venerdì 6 marzo 2020

Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe

Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe

Per i 67 anni compiuti il 9 febbraio 2019 da Vito Antuofermo, vi riproponiamo l’intervista che ci rilasciò nella sua Brooklyn. Una lunga chiacchierata nella quale la leggenda della boxe ci ha riportato indietro, nell’America di quel tempo in cui Vito divenne simbolo degli immigrati italiani negli Stati Uniti.
Esistono pugili, ma si potrebbe dire uomini, che una volta raggiunto il successo dimenticano all’improvviso le loro origini, e altri che continuano a lottare con dignità, schivando e incassando i colpi del fato per ripartire al contrattacco appena si apre uno spiraglio. Sarebbe stato sufficiente vedere combattere Vito Antuofermo anche solo una volta per capire di quale categoria facesse parte. Incassava senza arretrare, ogni incontro si trasformava in una battaglia epica in cui il campione della working class italo-americana tramutava la sua “fame” in ardore e audacia. Nato nel 1953 a Palo del Colle (Bari), Antuofermo emigra con la famiglia a New York negli anni ’60 per cercare fortuna negli Stati Uniti e nel 1979 conquista il titolo di campione del mondo dei pesi medi. Quello che sorprende non è solo la sua carriera costellata di combattimenti memorabili, ma la semplicità con la quale ha affrontato la vita una volta appesi i guantoni al chiodo. Quando i riflettori si spengono e il telefono smette di squillare, la quotidianità può diventare drammatica per chi ha raggiunto l’apice; questo ad un fighter come Vito, “the champ” come lo chiamano ancora gli amici, non è accaduto. Lo incontro nella sua Brooklyn e parliamo di boxe, di pugili, di imprese leggendarie ma anche di cinema e di storie di vita.


Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe


In Italia ti ricordano sempre con simpatia, forse anche per il tuo modo di combattere impetuoso e trascinante.
Avevo uno stile semplice, come il mio carattere.

Quando sei arrivato a New York?
Arrivai nel 1968 con mio fratello e mia madre. Mio padre, un fratello di dieci anni più piccolo di me e due sorelle rimasero in Italia; avevo anche una nonna di novanta anni. Quando quest’ultima si ammalò, mia madre tornò in Italia ma dopo poco mia nonna morì. A quel punto mia madre venne in America con tutti gli altri miei fratelli. Mio padre invece ebbe problemi con il passaporto per motivi politici, era un comunista e fu anche arrestato per un paio di giorni in Italia. Poi glielo diedero e venne anche lui.

Perché avete deciso di venire in America?
In quel periodo in Italia non ce la passavamo bene.

Come ti sei avvicinato alla boxe?
Era il 1969. Stavo andando al mare con la bicicletta insieme ad un amico, come facevamo spesso. Quel giorno c’era molto traffico e decidemmo di tornare indietro. Indossavo una maglietta aderente e avevo i muscoli in vista. Tre afroamericani ci affiancarono con la macchina e mi dissero che i miei muscoli erano “shit” (merda ndr). Io non conoscevo bene l’inglese e chiesi al mio amico cosa ci stessero dicendo ma lui aveva paura e non mi disse niente. Nel traffico continuavano a venirci dietro e ad un certo punto uno di loro ci fece vedere un coltello. Il mio amico andò di corsa a chiamare un poliziotto italiano che conoscevamo ma quando tornarono io già ne avevo steso uno. Poi arrivò la polizia, ci fermò e ci portò via in macchina. Accanto all’ufficio di polizia c’era la PAL (Police Athletic League), i poliziotti non ci arrestarono ma ci portarono in palestra e ci dissero che se ci piaceva fare a botte potevamo andare alla palestra della polizia e combattere lì. C’era una stanza piccola con un ring a 20 cm dal muro. Un poliziotto chiamò l’allenatore di pugilato, era un italiano e si chiamava Joe LaGuardia, e quest’ultimo mi chiese se volevo boxare. Io risposi di sì ma sapevo solo fare a botte per strada, tirare pugni, “dare le stoppate”. Mi mise sul ring con un afroamericano che aveva più esperienza di me e me le diede. LaGuardia si rese subito conto che ci mettevo il cuore ma che non avevo esperienza e mi disse: “voglio vedere se torni domani”. Tornai il giorno dopo perché volevo imparare a boxare e per avere la rivincita su quel pugile afroamericano. I tre ragazzi con i quali avevo discusso invece non tornarono mai più in palestra, perché gliene avevo già date abbastanza (sorridendo ndr). Una settimana dopo LaGuardia mi disse se volevo fare un incontro a Manhattan. Accettai e vinsi, quello fu il mio primo vero incontro. Era il settembre del 1969.

I primi anni ti sei allenato lì?

