lunedì 4 maggio 2020

ameshi-wari: mito e realtà

Pelajaran dari Tameshiwari | INKAI RANTING KARATE AMBOY

Premessa
Anche se l’immagine più universalmente riconosciuta, accreditata e diciamo pure derisa del praticante di karate è quella di “spaccalegna”, tra gli addetti al lavoro la specialità del tameshiwari è praticamente sconosciuta.
Per quanto ne sappiamo noi, in Italia, dove lo stile Kyokushinkai del maestro Oyama (che conferisce particolare enfasi alle prove di forza e in particolare alle rotture) non conta molti adepti, sono ben poche le palestre dove ci si prepara e si pratica il tameshiwari. A parte gli adepti del Taekwondo, noti per le acrobatiche dimostrazioni di rotture in volo; a parte qualche specialista isolato come Michel Jamet, i karateka di casa nostra (e in particolar modo i praticanti dello stile shotokan) non dimostrano grande simpatia per questa specialità. Eppure sono ben note le fotografie dei maestri Nishiyama e Kanazawa quando, molti anni fa, eseguivano spettacolari rotture di pugno e di calcio; e una ventina di anni or sono, in occasione di un campionato di kata, gli allora “nazionali” Fugazza, Marangoni e Ruffini ruppero di pugno, di taglio e di calcio tre robuste tavole di abete. Ma fu un exploit isolato.
Le ragioni del declino del tameshiwari in quasi tutte le palestre che, d’altra parte, hanno abbandonato anche l’uso del makiwara, indispensabile premessa per le rotture, sono intuibili: per “rompere”, anzitutto, occorrono coraggio e potenza, e gli istruttori che non riescono a infondere o migliorare queste doti nei loro allievi non vogliono rischiare di perderli sottoponendoli a prove che non supererebbero. Il tameshiwari inoltre va in direzione esattamente opposta alla “sportivizzazione” e “demarzializzazione” del Budo che è ormai un fatto compiuto quasi ovunque, ed è certamente inadatto ai bambini, la sola fascia di età che ancora popola le palestre di karate.
Eppure il tameshiwari è una pratica altamente formativa e, anche senza arrivare alla concezione del maestro Oyama (“This is Karate”, Japan Publ. 1973, un’opera fondamentale per chi voglia studiare le rotture) per il quale “un karateka che non conosca le rotture è come un albero che non dà frutti”), numerose sono le doti che la sua pratica, assidua e non sporadica, permette di sviluppare. Poche regole semplicissime permettono poi di accostarsi a queste tecniche minimizzando gli attentati all’incolumità dei propri arti:
1) Pratica costante del makiwara (da 200 a 1000 pugni alla settimana; in analoga misura vanno allenate le altre tecniche che si intendono usare);
2) Apprendimento della tecnica corretta (preferibilmente colpi otoshi, cioè dall’alto verso il basso) da allenare con la pratica a vuoto;
3) Visualizzazione chiara della tavola rotta prima di provare effettivamente (per questo sono assai utili la dinamica mentale o la meditazione);
4) Fiducia in se stessi, che si ottiene e si conserva attenendosi scrupolosamente ai punti precedenti e compiendo progressi graduali, partendo cioè da misure abbordabili e non facendo mai il passo più lungo della gamba;
5) Uso di materiale standard, di forma e misura già sperimentate. Le tavole di abete, che sono le più usate per questo scopo, hanno il vantaggio-svantaggio delle venature, che le rendono una diversa dall’altra. Io preferisco il truciolare, che dà indicazioni attendibili sui progressi compiuti. Vanno benissimo i “coppi” dei tetti e i mezzi mattoni, l’ardesia e i sassi piatti dei fiumi. Ad ogni modo, per la rottura di materiale inelastico e duro si richiede una tecnica particolare, che è per me ancora oggetto di studio.

