Premessa
Anche se l’immagine
più universalmente riconosciuta, accreditata e diciamo pure derisa
del praticante di karate è quella di “spaccalegna”, tra gli
addetti al lavoro la specialità del
tameshiwari
è
praticamente sconosciuta.
Per quanto ne
sappiamo noi, in Italia, dove lo stile
Kyokushinkai
del maestro
Oyama (che conferisce particolare enfasi alle prove di forza e in
particolare alle rotture) non conta molti adepti, sono ben poche le
palestre dove ci si prepara e si pratica il
tameshiwari.
A parte gli adepti del Taekwondo, noti per le acrobatiche
dimostrazioni di rotture in volo; a parte qualche specialista isolato
come Michel Jamet,
i
karateka di casa nostra (e in particolar modo i praticanti dello
stile shotokan) non dimostrano grande simpatia per questa specialità.
Eppure sono ben note le fotografie dei maestri Nishiyama e Kanazawa
quando, molti anni fa, eseguivano spettacolari rotture di pugno e di
calcio; e una ventina di anni or sono, in occasione di un campionato
di kata, gli allora “nazionali” Fugazza, Marangoni e Ruffini
ruppero di pugno, di taglio e di calcio tre robuste tavole di abete.
Ma fu un exploit isolato.
Le ragioni del
declino del
tameshiwari
in quasi
tutte le palestre che, d’altra parte, hanno abbandonato anche l’uso
del
makiwara,
indispensabile premessa per le rotture, sono intuibili: per
“rompere”, anzitutto, occorrono coraggio e potenza, e gli
istruttori che non riescono a infondere o migliorare queste doti nei
loro allievi non vogliono rischiare di perderli sottoponendoli a
prove che non supererebbero. Il
tameshiwari
inoltre
va in direzione esattamente opposta alla “sportivizzazione” e
“demarzializzazione” del
Budo
che è
ormai un fatto compiuto quasi ovunque, ed è certamente inadatto ai
bambini, la sola fascia di età che ancora popola le palestre di
karate.
Eppure il
tameshiwari
è una pratica altamente formativa e,
anche senza arrivare alla concezione del maestro Oyama (“This is
Karate”, Japan Publ. 1973, un’opera fondamentale per chi voglia
studiare le rotture) per il quale “un karateka che non conosca le
rotture è come un albero che non dà frutti”), numerose sono le
doti che la sua pratica, assidua e non sporadica, permette di
sviluppare. Poche regole semplicissime permettono poi di accostarsi a
queste tecniche minimizzando gli attentati all’incolumità dei
propri arti:
1) Pratica costante
del
makiwara
(da 200 a
1000 pugni alla settimana; in analoga misura vanno allenate le altre
tecniche che si intendono usare);
2) Apprendimento
della tecnica corretta (preferibilmente colpi
otoshi,
cioè dall’alto verso il basso) da allenare con la pratica a vuoto;
3) Visualizzazione
chiara della tavola rotta prima di provare effettivamente (per questo
sono assai utili la dinamica mentale o la meditazione);
4) Fiducia in se
stessi, che si ottiene e si conserva attenendosi scrupolosamente ai
punti precedenti e compiendo progressi graduali, partendo cioè da
misure abbordabili e non facendo mai il passo più lungo della gamba;
5) Uso di materiale
standard, di forma e misura già sperimentate. Le tavole di abete,
che sono le più usate per questo scopo, hanno il
vantaggio-svantaggio delle venature, che le rendono una diversa
dall’altra. Io preferisco il truciolare, che dà indicazioni
attendibili sui progressi compiuti. Vanno benissimo i “coppi” dei
tetti e i mezzi mattoni, l’ardesia e i sassi piatti dei fiumi. Ad
ogni modo, per la rottura di materiale inelastico e duro si richiede
una tecnica particolare, che è per me ancora oggetto di studio.
Consigli al
principiante.
Il principiante
delle tecniche di rottura (meglio precisarlo) non dovrebbe essere un
principiante di karate, ma avere alle spalle un paio d’anni di
pratica; e quando parlo di pratica, mi riferisco all’allenamento al
makiwara,
ai piegamenti sui pugni, e in generale all’allenamento duro e
stressante che forma lo spirito non meno di quanto rafforzi il corpo.
