martedì 5 maggio 2020

Perchè un praticante di arti marziali riesce a spaccare una tavoletta di legno facilmente

Tameshi Wari


Credo sia innanzitutto importante fare una distinzione: fondamentalmente ci sono due categorie di marzialisti che “spaccano cose”.
1 - I non professionisti a cui viene insegnato a spaccare le tavolette, soprattutto in occidente.
2 - I praticanti professionisti di stili “duri” come il Kyokushin o lo Shaolin Quan, che si allenano anni ed anni per condizionare mani e tibie.
I primi sono quelli che si vedono più spesso, la classica scuola di karate o di taekwondo dove gli studenti spaccano la tavoletta di legno, spesso in occasione degli esami di passaggio di grado. È un gesto abbastanza spettacolare, ma non richiede particolari abilità, a parte un po' di concentrazione e di coordinazione. Lo fanno anche ai corsi di coaching e ai corsi motivazionali, come gesto liberatorio e che genera autostima (un po' come il fire walking: lo fai per poter dire a te stesso “ce l'ho fatta”). Parlo con cognizione di causa: la mia ex fidanzata (45 kg, nessuna esperienza marziale, forma fisica nella media) l'ha fatto senza difficoltà su una tavoletta di quasi 2 cm. In pratica il trucco è crederci e colpire come se non si dovesse incontrare resistenza: si tratta comunque di tavolette di legno secco senza nodi, da rompere nel senso delle venature.
I secondi fanno un lavoro completamente diverso, allenandosi per sviluppare il “callo osseo”, in modo da indurire le parti del corpo che colpiscono e desensibilizzare le terminazioni nervose che trasmettono il dolore dell'impatto. Tutti i praticati di Arti Marziali hanno bisogno di un certo grado di condizionamento (altrimenti si metterebbero a mugolare al primo pugno arrivato a segno), ma portato all'eccesso questo tipo di allenamento permette di sviluppare mani dure come la pietra. A questo fine si fanno allenamenti durissimi: pugni contro gli alberi, muri, sabbia, ghiaia, calci su travi di cemento… Tutto fondamentalmente per trasformare le mani in “clave” con cui menare l'avversario. Un modo piuttosto primitivo di allenarsi a mio parere, ma sicuramente efficace. In rete si trovano facilmente video di atleti che abbattono alberi a calci o sfondano mattoni e tegole a pugni: tutto vero. Si sono allenati al punto di avere arti durissimi e di non sentire più dolore.
Il problema è che i danni sono irreversibili e questo tipo di condizionamento porta alla morte delle terminazioni nervose, con conseguente perdita della capacità di usare agilmente le dita (mi stupirei molto di vedere nella stessa persona la capacità di demolire un muro a mani nude e di suonare il violino o il pianoforte). Il gioco vale la candela?
Si chiama Legge di Wolff, in pratica, gli artisti marziali si procurano nel corso del tempo tramite gli esercizi preparatori delle microfratture ossee che con la ricalcificazione e rimineralizzazione rendono le ossa man mano sempre più dure e in grado di sopportare impatti maggiori (c.d.: osteoaddensamento).
La legge suddetta enuncia “Ogni cambiamento nella funzione di un osso è seguito da alcuni cambiamenti definitivi nella sua architettura interna e nella sua conformazione esterna.”




