Le arti guerriere hanno origini antichissime, e i primi rudimenti possiamo farli risalire all'alba dell'uomo: quando questo doveva battersi per sopravvivere doveva battersi con altri suoi simili.
Nel corso dei secoli le tecniche per il combattimento divennero sempre, più elaborate ed efficaci, onde evitare di lasciare al caso le sorti di uno scontro.
Sorsero così molte scuole dove veniva insegnata l'arte del combattere da maestri d'arme che avevano verificato e affinato la loro tecnica sui cambi di battaglia.
Per la formazione del "guerriero" accanto all'insegnamento tecnico venivano poste delle basi morali e comportamentali, in modo da rendere questi individui non solo abili combattenti, ma persone in grado di garantire una stabilità sociale (se necessario anche con le armi) indispensabile per mantenere l'ordine istituito. In Europa ne sono un esempio i leggendari cavalieri di re Artù.
In Corea vi furono i Hwarang.
La leggenda racconta che il re Chinhung (dinastia Silla 661-935 d.C.) chiese al famoso monaco buddista Won Kang Bopsa di ideare un sistema di educazione per creare una classe dirigente e militare che fosse efficiente e saggia.
Vennero cosi selezionati i hwarang (tradotto letteralmente "giovane in fiore") fra i ragazzi di classe nobile. La loro formazione comprendeva lo studio dei classici cinesi, le basi della religione buddista, l'etichetta, la danza, la letteratura, l'arte, la scienza e naturalmente tutte le attività connesse alla guerra. Si formò così una classe guerriera colta e pronta ad affrontare i duri scontri dell'epoca.
L'intellettuale guerriero divenne un modello di vita che rimase esemplare per molte generazioni; gran parte dei condottieri della dinastia Silla erano dei Hwarang. Le storie del loro coraggio e del feroce spirito combattivo venivano raccontate nella poesia e nella letteratura hwarang, che divenne la base della letteratura coreana per oltre mille anni.
Essenziale era il codice di cavalleria, sul quale i guerrieri basavano la loro etica.
Si narra che due giovani hwarang chiesero al monaco Won Kang Bopsa di creare dei "comandamenti" dai quali potevano essere guidati i soldati che non avevano avuto un'educazione come quella dei nobili guerrieri. Questi precetti rappresentano una sintesi del codice di cavalleria marziale del tempo:
1. Sii fedele al tuo Re.
2. Sii ubbidiente ai genitori.
3. Sii leale con gli amici.
4. Uccidi solamente secondo giustizia.
5. Non indietreggiare mai in battaglia,
Su queste basi nacque in estremo oriente la via 'del guerriero (bushido in giapponese), ma non si trattava solamente di una morale che disciplinava, attraverso una retta azione, il comportamento del guerriero. Ciò che caratterizza e contraddistingue il bushido è in correlazione con il concetto indù di dharma, la legge d'azione legata alla casta della vita presente, il dovere inerente alla propria natura interiore. La realizzazione spirituale è possibile solamente seguendo il proprio dharma, che per un guerriero, (kshatriya) è il combattimento e la morte. In un passo della Bhagavad Gita, il dio Krishna dice ad Arjuna:
«Considera il tuo proprio dharma: non puoi esitare. Nessun ideale è più alto per un guerriero che un giusto combattimento. Felici i guerrieri, o Parta, che arrivano, in modo spontaneo, a un tale combattimento: una porta aperta verso il Cielo».
In Giappone la fusione del buddismo Chan con lo shintoismo portò alla creazione del bushido (bu = arti marziali, shi - guerriero, do — via) la Via del samurai.
Questo "cammino" del guerriero verso una coscienza superiore può essere sintetizzato in sette punti essenziali:
1. Gi - l'atteggiamento giusto ed equanime, la verità. Quando giunge ìl momento della morte si deve morire, senza attaccarsi alla vita,
2.Yu - il 'coraggio, l'abilità dell'eroe.
3.Jin - l'amore universale, la benevolenza verso l'umanità,
4. Rei - il giusto comportamento in ogni situazione.
5, Makoto - la totale sincerità.
6, Meryo - l'onore e la gloria.
7, Chugi - la lealtà, la devozione.
Questa via seguita dai samurai è assoluta.
Lo sviluppo parte dal corpo per arrivare allo "spirito", pertanto la pratica è fondamentale e grande importanza viene data al comportamento giusto. Il buddismo ha caratterizzato il bushido principalmente attraverso cinque aspetti:
Il controllo e la pacatezza dei sentimenti;
la tranquilla accettazione dì fronte all'inevitabile;
il pieno controllo di sé in qualsiasi situazione;
il rapporto sereno con l'idea della morte e della vita;
la povertà pura.