Premesso questo, il
praticante si deve procurare il materiale adatto per la rottura e il
sostegno più idoneo. Suggerisco, come ho già detto, il truciolare
di misure standard (cm. 40 x 15) e di spessore crescente. Per la
prima prova si dovrebbe scegliere una tavola di spessore irrisorio,
diciamo 10 mm. Il perché è presto detto: si tratta di mettere a
punto la tecnica e di non distruggere sul nascere quella fiducia in
se stessi che, stando al maestro Oyama e alla mia personale
esperienza, costituisce il 70 % delle condizioni di successo.
Chiunque è in grado di spezzare in qualunque modo (comprese tecniche
improvvisate di
nukite
o …
colpi di testa) un centimetro di truciolare; ma queste prime
esperienze sono importantissime ed è vitale assicurarsi che siano
positive.
La prima tecnica che
suggerisco di impiegare è lo
shuto-uchi
(colpo
col taglio della mano) portato dall’alto verso il basso su una
tavola disposta orizzontalmente davanti a noi all’altezza
(all’incirca) della cintura mentre ci troviamo in posizione di
zenkutsudachi.
La tavola appoggerà:
a) su due blocchi di
cemento o pietra (soluzione ottimale, indispensabile per misure
superiori);
b)
sui bordi di due robuste sedie o tavoli. È esclusa ovviamente, a
causa della direzione della tecnica, la collaborazione di uno o due
compagni incaricati di reggere la tavola stessa. Il colpo dovrà
essere il più veloce possibile e sarà diretto verso il centro della
tavola, ruotando la mano al momento dell’impatto in modo da colpire
non col bordo della mano ma con l’osso vicino al polso, impiegando
la superficie più piccola possibile. Ripetere due o tre volte la
tecnica fino a padroneggiarla prima di passare alla misura seguente:
due tavole da un centimetro, da rompere usando la stessa tecnica.
Anche qui è altamente improbabile che il principiante adulto
incontri la benché minima difficoltà nell’eseguire la rottura
richiesta. Non è tuttavia fuori luogo che egli sin da ora si abitui
ad associare all’allenamento della tecnica un’adeguata
preparazione mentale, che vorrei qui sintetizzare:
1) Regolarizzare la
funzione respiratoria, che si sarà certamente alterata e affrettata
approssimandosi il momento della prova;
2) cercare
l’isolamento dall’ambiente circostante, concentrandosi
esclusivamente sull’oggetto della prova, la tavoletta;
3) visualizzare
vividamente le tavolette rotte e fare propria questa immagine.
Volendo codificare
il “cerimoniale” di una rottura ben eseguita: il praticante
sistema le tavolette sui blocchi, assicurandosi della loro stabilità
come del fatto che poggino in prossimità dei bordi (altrimenti la
superficie ridotta della tavola complicherebbe inutilmente la prova).
Si allontana di un passo ed esegue alcuni esercizi respiratori
concentrandosi e visualizzando la rottura che sta per effettuare; si
avvicina decisamente, prova una volta la distanza e colpisce,
enfatizzando la velocità e senza riserve mentali, mirando a un punto
immaginario sotto la tavola. Quindi…raccoglie I cocci e se ne va.
Rottura
col gomito.
La posizione della
tavola è la stessa, ma il praticante si disporrà in una posizione
meno frontale, quasi parallela alla tavola. La rottura verrà
eseguita con un deciso colpo di gomito (caricato altissimo)
direttamente verso il basso, accompagnato da un abbassamento deciso
di tutto il corpo. Si potrà assumere la posizione di kibadachi
o di
fudodachi;
ciò che è veramente importante è colpire verticalmente usando il
prolungamento dell’ulna (parte estrema del gomito, dalla parte
dell’avambraccio) e non l’articolazione, che è alquanto delicata
e va ovviamente tutelata. La tecnica di gomito è in grado di
sviluppare una potenza spaventosa anche in persone poco allenate e
non richiede particolare allenamento al makiwara. Eseguita con le
precauzioni che ho detto, permette prestazioni sbalorditive (dieci
tavole e più con un colpo).
Altre
tecniche di rottura.
Oltre al pugno, al
taglio e al gomito abbiamo sperimentato il calcio
maegeri
e il
“leggendario”
nukite.