lunedì 4 maggio 2020

ameshi-wari: mito e realtà

Pelajaran dari Tameshiwari | INKAI RANTING KARATE AMBOY

Premessa
Anche se l’immagine più universalmente riconosciuta, accreditata e diciamo pure derisa del praticante di karate è quella di “spaccalegna”, tra gli addetti al lavoro la specialità del tameshiwari è praticamente sconosciuta.
Per quanto ne sappiamo noi, in Italia, dove lo stile Kyokushinkai del maestro Oyama (che conferisce particolare enfasi alle prove di forza e in particolare alle rotture) non conta molti adepti, sono ben poche le palestre dove ci si prepara e si pratica il tameshiwari. A parte gli adepti del Taekwondo, noti per le acrobatiche dimostrazioni di rotture in volo; a parte qualche specialista isolato come Michel Jamet, i karateka di casa nostra (e in particolar modo i praticanti dello stile shotokan) non dimostrano grande simpatia per questa specialità. Eppure sono ben note le fotografie dei maestri Nishiyama e Kanazawa quando, molti anni fa, eseguivano spettacolari rotture di pugno e di calcio; e una ventina di anni or sono, in occasione di un campionato di kata, gli allora “nazionali” Fugazza, Marangoni e Ruffini ruppero di pugno, di taglio e di calcio tre robuste tavole di abete. Ma fu un exploit isolato.
Le ragioni del declino del tameshiwari in quasi tutte le palestre che, d’altra parte, hanno abbandonato anche l’uso del makiwara, indispensabile premessa per le rotture, sono intuibili: per “rompere”, anzitutto, occorrono coraggio e potenza, e gli istruttori che non riescono a infondere o migliorare queste doti nei loro allievi non vogliono rischiare di perderli sottoponendoli a prove che non supererebbero. Il tameshiwari inoltre va in direzione esattamente opposta alla “sportivizzazione” e “demarzializzazione” del Budo che è ormai un fatto compiuto quasi ovunque, ed è certamente inadatto ai bambini, la sola fascia di età che ancora popola le palestre di karate.
Eppure il tameshiwari è una pratica altamente formativa e, anche senza arrivare alla concezione del maestro Oyama (“This is Karate”, Japan Publ. 1973, un’opera fondamentale per chi voglia studiare le rotture) per il quale “un karateka che non conosca le rotture è come un albero che non dà frutti”), numerose sono le doti che la sua pratica, assidua e non sporadica, permette di sviluppare. Poche regole semplicissime permettono poi di accostarsi a queste tecniche minimizzando gli attentati all’incolumità dei propri arti:
1) Pratica costante del makiwara (da 200 a 1000 pugni alla settimana; in analoga misura vanno allenate le altre tecniche che si intendono usare);
2) Apprendimento della tecnica corretta (preferibilmente colpi otoshi, cioè dall’alto verso il basso) da allenare con la pratica a vuoto;
3) Visualizzazione chiara della tavola rotta prima di provare effettivamente (per questo sono assai utili la dinamica mentale o la meditazione);
4) Fiducia in se stessi, che si ottiene e si conserva attenendosi scrupolosamente ai punti precedenti e compiendo progressi graduali, partendo cioè da misure abbordabili e non facendo mai il passo più lungo della gamba;
5) Uso di materiale standard, di forma e misura già sperimentate. Le tavole di abete, che sono le più usate per questo scopo, hanno il vantaggio-svantaggio delle venature, che le rendono una diversa dall’altra. Io preferisco il truciolare, che dà indicazioni attendibili sui progressi compiuti. Vanno benissimo i “coppi” dei tetti e i mezzi mattoni, l’ardesia e i sassi piatti dei fiumi. Ad ogni modo, per la rottura di materiale inelastico e duro si richiede una tecnica particolare, che è per me ancora oggetto di studio.

