei due gruppi sia in relazione alla pratica delle
nudità, sia relativamente alla definizione del Canone scritturale
accettato dagli uni e dagli altri.
Ancora oggi sono pochi i testi
riconosciuti da entrambi i gruppi, tra i quali spicca sicuramente
l’importante Tattvārthasūtra.
La speculazione filosofica
La conoscenza (jñāna) per i giainisti
si raggiunge in modo immediato (pratyakṣa) per effetto di qualità
inerenti all’anima, oppure con l’aiuto degli organi dei sensi e
della mente (parokṣa): quest’ultima è raggiunta anche attraverso
testimonianza o insegnamento.
L’onniscienza, riservata al kevalin
(l’onnoscente) è del primo tipo, consente la liberazione dal ciclo
delle esistenze ed è tramandata attraverso i testi giainisti.
Le sostanze sono in continua evoluzione
e l’essere per i giainisti è indeterminabile. Questo approccio è
noto come anekāntavāda, dottrina del pluralismo: vi sono
affermazioni possibili che sono in apparenza contraddittorie ma che,
relativamente a un certo punto di vista, sono di fatto reali e vere.
È stata così sviluppata la teoria del
modo di considerare le cose, nayavāda, che si sostanzia nel metodo
denominato saptabhaṅgīnaya, sette affermazioni che evidenziano
come si possono considerare i fenomeni da diversi punti di vista e
come tutti questi siano di fatto validi e veri.
Il primo è il naigamanaya cioè il
modo corrente per cui si considera un elemento senza distinguere tra
qualità specifiche e qualità proprie dell’oggetto; il secondo è
il saṃgrahanaya, il modo di considerare le cose in sintesi,
evidenziano i caratteri generici; il terzo, il vyavahāranaya, è il
modo empirico di vedere il fenomeno per cui si considerano solo i
caratteri individuali; il quarto è il ṛjusūtranaya, il modo
“retto” per cui si prende in considerazione solo l’aspetto
attuale; il quinto è lo śabdanaya, per cui si considera la parola,
il suono, cioè, in senso lato, il valore convenzionale di un
termine; il sesto è il samabhirūḍhanaya per cui le parole sono
considerate secondo la loro derivazione; il settimo è invece
denominato evambhūtanaya, per cui si considera un elemento nel suo
valore fondamentale, considerando il rapporto tra realtà ed
etimologia.
La verità è dunque la condizione in
cui tutte queste prospettive si considerano simultaneamente ma questo
è possibile solo all’onnisciente.
Di ogni elemento preso in esame si può
poi dire che esso è (syād asti), che non è (syād nāsti), che è
e non è (syād asti nāsti ca), che è indeterminabile (syād
avaktavyam), che è ed è indeterminabile (syād asti avaktavyam ca),
che non è ed è indeterminabile (syād nāsti ca avaktavyam), che è,
non è ed è indeterminabile (syād asti nāsti ca avaktavyaṃ ca).
Per esemplificare un albero esiste nella sua determinata forma e nel
suo determinato aspetto; allo stesso tempo non esiste in altra forma.
Una bevanda è fredda per me ma non è fredda per un altro. Dunque
l’albero o la bevanda è e non è allo stesso tempo.
Dunque questa ultima affermazione
conduce al fatto che una cosa non è determinabile perché la sua
condizione di essere e non essere è di fatto inesprimibile. Quindi
di fatto da un certo punto di vista una cosa è ma è
indeterminabile, allo stesso modo può non essere ed essere non
determinabile. In relazione alle persone quindi un fenomeno può allo
stesso tempo essere, non essere ed essere quindi indeterminabile. A
volte infatti sperimentiamo qualcosa che non esprimibile mentre non è
esprimibile ciò che non è ed è ancora meno esprimibile ciò che è
e nello stesso tempo non è.
Attraverso questo sistema i giainisti
evidenziano che la realtà è in continuo divenire e questo continuo
divenire è l’unico elemento sulla cui realtà possiamo essere
certi. Per i giainisti escludere ogni giudizio e assumere ogni
giudizio come vero e reale sono dunque forzature ed estremismi.
Questa teoria è stata definita come
teoria del syādvāda.