Consigli al principiante.
Il principiante delle tecniche di rottura (meglio precisarlo) non dovrebbe essere un principiante di karate, ma avere alle spalle un paio d’anni di pratica; e quando parlo di pratica, mi riferisco all’allenamento al makiwara, ai piegamenti sui pugni, e in generale all’allenamento duro e stressante che forma lo spirito non meno di quanto rafforzi il corpo.
Premesso questo, il praticante si deve procurare il materiale adatto per la rottura e il sostegno più idoneo. Suggerisco, come ho già detto, il truciolare di misure standard (cm. 40 x 15) e di spessore crescente. Per la prima prova si dovrebbe scegliere una tavola di spessore irrisorio, diciamo 10 mm. Il perché è presto detto: si tratta di mettere a punto la tecnica e di non distruggere sul nascere quella fiducia in se stessi che, stando al maestro Oyama e alla mia personale esperienza, costituisce il 70 % delle condizioni di successo. Chiunque è in grado di spezzare in qualunque modo (comprese tecniche improvvisate di nukite o … colpi di testa) un centimetro di truciolare; ma queste prime esperienze sono importantissime ed è vitale assicurarsi che siano positive.
La prima tecnica che suggerisco di impiegare è lo shuto-uchi (colpo col taglio della mano) portato dall’alto verso il basso su una tavola disposta orizzontalmente davanti a noi all’altezza (all’incirca) della cintura mentre ci troviamo in posizione di zenkutsudachi. La tavola appoggerà:
a) su due blocchi di cemento o pietra (soluzione ottimale, indispensabile per misure superiori); b) sui bordi di due robuste sedie o tavoli. È esclusa ovviamente, a causa della direzione della tecnica, la collaborazione di uno o due compagni incaricati di reggere la tavola stessa. Il colpo dovrà essere il più veloce possibile e sarà diretto verso il centro della tavola, ruotando la mano al momento dell’impatto in modo da colpire non col bordo della mano ma con l’osso vicino al polso, impiegando la superficie più piccola possibile. Ripetere due o tre volte la tecnica fino a padroneggiarla prima di passare alla misura seguente: due tavole da un centimetro, da rompere usando la stessa tecnica. Anche qui è altamente improbabile che il principiante adulto incontri la benché minima difficoltà nell’eseguire la rottura richiesta. Non è tuttavia fuori luogo che egli sin da ora si abitui ad associare all’allenamento della tecnica un’adeguata preparazione mentale, che vorrei qui sintetizzare:
1) Regolarizzare la funzione respiratoria, che si sarà certamente alterata e affrettata approssimandosi il momento della prova;
2) cercare l’isolamento dall’ambiente circostante, concentrandosi esclusivamente sull’oggetto della prova, la tavoletta;
3) visualizzare vividamente le tavolette rotte e fare propria questa immagine.
Volendo codificare il “cerimoniale” di una rottura ben eseguita: il praticante sistema le tavolette sui blocchi, assicurandosi della loro stabilità come del fatto che poggino in prossimità dei bordi (altrimenti la superficie ridotta della tavola complicherebbe inutilmente la prova). Si allontana di un passo ed esegue alcuni esercizi respiratori concentrandosi e visualizzando la rottura che sta per effettuare; si avvicina decisamente, prova una volta la distanza e colpisce, enfatizzando la velocità e senza riserve mentali, mirando a un punto immaginario sotto la tavola. Quindi…raccoglie I cocci e se ne va.

Rottura col gomito.
La posizione della tavola è la stessa, ma il praticante si disporrà in una posizione meno frontale, quasi parallela alla tavola. La rottura verrà eseguita con un deciso colpo di gomito (caricato altissimo) direttamente verso il basso, accompagnato da un abbassamento deciso di tutto il corpo. Si potrà assumere la posizione di kibadachi o di fudodachi; ciò che è veramente importante è colpire verticalmente usando il prolungamento dell’ulna (parte estrema del gomito, dalla parte dell’avambraccio) e non l’articolazione, che è alquanto delicata e va ovviamente tutelata. La tecnica di gomito è in grado di sviluppare una potenza spaventosa anche in persone poco allenate e non richiede particolare allenamento al makiwara. Eseguita con le precauzioni che ho detto, permette prestazioni sbalorditive (dieci tavole e più con un colpo).