Consigli al principiante.
Il principiante delle tecniche di rottura (meglio precisarlo) non dovrebbe essere un principiante di karate, ma avere alle spalle un paio d’anni di pratica; e quando parlo di pratica, mi riferisco all’allenamento al makiwara, ai piegamenti sui pugni, e in generale all’allenamento duro e stressante che forma lo spirito non meno di quanto rafforzi il corpo.
Premesso questo, il praticante si deve procurare il materiale adatto per la rottura e il sostegno più idoneo. Suggerisco, come ho già detto, il truciolare di misure standard (cm. 40 x 15) e di spessore crescente. Per la prima prova si dovrebbe scegliere una tavola di spessore irrisorio, diciamo 10 mm. Il perché è presto detto: si tratta di mettere a punto la tecnica e di non distruggere sul nascere quella fiducia in se stessi che, stando al maestro Oyama e alla mia personale esperienza, costituisce il 70 % delle condizioni di successo. Chiunque è in grado di spezzare in qualunque modo (comprese tecniche improvvisate di nukite o … colpi di testa) un centimetro di truciolare; ma queste prime esperienze sono importantissime ed è vitale assicurarsi che siano positive.
La prima tecnica che suggerisco di impiegare è lo shuto-uchi (colpo col taglio della mano) portato dall’alto verso il basso su una tavola disposta orizzontalmente davanti a noi all’altezza (all’incirca) della cintura mentre ci troviamo in posizione di zenkutsudachi. La tavola appoggerà:
a) su due blocchi di cemento o pietra (soluzione ottimale, indispensabile per misure superiori); b) sui bordi di due robuste sedie o tavoli. È esclusa ovviamente, a causa della direzione della tecnica, la collaborazione di uno o due compagni incaricati di reggere la tavola stessa. Il colpo dovrà essere il più veloce possibile e sarà diretto verso il centro della tavola, ruotando la mano al momento dell’impatto in modo da colpire non col bordo della mano ma con l’osso vicino al polso, impiegando la superficie più piccola possibile. Ripetere due o tre volte la tecnica fino a padroneggiarla prima di passare alla misura seguente: due tavole da un centimetro, da rompere usando la stessa tecnica. Anche qui è altamente improbabile che il principiante adulto incontri la benché minima difficoltà nell’eseguire la rottura richiesta. Non è tuttavia fuori luogo che egli sin da ora si abitui ad associare all’allenamento della tecnica un’adeguata preparazione mentale, che vorrei qui sintetizzare:
1) Regolarizzare la funzione respiratoria, che si sarà certamente alterata e affrettata approssimandosi il momento della prova;
2) cercare l’isolamento dall’ambiente circostante, concentrandosi esclusivamente sull’oggetto della prova, la tavoletta;
3) visualizzare vividamente le tavolette rotte e fare propria questa immagine.
Volendo codificare il “cerimoniale” di una rottura ben eseguita: il praticante sistema le tavolette sui blocchi, assicurandosi della loro stabilità come del fatto che poggino in prossimità dei bordi (altrimenti la superficie ridotta della tavola complicherebbe inutilmente la prova). Si allontana di un passo ed esegue alcuni esercizi respiratori concentrandosi e visualizzando la rottura che sta per effettuare; si avvicina decisamente, prova una volta la distanza e colpisce, enfatizzando la velocità e senza riserve mentali, mirando a un punto immaginario sotto la tavola. Quindi…raccoglie I cocci e se ne va.

Rottura col gomito.
La posizione della tavola è la stessa, ma il praticante si disporrà in una posizione meno frontale, quasi parallela alla tavola. La rottura verrà eseguita con un deciso colpo di gomito (caricato altissimo) direttamente verso il basso, accompagnato da un abbassamento deciso di tutto il corpo. Si potrà assumere la posizione di kibadachi o di fudodachi; ciò che è veramente importante è colpire verticalmente usando il prolungamento dell’ulna (parte estrema del gomito, dalla parte dell’avambraccio) e non l’articolazione, che è alquanto delicata e va ovviamente tutelata. La tecnica di gomito è in grado di sviluppare una potenza spaventosa anche in persone poco allenate e non richiede particolare allenamento al makiwara. Eseguita con le precauzioni che ho detto, permette prestazioni sbalorditive (dieci tavole e più con un colpo).

Altre tecniche di rottura.
Oltre al pugno, al taglio e al gomito abbiamo sperimentato il calcio maegeri e il “leggendario” nukite. Per quanto riguarda maegeri, è una tecnica molto efficace ma impegnativa, che richiede rapidità di esecuzione, capacità di contrarre le dita verso l’alto e sicurezza. Due assistenti (con la procedura che sarà esposta tra breve) reggono la tavola di fronte a voi, all’altezza della vostra cintura, con un’inclinazione di circa 45º. Voi calciate da zenkutsudachi direttamente verso l’alto, tenendo per maggior sicurezza la caviglia ad angolo retto rispetto alla gamba (invece che allungata come nella normale esecuzione del calcio).
Per quel che concerne nukite, preparatevi alla prova con almeno tre mesi di piegamenti sulle dita. Formate la mano a picca nella versione modificata suggerita dal maestro Oyama, vale a dire con le dita che formano un angolo di 90º/120º rispetto al palmo, e allineate la punta del medio con le altre dita. Imparate a contrarre la mano in questa scomoda e insolita posizione allenandovi anche a colpire il makiwara. A questo punto siete pronti per realizzare modeste misure che però saranno sufficienti a farvi ricredere sulla fragilità delle vostre dita. Se poi volete imitare Miyagi, Oyama e Agena, squartare vitelli, strappare cortecce e perforare tramezzi, allora due o tre anni di tuffi (delle mani, si intende) in secchi pieni di riso, ghiaino eccetera non saranno di troppo. Io non l’ho mai fatto.