Un'egregia spiegazione e illustrazione
di questa teoria è contenuta in un racconto: in questa storiella si
racconta di sei uomini ciechi dalla nascita che discutevano tra loro
sulla natura dell'elefante. Un giorno decisero dunque di andarne a
cercare uno e, una volta raggiuntone un esemplare, si misero a
tastarlo. Il primo disse ai fratelli che l'elefante era come un
grande muro, il secondo che era come una lancia, il terzo come una
corda, il quarto come un serpente, il quinto come un ventaglio, il
sesto come un tronco di palma. Ognuno di loro aveva ragione perché
aveva toccato, rispettivamente, la pancia, la zanna, la coda, la
proboscide, l'orecchio e una zampa. Similmente va intesa la
conoscenza secondo la teoria del syādvāda.
I giainisti adottano una prospettiva
sostanzialmente ateistica per cui non esiste alcuna divinità che
abbia preso su di sé il compito di creare il mondo. Non esiste dio
che si sia mosso per la creazione del mondo e nemmeno si accetta
l’idea che il mondo sia frutto di illusione che, se tale, non
potrebbe creare gli effetti di dolore e sofferenza che tutti
sperimentano.
È il karman a spiegare egregiamente,
secondo i giainisti, i meccanismi che regolano l’universo: esso è
non creato, sempiterno, costituito da entità sempiterne e
imperiture.
L’universo occupato da esseri è
limitato nella sua estensione e misura quattordici rajju: un rajju
equivale alla misura di spazio che un dio percorre in sei mesi
viaggiando a due milioni di miglia all’istante.
La forma dell’universo ha forma umana
(puruṣa): assomiglia infatti a un uomo ritto in piedi con le mani
sui fianchi.
Si compone dunque di tre zone: una
infera, una mediana e una superna.
Il mondo infero è diviso in sette
livelli, nei più bassi dei quali gli esseri vivono di sofferenza
reciproca e hanno aspetti mostruosi.
Il mondo di
mezzo, corrispondente al bacino del puruṣa, è al centro
dell’universo e si caratterizza secondo una certa cosmologia
induista,[14] quella che vede il mondo come una serie di anelli di
terra e di oceani concentrici. Nel mezzo sta il monte Meru attorno al
quale si estende Jambudvīpa, l’isola della melarosa, che è lo
spazio riservato agli uomini. Jambudvīpa è distinto in sette zone e
nel varṣa (regione) più a sud, quello di Bharata, vivono gli
uomini. Le descrizioni nei testi giainisti arricchiscono queste terre
di fiumi e montagne che coincidono talvolta con quelli del mondo
reale (Gange, Indo, etc.).
Nelle regioni superne vi abitano
divinità e uomini che hanno ottenuto la liberazione. La durata della
vita, l’aspetto esteriore e le capacità psichiche aumentano a mano
a mano che si sale di livello. Sopra il mondo degli dei c’è
Īṣatprāgbhāra sulla cui sommità stanno le anime liberate, i
siddha, i “perfetti”.
È da notare che solo nella condizione
umana è possibile la liberazione, quindi anche gli dei, per quanto
vivano un’esistenza dalle infinite e straordinarie possibilità,
devono passare dal mondo degli uomini per poter raggiungere la
liberazione.
Secondo i giainisti il tempo è ciclico
e si rinnova continuamente: il movimento del tempo è un evento
meccanico, simile al ruotare di una ruota, con periodi discendenti
(avasarpiṇī) e un ascendenti (utsarpiṇī). Questa dimensione non
è solo meccanica ma corrisponde a un metro morale. Ogni fase
comprende sei periodi. La durata di una singola fase è dieci
koṭikotī (1014) di sāgaropama, misura di tempo oceanica
corrispondente a un numero davvero elevato. Un sāgaropama infatti
misura 10.000.0002 di palyopama e un palyopama è il tempo necessario
per svuotare un cubo di un miglio per lato pieno di capelli se si
procede togliendone solo uno ogni cento anni.
I sei periodi sono: suṣamā-suṣamā
(molto propizio), suṣamā (propizio), suṣamā-duḥṣamā
(propizio e sfavorevole), duḥṣamā-suṣamā (sfavorevole e
propizio), duḥṣamā (sfavorevole) e duḥṣamā-duḥṣamā
(molto sfavorevole). Attualmente ci troviamo nel penultimo periodo
della fase discendente.