Per quanto riguarda
maegeri,
è una tecnica molto efficace ma impegnativa, che richiede rapidità
di esecuzione, capacità di contrarre le dita verso l’alto e
sicurezza. Due assistenti (con la procedura che sarà esposta tra
breve) reggono la tavola di fronte a voi, all’altezza della vostra
cintura, con un’inclinazione di circa 45º. Voi calciate da
zenkutsudachi
direttamente
verso l’alto, tenendo per maggior sicurezza la caviglia ad angolo
retto rispetto alla gamba (invece che allungata come nella normale
esecuzione del calcio).
Per quel che
concerne
nukite,
preparatevi alla prova con almeno tre mesi di piegamenti sulle dita.
Formate la mano a picca nella versione modificata suggerita dal
maestro Oyama, vale a dire con le dita che formano un angolo di
90º/120º rispetto al palmo, e allineate la punta del medio con le
altre dita. Imparate a contrarre la mano in questa scomoda e insolita
posizione allenandovi anche a colpire il makiwara. A questo punto
siete pronti per realizzare modeste misure che però saranno
sufficienti a farvi ricredere sulla fragilità delle vostre dita. Se
poi volete imitare Miyagi, Oyama e Agena, squartare vitelli,
strappare cortecce e perforare tramezzi, allora due o tre anni di
tuffi (delle mani, si intende) in secchi pieni di riso, ghiaino
eccetera non saranno di troppo. Io non l’ho mai fatto.
Una progressione
ragionevole.
Nella nostra pratica
abbiamo imparato una regola che consideriamo aurea: non
dare per acquisita una misura prima di averla superata almeno tre
volte.
Così,
non cimentatevi con tre tavole da un centimetro prima di essere ben
sicuri, in qualsiasi condizione, di romperne due. Non cimentatevi nel
tameshiwari troppo spesso, soprattutto se c’è qualche abrasione o
contusione da far riassorbire: un ritmo quindicinale è
soddisfacente. Scoprirete presto che nelle rotture col gomito
progredirete più in fretta e facilmente che nelle altre prove.
Quando sarete riusciti a rompere
quattro tavole da un centimetro potrete passare a tavole di spessore
doppio (2 cm). Se il lavoro preliminare sarà stato compiuto in modo
progressivo e soddisfacente, il praticante sarà sorpreso di non
trovare poi “così dura”questa tavola.
Le prove con gli
assistenti.
Richiedono, da parte
di chi sorregge le tavole, una certa perizia. Per evitare che sotto
l’impatto del colpo le braccia degli assistenti cedano assorbendo
così parte della potenza e impedendo la rottura, essi si
collocheranno spalle al muro e reggeranno i bordi delle tavole:
a) a braccia tese
(pericolo di contraccolpo ai gomiti);
b) a braccia piegate
coi gomiti raccolti contro il corpo e gli addominali ben contratti.
Gli errori. Perché si
sbaglia. Che fare quando si sbaglia.
Nonostante tutte le precauzioni,
talvolta si sbaglia. E arrivati a certe misure, prima o poi si
sbaglia senz’altro. Perchè?
1. Perché si è a
una misura-limite: caso non infrequente ma neppure comunissimo. Se
siete sicuri che questo è il vostro problema, non ostinatevi.
Provate periodicamente la misura appena inferiore e lavorate di più
al makiwara. Cercate di accrescere la velocità piuttosto che la
pesantezza delle vostre tecniche. Apettate un paio di mesi...e
riprovate.
2. Perché ripetuti
errori hanno provocato in voi un blocco psichico. Adesso colpite
credendo di voler rompere la tavola, ma in realtà, pieni di riserve,
colpite la tavola. E vi fate male. E il blocco si rafforza. E voi
cominciate a odiare il tameshiwari e a deridere “chi pensa che fare
karate vuol dire rompere le tavolette”. È un momento difficile che
tutti i praticanti hanno attraversato almeno una volta. Per uscirne
c’è solo un metodo: ripartire da zero. Da un centimetro. Poi due.
E risalire, con fermezza e pazienza, sicuri che in cima alla salita
c’è la sicurezza, che avete perduto e che ritrovate per strada.
Non dimenticate:
ogni
successo rinforza l’immagine mentale della rottura, ed è perciò
la premessa del successo seguente.
Ma
purtroppo anche il contrario è vero: e se le nocche sbucciate si
rimarginano in fretta, non è lo stesso per il morale sotto i piedi.
Rimando a una puntata successiva il
discorso su pietre, tegole e mattoni.
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