Una progressione ragionevole.
Nella nostra pratica abbiamo imparato una regola che consideriamo aurea: non dare per acquisita una misura prima di averla superata almeno tre volte. Così, non cimentatevi con tre tavole da un centimetro prima di essere ben sicuri, in qualsiasi condizione, di romperne due. Non cimentatevi nel tameshiwari troppo spesso, soprattutto se c’è qualche abrasione o contusione da far riassorbire: un ritmo quindicinale è soddisfacente. Scoprirete presto che nelle rotture col gomito progredirete più in fretta e facilmente che nelle altre prove.
Quando sarete riusciti a rompere quattro tavole da un centimetro potrete passare a tavole di spessore doppio (2 cm). Se il lavoro preliminare sarà stato compiuto in modo progressivo e soddisfacente, il praticante sarà sorpreso di non trovare poi “così dura”questa tavola.

Le prove con gli assistenti.
Richiedono, da parte di chi sorregge le tavole, una certa perizia. Per evitare che sotto l’impatto del colpo le braccia degli assistenti cedano assorbendo così parte della potenza e impedendo la rottura, essi si collocheranno spalle al muro e reggeranno i bordi delle tavole:
a) a braccia tese (pericolo di contraccolpo ai gomiti);
b) a braccia piegate coi gomiti raccolti contro il corpo e gli addominali ben contratti.

Gli errori. Perché si sbaglia. Che fare quando si sbaglia.
Nonostante tutte le precauzioni, talvolta si sbaglia. E arrivati a certe misure, prima o poi si sbaglia senz’altro. Perchè?
1. Perché si è a una misura-limite: caso non infrequente ma neppure comunissimo. Se siete sicuri che questo è il vostro problema, non ostinatevi. Provate periodicamente la misura appena inferiore e lavorate di più al makiwara. Cercate di accrescere la velocità piuttosto che la pesantezza delle vostre tecniche. Apettate un paio di mesi...e riprovate.
2. Perché ripetuti errori hanno provocato in voi un blocco psichico. Adesso colpite credendo di voler rompere la tavola, ma in realtà, pieni di riserve, colpite la tavola. E vi fate male. E il blocco si rafforza. E voi cominciate a odiare il tameshiwari e a deridere “chi pensa che fare karate vuol dire rompere le tavolette”. È un momento difficile che tutti i praticanti hanno attraversato almeno una volta. Per uscirne c’è solo un metodo: ripartire da zero. Da un centimetro. Poi due. E risalire, con fermezza e pazienza, sicuri che in cima alla salita c’è la sicurezza, che avete perduto e che ritrovate per strada.
Non dimenticate: ogni successo rinforza l’immagine mentale della rottura, ed è perciò la premessa del successo seguente. Ma purtroppo anche il contrario è vero: e se le nocche sbucciate si rimarginano in fretta, non è lo stesso per il morale sotto i piedi.

Rimando a una puntata successiva il discorso su pietre, tegole e mattoni.


domenica 3 maggio 2020

Isshin-Ryu

Isshin-ryu | Wiki | Martial Arts Amino Amino

Isshin-Ryu (一心流 Isshin-ryū) è uno stile del karate di Okinawa fondato da Tatsuo Shimabuku (島袋 龍夫) e nominato da lui 15 gennaio 1956. Il karate Isshin-Ryū è la sintesi dello Shorin-ryū, del Gojū-ryū karate, e del kobudō. Il nome significa, alla lettera, "un metodo di cuore." Dal 1989 ci sono 336 rami dello Isshin-ryū in tutto il Mondo, ma la maggior parte sono concentrate negli Stati Uniti. Dopo la morte di Shimabuku nel 1975, furono apportate molte variazioni allo Isshin-ryū.

Kata
Il sistema è la somma di kata, o metodi di pratica formale, e di specifiche tecniche che usano: pugno (pugno verticale) e calci (snapping kicks). In molte delle varie forme del sistema, quattordici kata (otto a mano vuota, tre col bō, due col sai e uno con il tuifa kata) are agreed upon as composing Isshin-ryu. Questi Kata includono sviluppi originali del Maestro, e kata ereditati dagli stili originari.