Nome dell'era |
Massimo grado di felicità |
Durata |
Altezza massima degli individui |
Durata massima della vita in anni |
Suṣama-suṣamā |
Massima felicità |
400 trilioni di sāgaropama |
sei miglia |
tre palyopama |
Suṣamā |
Moderata felicità |
300 trilioni di sāgaropama |
quattro miglia |
due palyopama |
Suṣama-duḥṣamā |
Felicità e poca sofferenza |
200 trilioni di sāgaropama |
due miglia |
un palyopama |
Duḥṣama-suṣamā |
Felicità con poca sofferenza |
100 trilioni di sāgaropama |
1.500 metri |
84 lakh purva |
Duḥṣamā |
Sofferenza con un poco di felicità |
21.000 anni |
sette hatha |
120 anni |
Duḥṣama- duḥṣamā |
Grande sofferenza |
21.000 anni |
un hatha |
20 anni |
S. Vernon McCasland, Grace E. Cairns e
David C. Yu descrivono la cosmologia giainista nel seguente modo:
«Nella tradizione giainista, il primo insegnante della
religione, Rishabha, visse nel terzo periodo di Avasarpini,
durante il quale metà delle cose del ciclo del mondo stanno
peggiorando. Dal momento in cui si iniziò a trovare il male, si
sentì la necessità di un insegnante chiamato un Tirthankara
perché le persone potessero far fronte ai problemi della vita.
Nel quarto periodo, i mali proliferarono così tanto che altri
ventitré Tirthankara arrivarono al mondo per insegnare alle
persone come combattere il male e raggiungere il mokṣa. L'età
contemporanea, parte del quinto periodo, è "interamente
malvagia". Ora, gli uomini non vivono più di 125 anni, ma la
sesta epoca sarà persino peggiore. 'La durata della vita
dell'uomo sarà solo tra i sedici e i venti anni e la sua altezza
sarà ridotta a quella di un nano... Ma poi il lento movimento
verso l'alto della seconda metà del ciclo del mondo, Utsarpini,
comincerà. Ci sarà un pronto miglioramento finché, nella sesta
era, i bisogni dell'uomo saranno soddisfatti da alberi desiderosi,
e l'altezza dell'uomo sarà di sei miglia, e il male sarà per
sempre sconosciuto.' Comunque, alla fine le cose degenereranno
nuovamente, con una ripetizione di Avasarpini; Usarpini ritornerà
ancora una volta, in un ciclo eterno, secondo la cosmologia
giainista.» |
(McCasland, Cairns, and Yu, Religions of the
World, New York: Random House, 1969: pp. 485-486) |
In ambito giainista è il termine Āgama
a indicare le scritture: letteralmente è qualcosa che è “giunto”
a noi grazie alla trasmissione di maestro in maestri fino a risalire
a Jina.
Cosa ci sia negli Āgama di ciò che
Jina ha detto e predicato è difficile dirlo ed è questione
complessa, ma è comunque da assumere come fondante l’idea che
negli Āgama per i giainisti c’è ciò che Mahāvīra ha
pronunciato.
Va peraltro segnalato che per i
giainisti il valore delle scritture non è univoco: se per alcuni (il
maestro Digambara Kundakunda) le scritture forniscono impulso
fondamentale al percorso di liberazione dalle passioni e dalle
pastoie del mondo, per altri, per esempio il testo Śvetāmbara
Āvasyakaniryukti, si afferma che la conoscenza delle scritture non
ha valore senza l’ascesi.
Lo stesso termine Āgama denota una
serie di scritture che possiamo intendere come Canone ma che non è
del tutto stabilito e definito. Interessante il fatto che poco dopo
l’indipendenza indiana i giainisti accettarono di includere nel
Canone alcuni testi molto recenti e poco tradizionali che però
potessero giustificare il divieto di utilizzo dei beni mobili e
immobili di un gruppo religioso da parte di soggetti aderenti o
appartenenti ad altre comunità religiose.
Un Canone definitivamente fissato non è
dunque quello che bisogna attendersi da questo concetto di scritture,
aspetto che è peraltro condiviso anche da altre tradizioni religiose
e filosofiche indiane.
Il più antico testo Digambara è il
Ṣaṭkhaṇḍāgama, basato, secondo tradizione, sull’insegnamento
orale del monaco Dharasena, vissuto nel II sec. d.C. Secondo la
tradizione questo monaco, aiutato da altri due, si insediò alla
caverna della Luna presso il monte Girnār in Gujarat e lì comunico
ai suoi aiutanti quello che ricordava delle opere sacre fino a lui
giunte.