Sì i primi due anni mi allenai lì con Joe. Nel gennaio del 1970, dopo circa tre mesi, mi iscrissi al torneo dilettantistico del Golden Gloves (guanti d’oro ndr) e vinsi nella categoria welter dopo aver messo KO sei pugili. È un torneo molto prestigioso. Quando andai a registrarmi volevo iscrivermi nella categoria dei pesi medi; avevo visto combattere Benvenuti e volevo fare la sua stessa categoria nonostante pesassi 150 libbre (circa 68kg ndr). L’allenatore addirittura voleva farmi combattere come peso leggero ma gli dissi di no. Nel 1971 arrivai di nuovo in finale del Golden Gloves ma persi contro Eddie Gregory. Una sera dello stesso anno andai a vedere un incontro tra professionisti. Arrivai presto e a volte, quando erano previsti più incontri, poteva capitare che qualche pugile non si presentasse. Quella sera mancava un pugile ed una persona che mi conosceva mi chiese se volessi combattere. “Guadagni dei soldi” mi disse. Io chiesi quanto fosse il compenso perché in quel periodo non stavo lavorando. “400 dollari per 4 rounds”. Accettai e da quel momento diventai professionista. Vinsi quell’incontro contro Ivelaw Eastman ma nessuno mi informò che una volta diventato professionista non avrei più potuto combattere come dilettante e così saltai le Olimpiadi di Monaco nel 1972. Dalle Olimpiadi infatti sono esclusi i professionisti.

Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe


Quando hai iniziato a combattere c’era qualche pugile al quale ti ispiravi?
Nino Benvenuti. Fece tre incontri contro Griffith ed il terzo incontro lo vidi al Madison Square Garden; in quel periodo ancora non avevo iniziato ad allenarmi.

Ti ispiravi a Benvenuti ma i vostri stili erano molto diversi.
Sì mi ispiravo a lui perché ero italiano. Mi ricordo quando vinse il titolo nel 1967 contro Griffith, ero ancora in Italia e da noi era notte, scappai di casa per andare a sentire l’incontro con gli amici. Fu il primo incontro che seguii. I miei pensavano che stessi dormendo. Nel 1974 ebbi l’occasione di battermi con Griffith che ammiravo. Quando salii sul ring, in un attimo mi ricordai dell’incontro con Benvenuti, stavo per combattere con un mio idolo. Mi tornò in mente tutto insieme prima del combattimento, un misto di paura e di meraviglia. Quella sera vinsi nettamente (ai punti ndr).

Nel 1976 hai conquistato il titolo europeo dei superwelter.
Sì sconfissi in Germania il tedesco Eckart Dagge, che pochi mesi dopo diventò campione del mondo. Prima di quel match nel 1974 feci un incontro a New York con John L. Sullivan che era un pronipote del primo campione mondiale dei pesi massimi (John Lawrence Sullivan ndr). Veniva da 24 incontri vinti tutti per KO. Era irlandese e c’era una certa rivalità con gli italiani. Anche io venivo da circa 20 incontri imbattuti (unica sconfitta con Harold Weston nel luglio 1973 ndr). L’incontro era stato molto pubblicizzato e si tenne al Madison Square Garden. Vinsi, i giudici mi assegnarono 9 round su 10, e la notizia arrivò anche in Italia. C’era un famoso promoter italiano Rodolfo Sabbatini che mi mandò un ambasciatore, così cominciai a combattere anche in Italia. Nel 1975 a Napoli affrontai il palermitano Nino Castellini che era campione italiano; vinsi anche quel match.

Nel 1976 al Palazzetto dello Sport di Roma però hai perso il titolo contro il britannico Maurice Hope. È stato un brutto colpo?
Sì ero molto dispiaciuto, volevo smettere. Persi per ferita, 15 secondi prima della fine del combattimento l’arbitro sospese il match. Ero in vantaggio di un punto e se avessi perso la quindicesima ripresa saremmo stati pari. Avevo appena 23 anni e così ricominciai ad allenarmi e vinsi un paio di incontri per KO. A volte perdere fa bene. Tra l’altro anche Hope in seguito diventò campione del mondo battendo Rocky Mattioli. Ricominciai e vinsi tutti gli incontri, mettevo tutti KO.

I tuoi genitori cosa pensavano del fatto che praticassi la boxe?
Mio padre non veniva mai a vedermi nonostante i suoi amici lo invitassero spesso. Non voleva che combattessi. Mi ricordo il combattimento con Sullivan al Madison Square Garden, 10 riprese, era circa il mio ventesimo incontro da professionista. C’erano tutti italoamericani sugli spalti. Alla fine dell’incontro vidi uno che saltò sul ring, i poliziotti volevano prenderlo ma lui si buttò sul ring e mi prese in braccio. “Chi è questo qua?” mi chiesi. Era mio padre. Quella sera alcuni suoi amici erano andati a casa sua e lo avevano convinto a venire. Dopo quel match mi seguì sempre, anche quando andai in Italia.