Da quanto sopra, si evince che l'azione risulta spiritualmente efficace o nel caso sia conforme alla natura interiore di chi la compie. Medesimo è il significato di quelle discipline che, partendo da una tecnica, si evolvono in arte, e grazie ad alcuni uomini "superiori" si trasformano in vie (tao). Sono "metodi" il cui fine è una realizzazione spirituale secondo il proprio modo dì essere uomo.
L'ideogramma che i giapponesi leggono do o michi (per i cinesi tao indica la "via" nel senso sopra descritto, e nella scrittura antica sembra fosse composto dall'immagine grafica di una testa dì un maestro, dì una strada e dai piedi di un altro uomo. Quindi, un discepolo che segue il maestro sulla via.
Esteriormente tutte le discipline che si basano su questi principi (il budo, il chado eccetera) portano al dominio dì una tecnica, alla conoscenza profonda dell'arte. Ma il praticante a un certo punto del suo cammino esce da questi confini esteriori, per elevarsi a un piano superiore attraverso una trasformazione e una purificazione interna che gli permetterà una crescita spirituale. Lo scopo ultimo di tutte le vie è questo, ma l'aspetto interiore, esoterico dell'insegnamento viene celato ai più, poiché solamente gli allievi spiritualmente più elevati, e quindi in grado di comprendere, possono accedervi.
Ogni forma di tradizione spirituale ha due aspetti, uno esteriore, essoterico, più propriamente religioso, l'altro esoterico o iniziatico. Per quanto riguarda il buddismo mahayanjco, i giapponesi usano due termini: tariki (l'aiuto di un altro) e jiriki (il fare da sé). Tariki è la, ricerca della salvazione affidandosi alla grazia e alla bontà divina, chiesta attraverso formule salvifiche e una condotta "pia". È questo il caso delle sette amidiste, del Jodo, che confidano nella rinascita nel paradiso del Budda Amida, nella Terra Pura. Jiriki è la vìa dell'illuminazione attraverso un lavoro e una realizzazione interiore, uno sforzo condotto con autodisciplina e un severo addestramento ascetico sotto la guida di un maestro che ha il compito di istruire sulle tecniche del risveglio stimolando e guidando il discepolo verso l'autorealizazione.
Quest'ultimo è il metodo adottato dallo Zen, dal Tendai, dallo Shingon.
In Giappone si diceva: «II Tendo è per la famìglia imperiale, lo Shingon per la nobiltà, lo Zen per i samurai e il Jodo per la massa del popolo».
Ogni do, all'interno delle dottrine jiriki, ha un aspetto esterno e uno interno ed è quest'ultimo il "cuore", l'essenza dell'insegnamento, che i giapponesi chiamano hiden. In ogni scuola per giungere all'insegnamento esoterico, al suo hiden, bisognava superare tutti i livelli inferiori dell'addestramento, necessari per saggiare e forgiare al tempo stesso il discepolo.
Nell'Hagakure, testo di etica e precettistica samurai del XVII secolo scritto da Jocho Yamamoto, si afferma che nessuna grande opera è stata compiuta da un individuo senza che questi divenisse "pazzo", ossia senza superare il livello di coscienza ordinaria, raggiungendo quindi una coscienza illuminata.
Una coscienza illuminata, che abbia quindi superato il dualismo della mente ordinaria (vita-morte, bene-male, giusto-ingiusto) può vedere le cose per quello che realmente sono. È su questo livello di coscienza che agiscono tutti i grandi maestri delle arti marziali.
Secondo il pensiero zen è necessario superare la divisione - del mondo tra soggetto e oggetto, causata dall'ignoranza cosmica, che impedisce di vedere nella propria natura più profonda. Questa natura e il volto originario dell'Io superiore, che i buddisti chiamano "il cuore del Budda", l'Assoluto Riscoprire la nostra essenza superiore, distruggendo le false e caduche aggregazioni dell'Io terreno e illusorio, è compito di ogni ascesi spirituale.
Ritrovata la nostra essenza superiore si dissolvono ogni antitesi e ogni dualità, si apre improvvisamente una visione lucida e intuitiva (non concettuale). Questa coscienza ìlluminata, o conoscenza intuitiva suprema, è prajna, "Risvegliarsi" a questa conoscenza è il satori (illuminazione).
Il superamento dell'ordinaria condizione umana, attraverso quest'esperienza trascendentale, permette infine di apprendere un'ultima verità: prajna è immanente in ogni essere umano, identità e diversità sono la stessa cosa, e il divenire e l'assoluto coincidono.