Una copia di questo testo venne
conservata nel luogo santo di Mūḍbidrī, città del Karnataka
(Tamil Nadu). Questi manoscritti furono oggetto di grande attenzione
nel XIX secolo e vennero copiati tra il 1896 e il 1922. Si tratta di
un resoconto in pracrito sulla natura dell’anima e sulla sua
connessione con il karman.
Altro testo fondamentale è il
Kalpasūtra, recitato in occasione della festa di Paryuṣan.
L’autore del testo è, secondo la
tradizione, Bhadrabāhu e il testo contiene informazioni biografiche
su Jina e su Pārśva, il ventitreesimo Tīrthaṃkara.
Tutti i gruppi concordano sul fatto che
esistessero dei testi antichi, i Pūrva, ormai scomparsi.
Per la trasmissione del Canone vennero
infatti convocati i cosiddetti concili, in sanscrito vācanā
(letteralmente "recitazioni"), durante i quali venivano
semplicemente recitati i testi così come i monaci li ricordavano e
fissati nella forma trasmessa e recitata. Il Canone come ci è giunto
è frutto del lavoro svolto durante il concilio di Valabhī nel V
sec. d.C.
La letteratura canonica è nota come
Nigaṇṭha-Pāvayāṇa (sermoni di Nigaṇṭha) e consiste di
sessanta testi circa, quindici dei quali ritenuti ormai perduti.
È uso distinguere questi testi in tre
gruppi: i Pūrva, i primi, gli Aṅga, le membra, e gli Aṅgabāhya
(esterno alle membra).
Il canone stabilito a Valabhī da soli
maestri Śvetāmbara non è accolto totalmente dagli altri gruppi: i
Digambara hanno determinato un canone secondario costituito dagli
Āgama, mentre gli Sthānakavāsi accolgono solo trentuno testi dei
quarantacinque ancora leggibili secondo la tradizione Śvetāmbara.
Jina predicava in un dialetto pracrito
noto come ardhamāgadhī, lingua decisamente artificiale e arcaica
che è stata conservata attraverso i secoli come segno distintivo
dell’insegnamento del Jina. I testi sono scritti però in diverse
lingue, prevale certamente l'ardhamāgadhī ma vi sono testi in
sanscrito (il celeberrimo Tattvārthasūtra) e in vari pracriti
nonché in lingua Tamil.
Interessante il testo cosiddetto Saman
Suttam, preparato nel 1974 da un gruppo di maestri riunitisi per
definire un testo che potesse essere accettato da tutti i gruppi
giainisti: si tratta di una sorta di collectanea antologica che
raccoglie brani da vari testi canonici ed è di fatto accettato da
tutti i gruppi giainisti.
La comunità giainista (saṃgha) è
composta da monaci (sādhu), monache (sādhvī), laici (śrāvaka) e
laiche (śrāvikā).
La comunità è distinta in varie
scuole chiamate gaccha dagli Śvetāmbara e gaṇa dai Digambara e
fissate tradizionalmente in numero di 84. Ogni scuola può poi
distinguersi in gruppi ognuno dei quali segue un determinato maestro.
Chi vuole intraprendere la vita
monastica può farlo dai sette anni e deve sottoporsi a
un’iniziazione che è caratterizzata da un periodo di noviziato
(brahmacarya) e quindi da una consacrazione vera e propria (dīkṣā).
Il monaco è tenuto a osservare i cosiddetti “grandi voti”
(mahāvrata): ahimsa, non violenza, asatyatyāga (rinuncia alla
menzogna), asteya (non rubare), brahmacarya (castità assoluta),
aparigraha (privazione).
Dotato di una veste (se śvetāmbara),
di una ciotola di legno, di una stoffa per filtrare l’acqua e di
una pezzuola da mettere davanti al viso per evitare l’ingestione
involontaria di qualche essere minuscolo), di un bastone, di uno
scopino per pulire il luogo in cui ci si siede o ci si sdraia, il
monaco si dedica allo studio, alla meditazione, alla predicazione e
alla questua.
È vietata ogni cura del corpo, non è
possibile nutrirsi dopo il calar del sole, non si mangia carne, non
ci si deve mai fermare troppo in un luogo ma non nemmeno spostarsi
troppo, si deve mortificare il proprio corpo e il proprio desiderio
in tutti i modi.
La dieta è particolarmente severa:
anche miele, alcuni ortaggi, frutta acerba e alcol sono vietati.
È inoltre tenuto ad alcune regole
ulteriori: l’autocontrollo (gupti), la vigilanza continua (samiti),
la moralità (dharma), la meditazione (anuprekṣā), la
sopportazione di vari disagi (parīṣahā), la retta condotta
(cāritra).