Altre tecniche di rottura.
Oltre al pugno, al taglio e al gomito abbiamo sperimentato il calcio maegeri e il “leggendario” nukite. Per quanto riguarda maegeri, è una tecnica molto efficace ma impegnativa, che richiede rapidità di esecuzione, capacità di contrarre le dita verso l’alto e sicurezza. Due assistenti (con la procedura che sarà esposta tra breve) reggono la tavola di fronte a voi, all’altezza della vostra cintura, con un’inclinazione di circa 45º. Voi calciate da zenkutsudachi direttamente verso l’alto, tenendo per maggior sicurezza la caviglia ad angolo retto rispetto alla gamba (invece che allungata come nella normale esecuzione del calcio).
Per quel che concerne nukite, preparatevi alla prova con almeno tre mesi di piegamenti sulle dita. Formate la mano a picca nella versione modificata suggerita dal maestro Oyama, vale a dire con le dita che formano un angolo di 90º/120º rispetto al palmo, e allineate la punta del medio con le altre dita. Imparate a contrarre la mano in questa scomoda e insolita posizione allenandovi anche a colpire il makiwara. A questo punto siete pronti per realizzare modeste misure che però saranno sufficienti a farvi ricredere sulla fragilità delle vostre dita. Se poi volete imitare Miyagi, Oyama e Agena, squartare vitelli, strappare cortecce e perforare tramezzi, allora due o tre anni di tuffi (delle mani, si intende) in secchi pieni di riso, ghiaino eccetera non saranno di troppo. Io non l’ho mai fatto.

Una progressione ragionevole.
Nella nostra pratica abbiamo imparato una regola che consideriamo aurea: non dare per acquisita una misura prima di averla superata almeno tre volte. Così, non cimentatevi con tre tavole da un centimetro prima di essere ben sicuri, in qualsiasi condizione, di romperne due. Non cimentatevi nel tameshiwari troppo spesso, soprattutto se c’è qualche abrasione o contusione da far riassorbire: un ritmo quindicinale è soddisfacente. Scoprirete presto che nelle rotture col gomito progredirete più in fretta e facilmente che nelle altre prove.
Quando sarete riusciti a rompere quattro tavole da un centimetro potrete passare a tavole di spessore doppio (2 cm). Se il lavoro preliminare sarà stato compiuto in modo progressivo e soddisfacente, il praticante sarà sorpreso di non trovare poi “così dura”questa tavola.

Le prove con gli assistenti.
Richiedono, da parte di chi sorregge le tavole, una certa perizia. Per evitare che sotto l’impatto del colpo le braccia degli assistenti cedano assorbendo così parte della potenza e impedendo la rottura, essi si collocheranno spalle al muro e reggeranno i bordi delle tavole:
a) a braccia tese (pericolo di contraccolpo ai gomiti);
b) a braccia piegate coi gomiti raccolti contro il corpo e gli addominali ben contratti.

Gli errori. Perché si sbaglia. Che fare quando si sbaglia.
Nonostante tutte le precauzioni, talvolta si sbaglia. E arrivati a certe misure, prima o poi si sbaglia senz’altro. Perchè?
1. Perché si è a una misura-limite: caso non infrequente ma neppure comunissimo. Se siete sicuri che questo è il vostro problema, non ostinatevi. Provate periodicamente la misura appena inferiore e lavorate di più al makiwara. Cercate di accrescere la velocità piuttosto che la pesantezza delle vostre tecniche. Apettate un paio di mesi...e riprovate.
2. Perché ripetuti errori hanno provocato in voi un blocco psichico. Adesso colpite credendo di voler rompere la tavola, ma in realtà, pieni di riserve, colpite la tavola. E vi fate male. E il blocco si rafforza. E voi cominciate a odiare il tameshiwari e a deridere “chi pensa che fare karate vuol dire rompere le tavolette”. È un momento difficile che tutti i praticanti hanno attraversato almeno una volta. Per uscirne c’è solo un metodo: ripartire da zero. Da un centimetro. Poi due. E risalire, con fermezza e pazienza, sicuri che in cima alla salita c’è la sicurezza, che avete perduto e che ritrovate per strada.
Non dimenticate: ogni successo rinforza l’immagine mentale della rottura, ed è perciò la premessa del successo seguente. Ma purtroppo anche il contrario è vero: e se le nocche sbucciate si rimarginano in fretta, non è lo stesso per il morale sotto i piedi.

Rimando a una puntata successiva il discorso su pietre, tegole e mattoni.


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