Una mente pura consente di percepire il mondo reale e conscguentemente apre la porta della conoscenza. L'uomo pieno di emozioni e dì pensieri ha la "superficie" della mente increspata che non gli consente di percepire la verità, proprio come la superficie di uno stagno increspata dal vento rende deforme ed evanescente il riflesso della luna.
Bisogna placare le "burrasche" che agitano la mente, solo quando ciò avviene l'immagine della luna appare e l'uomo è illuminato.
Nella pratica del budo avviene la stessa cosa. Per avere la certezza della vittoria è necessaria una mente pura che consente di conoscere sia se stessi sia tutti gli altri. Attraverso la concentrazione durante l'azione e la meditazione. Nel budoka regna la calma perfetta: egli giunge alla vacuità e riconosce la realtà.
È indispensabile tenere sotto controllo la mente, in modo da "sottometterla" alla volontà del Sé; solo a queste condizioni si arriva a mushin. L'ego scompare e si giunge a prese di coscienza soggettiva, che nella terminologia zen prende il nome di satori.
L'assenza di pensieri discriminanti, mushin, porta a una simultaneità di volontà e azione, ed è questo il punto di arrivo dei grandi maestri delle vie marziali (budo) sulla linea dello zen.
Tutto il lavoro di anni, di una vita dedicata al budo tende a questa meta, e se non si raggiunge lo stato di mushin non si possiede veramente un'arte. Chi però raggiunge questo livello è già sulla via che conduce alla liberazione e l'arte non gli serve più.
Le scuole tradizionali orientali, per perseguire il fine ultimo sopra descritto, si avvalgono di un metodo di insegnamento che, partendo dall'elementare conduce gradatamente al complesso e dal concreto all'astratto, attraverso la sperimentazione l'induzione e la verifica.
Inoltre esse si avvalgono dì "verità rivelate", che non ammettono dubbi o critiche, dogmi ferrei sostenuti dall'autorità indiscussa dì legittimi maestri "illuminati".
Questo metodo viene chiamato dagli okinawesi su-ha-li, dai cinesi ciun-po-li.
Su è il primo passo sul cammino del do.
Secondo il sistema di gradazione adottato nelle discipline marziali, va dal primo al terzo dan e i praticanti vengono denominati yu-dan-sha. In questo primo livello l'allievo deve assimilare la forma, sia mentale, sia fisica, datagli dall'insegnante.
Le tecniche plasmeranno il corpo, la disciplina e l'etichetta faranno altrettanto sulla mente.
La pratica dei kata è determinante per questa formazione: esternamente educa il corpo, internamente disciplina l'ego; mentre l'etichetta formalizza il rapporto con gli altri.
Il secondo livello è ha; è in questa fase che il praticante matura la sua maestria, ha una visione completa e precisa del tutto e pur padroneggiando le tecniche riconosce i propri limiti fisici, energetici e mentali. È questo il periodo della comprensione, il rapporto con il proprio maestro cambia: gli si chiedono delle conferme su quanto elaborato e maturato nei molti anni di pratica.
A questo stadio il praticante, se è un insegnante, può elaborare delle nuove metodologie, trovare delle soluzioni diverse che arricchiscono l'arte, ma.non può modificare nella sostanza l'insegnamento tradizionale, modificando per esempio i kata classici.
In Giappone solamente a chi ha raggiunto questo livello si attribuisce il suffisso ka: karateka, judoka, kendoka, relativo alla disciplina praticata.
Ka vuol dire élsa, e quindi sta a indicare che questi praticanti ospitano dentro di sé l'arte praticata, che vive in loro. Sono questi individui che hanno la capacità e la responsabilità di rappresentare, personificandola, l'arte marziale, il budo. Questi maestri, dal quarto al settimo dan, sono considerati dei ko-dan-sha, votati alla ricerca del proprio sé.
L'ultima tappa del metodo tradizionale è Li.
Il praticante e la forma sono ormai diventati una sola cosa, è stata raggiunta l'essenza, e pertanto la forma può essere abbandonata dando spazio alla creatività. L'energia e la coscienza del budoka si sono purificate, questi ha raggiunto il mushin. Ora può creare o modificare i kata, vivificare con nuove intuizioni la tradizione dell'arte. Un uomo che abbia veramente compreso e realizzato in sé l'essenza dell'arte è in grado di creare nuove "forme", nuovi modelli da imitare per raggiungere il fine ultimo delle arti marziali. È questo lo stadio raggiunto dai grandi maestri fondatori di scuole e stili: tra questi ricordiamo Morihei Ueshiba, fondatore dell'aikido; Chang San Feng, che creò il taijiquan; Shigeru Egami, fondatore dello shotokai.
È il metodo tradizionale orientale a garantire la trasmissione corretta degli, insegnamenti, ma sono gli uomini che rendono concreta l'arte.