Ogni mancanza va denunciata tramite
confessione (pratikramaṇa) seguita da penitenza (prāyaścitta).
Per i laici la disciplina è meno
severa: essi sono vincolati a dei “voti minori” (anuvrata): alla
castità si sostituisce la fedeltà coniugale, alla privazione si
sostituisce un limite al possesso. Vi sono poi dei voti aggiuntivi
(guṇavrata): evitare eccessivi spostamenti, certi cibi, alcune
professioni e azioni particolari che creano danni. Esistono anche i
śikṣāvrata, voti ulteriori: meditare, lavorare solo in certi
luoghi, digiunare e vegliare, accogliere gli ospiti e confessare le
proprie mancanze almeno una volta l’anno.
Ai laici tocca anche il mantenimento
dei monaci. Vi sono però alcune professioni che sono vietate: oltre
alla caccia e alla pesca, anche il commercio di armi e di avorio,
l’agricoltura e tutte le attività che potrebbero comportare
uccisione di animali sono vietate.
Oggi la maggior parte dei giainisti in
India pratica l’attività di commerciante: la fiorente attività
bancaria cui si dedicano da sempre li rende particolarmente influenti
nella società indiana nonostante il numero esiguo (oggi in India
sono circa sei milioni).
La maggior parte della comunità
giainista in India vive negli Stati del Maharastra, del Gujarat e del
Rajasthan. Fuori dall’India le comunità più importanti sono
quelle inglese e statunitense e nel complesso fuori dall’India vi
sarebbero circa 150.000 seguaci degli insegnamenti di Jina.
Anche il Mahatma Gandhi fu
profondamente influenzato dall'enfasi giainista su uno stile di vita
pacifico, che non danneggia nessuno; integrò nella sua personale
filosofia uno stile di vita che è comune alla filosofia giainista.
La via di salvezza per il giainismo è
una via assolutamente individuale e si realizza praticando ascesi e
virtù, privazioni e rinunce. Esiste tuttavia un culto dei
Tīrthaṃkara che si è sviluppato nel corso dei secoli e si è
strutturato in alcune pratiche ritualistiche. I Tīrthaṃkara in
realtà non si interessano delle vicende del mondo ma meditare sulla
loro perfezione è comunque utile a intraprendere un cammino di
ascesi e a confermarsi in esso.
La pratica della pūjā è dunque
presente anche nel giainismo e consiste in azioni di venerazione e di
omaggio nei confronti dei Tīrthaṃkara.
Anche alcune divinità godono di un
certo culto, in particolare Hanumat, Ganeśa, Skandha, e tra i
Tīrthaṃkara i più venerati sono il primo Ṛṣabha, il
sedicesimo Śāntinātha e gli ultimi tre Neminātha, Pārśva e
ovviamente Jina Mahavira
La setta degli Sthānakavāsī contesta
però l’uso di immagini e di statue negando qualsiasi logicità al
culto esteriore e sottolineando la dimensione etica del giainismo e
del percorso di salvezza.
La statuaria è comunque
particolarmente diffusa e pare fosse già in uso all’epoca del re
Khāravela nel II secolo a.C. In giro per l’India è facile
peraltro imbattersi in statue enormi dei Tīrthaṃkara, di solito in
posizione eretta. Nelle case dei giainisti invece si trovano
statuette che raffigurano Jina Mahavira nella posizione del loto
(padmāsana) nei confronti delle quali si svolge la bhāvapūjā
(meditazione) o l’aṅgapūjā, più simile alla pratica induista,
per cui la statua viene lavata, adornata, profumata etc.
Molti sono gli inni di lode e di
esaltazione dei siddha, il più famoso dei quali è il Namokar
Mantra.