sabato 2 maggio 2020

Kenyu-ryu

Kenyu ryu - Home | Facebook




Kenyu-ryu è una scuola di karate fondata Ryusho Tomoyori (1907-1977). Tomoyori nacque nel villaggio di Motobu (regione di Kunigami- prefettura di Okinawa). Appassionato di arti marziali fin da giovane, inizio a studiare con maestri del calibro di Aragaki, Awane e successivamente si recò a Naha dove studiò per quattro anni sotto la guida di Chōjun Miyagi, fondatore dello stile Gōjū-ryū.
Il nome della Scuola Kenyu deriva dalla combinazione di due caratteri cinesi che rappresentano Ken da Kenwa Mabuni e yu da Tomoyori (poiché Tomo può essere pronunciato yu con lo stesso carattere cinese). Il discendente diretto e capo famiglia della seconda generazione è suo figlio Ryuichiro Tomoyori nato il 6 gennaio 1937 a Imafuku-naka (rione yoto di Osaka). Ryuichiro iniziò la Pratica a 6 anni sotto la guida del padre e quando questi morì, aprì il suo Dojo sempre a Imafuku-nishi.


venerdì 1 maggio 2020

Koei-Kan

Koei-Kan Karate-Do Home Page




Il Koei-Kan Karate-dō è uno stile di Karate sviluppato dal maestro Onishi Eizo nel 1952. Il termine può essere tradotto dal giapponese come "Prosperità con felicità".
Eizo è stato allievo di due famosi maestri del Karate di Okinawa - Toyama Kanken (1888-1966) e Kyoda Juhatsu (1887-1968) - e aprì il suo primo dojo di Koei-Kan il 2 aprile 1954, nella prefettura di Kanagawa. Il maestro Onishi era inoltre un esperto in Naha-te e Shuri-te.
Il Koei-Kan presenta un'unica forma di combattimento a contatto pieno chiamato Bogu Kumite (combattimento con armatura di protezione): l'armatura, chiamata bogu, è costituita nello specifico da una maschera di protezione per il volto e di una placca per collegare il movimento della testa a quello delle spalle; un altro aspetto unico dell'allenamento del Koei-Kan è il metodo sistematico di spostamento del corpo, chiamato Tenshin Waza, che integra schivate, gioco di gambe, rotazioni e capriole.
I kata del Koei-Kan includono cinque Pinan Kata, tre Naihanchin, Sanchin, Sanseiru, Seisan, Chintō, quattro Kushanku Kata, due Passai Kata, Sepai, Gojūshiho, Suparinpei, Jaken Ichiro e Renchiken Ichiro; sono inoltre praticati anche i kata del Kobudō di Okinawa, compresi quelli con armi quali bō, nunchaku, sai, kama e tonfa.
Le tecniche primarie sono sostanzialmente quelle classiche del Karate (pugni, parate e calci) mentre quelle secondarie includono proiezioni, strangolamenti, leve articolari e relativi metodi di uscita e in generale il combattimento a terra; anche in questa corrente esistono tre diversi tipi di applicazione: kata (studio delle forme), waza (studio delle tecniche) e kumite (combattimento).
Tra i praticanti più famosi di questa arte si può citare Chuck Liddell, ex campione dei pesi mediomassimi UFC, che iniziò ad allenarsi a nel Koei-Kan a dodici anni.


giovedì 30 aprile 2020

Kokondō

International Kokondo Martial Arts Seminar - SponsorMyEvent

Il Karate Kokondo (古今道 空手) e la sua disciplina affine del Jukido Jujitsu (柔気道 柔術) sono arti marziali di origini giapponesi sviluppate da Paul Arel. Jukido Jujitsu fu fondata nel 1959 seguita dal Karate Kokondo nel 1970. I due stili sono insegnati a livello mondiale, principalmente negli Stati Uniti. In America, la più grande concentrazione di dojos è situata vicino a Sud Windsor nel Connecticut, dove è situato il dojo honbu. La International Kokondo Association (IKA) è l'organo mondiale di controllo del Jukido Jujitsu & del Karate Kokondo. Tutti gli istruttori di discipline Kokondo sono in diretto contatto con la IKA e con il suo dojo honbu (Quartier Generale).

Principi
I principi cardine del Karate Kokondo e del Jukido Jujitsu sono:
  • Jushin: la linea centrale. La linea centrale orizzontale e verticale del corpo dell'avversario sono cruciali per l'esecuzione delle tecniche. Le tecniche di contenimento e gli attacchi devono essere portati sulla linea centrale;
  • Kuzushi: sbilanciamento. Creazione e controllo degli sbilanciamenti porta all'esecuzione di tecniche efficaci.
  • Shorin-ji: punti e cerchi. Né tecniche in linea retta (come in molti stili giapponesi) né le tecniche circolari (come in molti stili cinesi), sono ideali separatamente. Ognuno ha i suoi punti di forza in combinazione ed il risultato sarà più efficace.




mercoledì 29 aprile 2020

Kudo

KUDO by Yelka on Dribbble




Il Daido Juku (o Daidojuku) conosciuto anche come Kudo è un'arte marziale ibrida fondata nel 1981 da Azuma Takashi. Daidojuku, tradotto letteralmente dal giapponese, significa "la grande via". Il Daido juku combina diversi stili per ottenere come risultato un combattimento realistico.