“Onore agli Arhat,
|
Onore ai Perfetti,
|
Onore ai Maestri,
|
Onore ai precettori,
|
Onore a tutti gli asceti del mondo.
|
Questi cinque omaggi distruggono tutte le mancanze del
mondo.
|
Di tutti i mantra questo è quello più propizio.”
|
|
मो अरिहंताणं
|
णमो सिद्धाणं
|
णमो आयरियाणं
|
णमो उवज्झायाणं
|
णमो लोए सव्व साहूणं
|
एसोपंचणमोक्कारो,सव्वपावप्पणासणो
|
मंगला णं च
सव्वेसिं, पडमम
हवई मंगलं
|
|
Ṇamō Arihantāṇaṁ
|
Ṇamō Siddhāṇaṁ
|
Ṇamō Ayariyāṇaṁ
|
Ṇamō Uvajjhāyāṇaṁ
|
Ṇamō Lōē Savva Sāhūṇaṁ
|
Ēsōpan̄caṇamōkkārō, savvapāvappaṇāsaṇō
|
Maṅgalā ṇaṁ ca savvēsiṁ, paḍamama havaī
maṅgalaṁ
|
|
Vi sono poi atti entrati a far parte
dei rituali, soprattutto in occasioni delle festività: formule di
confessione, gesti delle mani e del corpo, richiamo dei voti ecc. che
si possono riassumere nei sei āvaśyaka: voto di evitare ogni atto
riprovevole, lode dei ventiquattro Tīrthaṃkara, onore al maestro,
confessione, meditazione silenziosa (kāyotsarga), rinuncia a cibi e
bevande non indispensabili.
Anche nel giainismo vengono praticati i
sedici saṃskāra, pratiche che scandiscono dal punto di vista sacro
e rituale la vita del devoto induista.
Sempre a somiglianza di altra pratica
induista, quella del tilaka, i gianisti si adornano la fronte
disegnandoci un cuore (con pasta di sandalo).
Nel loro templi, alcuni dei quali sono
i più splendidi di tutto il continente indiano, per esempio quello
di Ranakpur, vi sono raffigurazioni con il simbolo della ruota
perfetta (siddhacakra), stilizzata in un loto a otto petali, i quali
simboleggiano rispettivamente i cinque parameṣṭhin (arhat,
siddha, maestri, istruttori e asceti), i tre gioielli (retta fede,
retta conoscenza e retta pratica) e in più l’ascesi. Diffusa è la
raffigurazione dello svāstika e del simbolo dello Oṃ.
Il culto viene praticato in edifici
sacri che in epoche antiche dovevano essere simili agli stūpa: era
diffusa la pratica di scavare santuari nella roccia e utilizzare
caverne naturali.
I templi iniziarono a essere costruiti
più tardi (XVI secolo a Shatrunjaya) grazie alla liberalità di
laici (sul monte Abu, in Rajasthan, sui monti Shatrunjaya e Girnar
nella penisola di Kathiavar).
Il servizio religioso è praticato dai
Pūjāri (che spesso non sono nemmeno giainisti ma induisti) e la
festività più solenne è quella di Paryuṣaṇa (festa della
stagione delle piogge): vengono festeggiate anche ricorrenze induiste
come Dīpāvalī.
Il giainismo e le altre religioni del Sud dell'Asia
I giainisti rifiutano la tradizione
vedica e di fatto ritengono erronee le credenze di induisti e
buddisti ma non vi sono contrasti insanabili benché nella
letteratura e nella tradizione culturale brahmanica vi siano casi di
giainisti rappresentati come emblema della sporcizia e della
contaminazione.
Nonostante questo la percezione di se
stessi da parte dei giainisti li porta a identificarsi come hindū
mentre gli induisti hanno la tendenza a intendere il giainismo come
una sorta di setta. Si tratta di fatto della tipica tendenza
dell’induismo per l’inclusività delle tradizioni religiose
differenti.
I giainisti negano valore alle
abluzioni religiose, cremano i loro morti e si contraddistinguono per
l’ahiṃsā, aspetto che certamente in ambito induista è stato
recepito proprio dai gianisti visto che la tradizione vedica abbonda
di pratica ritualistiche sacrificali.
Vengono invece accettate dai giainisti
le distinzioni di casta.
Grande contrasto c’è di fatto sulla
idea di dio visto che i giainisti adottano una prospettiva ateistica:
per i giainisti l’universo è eterno e increato e l’anima
mantiene una sua individualità anche dopo la liberazione.
Accostamenti sono stati individuati da
Carlo Della Casa con il sistema Sāṃkhya che ammette l’isolamento
delle anime liberate e con il sistema del Vaiśeṣika nella comune
prospettiva atomistica.
Rispetto al buddismo è possibile
riscontrare diversi elementi comuni (il fine del mokṣa, la pratica
dell’ahiṃsā, una vita rispettosa di principi morali) ma è
impossibile non individuare una profonda differenze di vedute, specie
riguardo alla natura dell’anima che per i buddisti è priva di
sostanza (insostanzialità dell’anima, anātmatā). L’io per i
buddisti è un aggregato di momentanei impulsi e stati di coscienza
mentre per i giainisti l’anima è increata ed eterna. Per i
buddisti è la meditazione a portare al nirvāṇa, mentre per i
giainisti è l’ascesi.
Interessante la vicinanza con
l’insegnamento di Zoroastro per il desiderio di purezza e la netta
opposizione tra spirito e materia che è poi una caratteristica dello
gnosticismo nelle sue diverse forme e sembianze.
Scarsi sono stati i rapporti e le
reciproche influenze rispetto all’Islam e alla predicazione
cristiana.
Il giainismo nella cultura occidentale
Si è spesso voluto identificare monaci
o praticanti giainisti nella glossa di Esichio (V sec. d.C.) sui
Γυνμνοσοϕισταί (gimnosofisti) dato che la traduzione
del termine è stata convenzionalmente quella di “sapienti nudi”:
qualcuno vi ha dunque visto un riferimento agli asceti giainisti
della tradizione Digambara.
Esichio nel suo glossario spiega
il termine Γέννοι (génnoi) rimandando ai gimnosofisti e
potrebbe trattarsi di un termine che deriva dalla forma pracrita del
termine sanscrito jaina.
Il termine gimnosofisti è stato usato
per la prima volta da Plutarco nella vita di Alessandro Magno e
l’interpretazione è stata varia: alcuni vi hanno visto dei
semplici asceti della tradizione induista, altri monaci buddisti o
śramaṇa ma qualcuno ha voluto interpretare queste figure quelle di
come monaci Digambara. Interessante il fatto che Onesicrito che li
incontrò nel 326 per ordine di Alessandro li descriva come asceti
con idee simili a quelle dei cinici e dediti alla mortificazione del
corpo.
È possibile che il riferimento a un
monaco dalla testa rasata da parte di Aristobulo, come riportato da
Strabone (XV, 1, 61), possa essere la descrizione di un monaco
giainista.
Clemente Alessadrino invece (Stromata,
III, cap. 7, 60, 3-4) parla di asceti che praticano la nudità totale
e vivono in totale castità: anche in questo caso la descrizione ben
si adatta ai monaci giainisti Digambara.
Nel Medioevo le relazioni tra Occidente
e Oriente divennero più problematiche.
Un possibile riferimento ai giainisti
potrebbe trovarsi nel Milione di Marco Polo quando parla dei chugi
(yogin) nel cap. 154.
Un accenno alle pratiche del giainismo
si trova poi nei resoconti dei primi viaggiatori e navigatori del XVI
secolo: Ludovico di Varthema, Duarte Barbosa, Gaspare Balbi, Jan
Huyghen van Lischoten.
Sono stati però i Gesuiti a fornire le
prime informazioni precise sulle religioni dell’India. Una
descrizione degli Śvetāmbara si trova in una lettera del padre
Emmanuel Pinheiro scritta da Cambay nel 1595.
Scrive il padre gesuita:
«Hanno vesti di panno candido, la testa rasata e così la
barba… La dottrina è contenuta in libri scritti nel dialetto
del Gujarat. Bevono acqua bollita, non perché temano le malattie,
ma perché ritengono che l’acqua sia dotata di anima… Per la
stessa ragione portano in mano delle scope, che, attaccate alle
loro maniche, sembrano dei pennelli con il ciuffo di cotone e se
ne servono per spazzare la terra o il pavimento dove camminano,
per non uccidere l’anima di qualche insetto… Sulla bocca
portano una pezzuola larga 4 dita sostenuta all’una e all’altra
orecchia… capii che la portavano perché non penetrasse nella
bocca qualche insetto o qualche mosca… La divinità inviò 23
apostoli; in questa terza epoca cosmica ne mandò un altro, ossia
il ventiquattresimo, e ciò accadde 2000 anni fa”.» |
(J. Hay of Dalgetty (Hayus), De rebus japonicis,
indicis et peruanis Epistolae recentiores (Anversa 1605). Il testo
riportato è quello citato da Carlo Della Casa nel suo volume sul
giainismo (pagg. 104-105).) |
Altre notizie si hanno dai resoconti di
Pietro della Valle che, come padre Pinheiro, chiama i giainisti
Varteas o Vertia (probabilmente dal gujarati varti, in hindī bartī,
che vuol dire “asceta”, equivalente al sanscrito vartin che serve
proprio a identificare il monaco giainista).