Storia
Azuma, originalmente un campione di full contact karate kyokushin, si dimise dall'organizzazione Kyokushin per fondare il Daidojuku in Giappone. Esso comprende tecniche che non erano presenti negli stili a pieno contatto del karate. Azuma, essendo una cintura nera di terzo dan in judo come una nera di quarto dan in karate kyokushin, riconobbe il potenziale di un'arte marziale ibrida. Questa non sarebbe stata limitata dai confini di un singolo stile ma avrebbe utilizzato tecniche di diverse arti marziali, inizialmente solo judo e karate. Più tardi negli anni ottanta e novanta tale stile incominciò a comprendere diverse tecniche da arti marziali come boxe, muay thai, jujitsu, wrestling, e altre tutte fuse insieme nello stile del Daidojuku. Uno dei precetti fondamentali nel Daidojuku era la creazione di uno stile di combattimento realistico e versatile che comprendesse efficaci tecniche offensive e difensive tra cui pugni alla testa, gomitate, testate, proiezioni e leve articolari dal Judo unito ad altre tecniche di combattimento a terra. Nel 1981 il Daidojuku fece il suo esordio al "1981 Hokutoki Karate Championship".
Inizialmente conosciuto come Karate Daidojuku, il nome dello stile dovette essere cambiato inevitabilmente per riconoscere le sue uniche e non ortodosse tecniche come una mixed martial art. Nel 2001, in un'intervista, il fondatore rinominò tale arte marziale in Kudo, Basato sulla filosofia del budō, il Kudo è esteso a livello mondiale e tutti i suoi istruttori e capi sono certificati e registrati sotto la Kudo International Federation, conosciuta anche come K.I.F.

Filosofia
Il kudo segue il concetto del budo. Con esso non si cerca solo la forza fisica, ma piuttosto il perseguimento della forza spirituale (coraggio, autocontrollo, atteggiamento inflessibile), il raggiungimento della gentilezza (compassione verso i deboli e gli smarriti) e l'etichetta (verso i colleghi, gli anziani, i giovani). Il Budo è un'educazione fisica sociale che mira a produrre esseri umani che siano in grado di contribuire alla società dando loro un ambiente in cui sviluppare le qualità spirituali sopra menzionate.

Dojo kun
Dōjō kun tradotto letteralmente significa regole del luogo in cui si pratica la Via. Esso è come una sorta di giuramento che riflette i valori che si cercano di comunicare. Solitamente si cita all'inizio alla fine della sessione di allenamento.
Il dojo kun del kudo è il seguente:
Attraverso l’apprendimento del Kudo noi possiamo sviluppare una grande forza fisica e mentale. Studiando duramente possiamo formare la nostra intelligenza. Noi speriamo di forgiare il nostro spirito verso una nuova via, vivere con generosità e umanità tra le persone migliorando la nostra personalità. In questo modo apportiamo il nostro contributo positivo alla società.

Equipaggiamento
Gli atleti di Kudo, o kudoka, indossano un'uniforme ufficiale, "dogi" o "kudogi"(simile al judo gi, resistente per le proiezioni, ma con le maniche più corte rispetto a una karate gi tradizionale). Questo design è ideale per le tecniche di presa e proiezione. Per gareggiare sono anche richiesti una conchiglia integrale, un paradenti, dei guantini ufficiali della K.I.F. (che proteggano le nocche ma che lascino libere e scoperte le dita per permettere le prese) e uno speciale casco di protezione K.I.F. con visiera in plexiglas per proteggere i combattenti da gravi danni al volto e traumi cerebrali.
Gli atleti minorenni, oltre al Kudo Gi, al casco in plexiglas e i guantini, devono indossare i paratibie e il corpetto. Va detto, però, che il regolamento sulle protezioni dei minorenni varia da torneo a torneo.