Da questo momento le citazioni e i
riferimenti ai giainisti si moltiplicano. Anche il filosofo Immanuel
Kant parlò degli ospedali giainisti per animali e dell’uso di
portare la pezzuola sulla bocca.
T. Colebrooke ha steso la prima
descrizione scientifica della tradizione giainista in un articolo del
1807. Fu però H. Jacobi a dimostrare che il giainismo era ben
distinto dal buddismo visto che nell’Ottocento molti studiosi
tendevano ad assimilare le due dottrine.
Durante il celebre Parliament of the
Religions of the World convocato a Chicago nel 1899 il rappresentante
giainista ottenne grande successo e fama e si avviò così una certa
predicazione sia in America che in Inghilterra. Nel 1913 Herbert
Warren promosse la costituzione di una Mahāvīra Brotherhood per
diffondere i principi de giainismo in Inghilterra e in Occidente.
Il giainismo come religione si è
diffusa in tempi diversi in tutto il Sud dell'Asia, compreso
Afghanistan, Nepal, Burma, Bangladesh, e Sri Lanka. Inoltre, è
praticato da seguaci in molte città metropolitane come Delhi,
Mumbai, Kolkata e Chennai. La religione è presente anche in altre
importanti città dell'India, Ahmedabad, Bangalore, Hyderabad.
Il giainismo nasce dunque nell’India
nord-orientale e da lì si diffonde non solo nel sub-continente ma
anche in altre regioni dell’Asia.
Dopo la morte di Jina Mahāvīra il
giainismo si diffonde nei regni dei Shishunaga, dei Nanda, dei
Kharavela, dei Maurya, dei Satavahana, dei Gupta, dei Paramara, dei
Chandela, e di altre dinastie che favorirono la diffusione della
dottrina di Jina con appoggi più o meno espliciti.
L’emigrazione di Bhadrabahu portò il
giainismo nel sud dell’India.
Intorno all’VIII secolo d.C. il
giainismo si diffuse sull’isola di Ceylon. La cronaca Mahāvaṃsa
(10.65-70; 33. 43-79) riferisce dell’esistenza del giainismo
sull’isola ancora prima che vi arrivasse il buddismo. Le grotte di
Terapur e alcune statue di Tīrthaṃkara provano la diffusione della
dottrina giainista sull’isola dove pare fu ampiamente praticata
fino al X secolo d.C. Il monaco Kalakācarya avrebbe visitato Burma
(Uttaradhyayana Niryukti, 120) mentre Ṛṣabhadeva avrebbe
viaggiato fino alla Battriana, alla Grecia, alla Persia (Avasyaka
Niryukti, 336-37). L’esistenza del giainismo è documentata anche
in Afghanistan visto che sono state trovate immagini di Tīrthaṃkara
in posizione di meditazione a Vahakaraj Emir.
La filosofia e la cultura giainista
sono state un'importante forza culturale, filosofica, sociale e
politica sin dall'alba della civiltà nel Sud dell'Asia, e la sua
antica influenza è stata individuata oltre i confini dell'India
moderna, nelle regioni mediorientali e mediterranee. Il giainismo è
attualmente una religione che sta raccogliendo proseliti anche negli
Stati Uniti (le prime significative conversioni di occidentali alla
religione di Mahavira ebbero luogo a Londra agli inizi del Novecento
e diedero luogo alla prima, minuscola formazione giainista
anglosassone, chiamata "Mahavira Brotherhood")
Nell'arco di alcune migliaia di anni,
l'influenza giainista sulla filosofia e la religione hindu è stata
considerevole, mentre l'influenza hindu sul culto e i rituali nei
templi giainisti può essere osservata in alcune sette.
Attualmente i giainisti sono circa
4.200.000 di cui circa 100.000 fuori dall'India.
Il giainismo nella letteratura
La religione giainista è menzionata
nel celebre romanzo di Philip Roth, Pastorale americana. Le idee e la
pratica giainista sono presentate dall'autore attraverso il filtro
rappresentato dal punto di vista di un personaggio appartenente
all'alta borghesia americana, che esprime tutto il proprio
scetticismo. L'effetto prodotto sul lettore dal giainismo è
grandemente rafforzato dal fatto che l'autore lo immerge nella più
squallida realtà urbana statunitense.
Il primo capitolo del libro "Nove
vite" di William Dalrymple è dedicato al racconto di una monaca
jainista, Prasannamati Mataji.