Categorie di combattimento
Gli atleti non vengono classificati in base al peso, ma in base al physical index. Il physical index (PI) è la somma del peso, in kilogrammi, più l'altezza, in centimetri.
Questo sistema per identificare delle categorie in cui combattere è l'unico nel suo genere. Solitamente negli altri sport da combattimento o le altre arti marziali si classificano le categorie in cui combattere in base al peso in kilogrammi. Per mezzo di questo sistema di categorie si cerca di valorizzare non solo il peso ma anche l'altezza che, generalmente, è sinonimo di un braccio più lungo e quindi un vantaggio sulla lunga distanza

Kudo e mma
Il kudo presenta analogie con le Mixed martial arts in quanto entrambe presentano un contesto di lotta a 360° e quindi con ogni aspetto del combattimento. Tuttavia vi sono delle differenze nel regolamento, nel modo in cui sono nate e nell'insegnamento

Regolamento
Il regolamento nel daido juku è definito, ma ogni torneo utilizza delle regole proprie, ispirandosi a quest'ultime. Le regole definite, in base al regolamento utilizzato al mondiale stabiliscono: la lotta al suolo solo per due volte, rispettivamente non più di trenta secondi, colpi proibiti alla schiena e alle parti intime.
Lo svolgimento delle competizioni è su un tatami 13x13 metri con un quadrato interno 9x9 metri, in cui vi è l'area di combattimento. Sui quattro angoli dell'area del combattimento vi sono 4 arbitri più uno dentro il tatami.
Il principio con cui si assegnano i punti è in base alla forza con cui si sono sferrati, poiché essa è conseguenza della tecnica e delle proprie capacità fisiche. Detto ciò la compononente chiave che da punti non è la tecnica, ma l'efficacia che, si può comprendere, in base a quanto l'avversario ha accusato il colpo. La valutazione è da 1 a 8. I punti, in giapponese, sono chiamati koka, yuko, wazari e ippon. Essi valgono rispettivamente 1 punto, 2 punti, 4 punti e 8 punti (se l'avversario totalizza 8 punti gli viene assegnata la vittoria).
Inoltre la vittoria può avvenire per sottomissione o strangolamento, k.o. o chi alla fine dell'incontro ha totalizzato più punti. In caso di pareggio o si delibera o si svolge un altro incontro. La durata dell'incontro è di 3 minuti.

Diffusione
Il kudo é praticato in 52 paesi con la maggiore rappresentanza in Russia. La popolarità è dovuta al fatto che la Russia è stato il primo paese estero con questo sport.


martedì 28 aprile 2020

Matsubayashi-ryū

Matsubayashi-ryū - Wikipedia

Matsubayashi-ryū (松林流), conosciuto anche come: Matsubayashi Shōrin-ryū, è una scuola di Okinawa di karate Shōrin-ryū fondata da Shōshin Nagamine, (1907-1997) nel 1947. Nel suo insegnamento sono previsti: 18 Kata, 7 two-man yakusoku kumite, (combattimento prestabilito), routine e pratica kobudō (armi).
Il Matsubayashi-ryū è uno degli stili di karate tradizionale meglio documentati, a seguito del libro di Nagamine: L'essenza del Karate-dō okinawense as well as Tales of the Masters.

Kata
  • Fukyugata Ichi
  • Fukyugata Ni
  • Pinan Shodan
  • Pinan Nidan
  • Pinan Sandan
  • Pinan Yondan
  • Pinan Godan
  • Naihanchi Shodan
  • Naihanchi Nidan
  • Naihanchi Sandan
  • Ananku
  • Wankan
  • Rōhai
  • Wanshu
  • Passai
  • Gojūshiho
  • Chintō
  • Kusanku




lunedì 27 aprile 2020

Motobu-ryū

Motobu-ryū - Wikipedia


Motobu-ryu (本部流) è una scuola di karate foundata da Motobu Chōki nel 1922. Il nome completo ed ufficiale è: Nihon Denryu Heiho Motobu Kenpo ("Japan's traditional tactics Motobu Kenpo").
Motobu Udun-di (本部御殿手), il Motobu appartiene alla famiglia di stili del karate, è inoltre chiamata: Motobu-ryu o Motobu-ryu Udundi. È una combinazione delle arti marziali native di Okinawa: Te (Un primo nome del Karate),kobudō okinawense e danze okinawensi.
Chosei Motobu è l'erede sia del Motobu-Ryu (arte marziale del padre) sia del Motobu Udundi (arte marziale dello zio, Choyu Motobu).