Nel 1979 hai avuto l’opportunità di combattere contro Hugo Corro per il titolo mondiale dei medi. Non ti davano molte chance.
Sì, Corro era il favorito. L’incontro si tenne il 30 giugno del 1979 al Principato di Monaco. Lui era in vantaggio ai punti fino alla settima, ottava ripresa. Il mio allenatore mi disse che stavo perdendo e dalla nona ripresa passai al contrattacco e vinsi il titolo mondiale.
Corro era considerato l’erede di Monzon.

Non tirava forte come Monzon ma era più veloce. Avrei voluto combattere contro Monzon perché era uno di quelli che non scappava, Corro era più difficile perché si muoveva, era svelto. Io volevo incontrare i pugili più forti del mondo. Dopo la vittoria con Corro potevo fare due incontri decidendo gli avversari ma in quel momento Marvin Hagler era il favorito, il numero uno mondiale della WBC e WBA, e dissi “andiamo”. Potevo scegliere due incontri più semplici.

Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe


Con il titolo è arrivato anche il successo, come lo hai affrontato?
Fu bello. Fin da quando vinsi il Golden Gloves immaginavo che sarei diventato un campione.

Dove ti allenavi in quel periodo?
Fino al 1977 mi allenavo nel Queens, poi abbatterono tutto il palazzo e andai alla Gleason’s Gym a Manhattan. A quel tempo la palestra era un buco in una fabbrica, c’erano tre ring, poi è diventata la più famosa al mondo. Durante le riprese di Toro Scatenato (1980) alla Gleason, Isabella Rossellini, che all’epoca lavorava come giornalista nel programma di Renzo Arbore ‘L’altra domenica’, voleva intervistarmi. Rossellini poi si sposò con Scorsese. Conobbi anche Peter Savage, amico di LaMotta, perché i provini per il film li fecero alla Gleason ma io ero già troppo famoso per partecipare.

La prima sfida con “The Marvelous” Marvin Hagler (30 novembre 1979) è stata epica.
Fu davvero un bel match ma quel combattimento non avrei dovuto farlo. Mi stavo allenando a Miami e mi trasferirono a Las Vegas pochi giorni prima. Venivo dalla Florida dove faceva molto caldo, ero vestito in pantaloncini e canottiera e quando scesi dall’aereo, camminando sulla pista, mi accorsi che c’era un clima umido e freddo. Era fine novembre. Quando mi portarono in hotel per riposare mi resi conto di essermi raffreddato e di avere la febbre. Prima dell’incontro feci sparring in palestra e l’altro con cui mi allenavo mi mise sotto. Hagler era dato vincente per 2 a 1 ma, dopo che i giornalisti mi videro fare sparring, i bookmaker alzarono le quote a 5 a 1. Ero svantaggiato anche se ero il campione, i giornali poi dicevano che mi avevano regalato il titolo. Il mio manager mi chiese se volevo combattere, io volevo farlo ad ogni costo perché Hagler era uno che metteva tutti KO ma io ero il campione. Sapevo che se non avessi combattuto le persone ci sarebbero rimaste male. Avevo vinto il titolo cinque mesi prima, non potevo deluderli. La schiena mi faceva male, non potevo nemmeno alzarmi dal letto. Era la prima difesa con Hagler, pensavo che se non avessi combattuto mi avrebbero considerato un perdente. Avrebbero detto che avevo paura. Mi arrabbiai con me stesso a tal punto da non sentire più dolore. Più mi arrabbiavo e più mi sentivo bene, un’ora prima del combattimento mi sentivo al 100%. I miei due manager ed il trainer non erano sicuri ma gli dissi che per perdere mi avrebbe dovuto ammazzare.
I primi 5,6 round li persi perché quando sei raffreddato i muscoli sono un po’ duri, quando cominciai a sudare iniziai a sciogliermi e a sentirmi meglio. Feci 15 riprese. Lui vinse le prime 7,8 riprese ma le ultime 5 riprese le vinsi tutte io nettamente.

Il verdetto di parità ti consentì di mantenere il titolo.
Credo di essere stato l’unico oltre a Leonard a fare 15 riprese con Hagler, anzi Leonard nel 1987 ne fece 12 perché nel frattempo abbassarono il limite delle riprese. Hagler non ha fatto 15 riprese con nessuno perché metteva tutti KO. Credeva di aver già vinto e quando annunciarono la mia vittoria si vedeva che era arrabbiato. Quella sera a Las Vegas Sugar Ray Leonard sconfisse il portoricano Wilfred Benítez, diventando per la prima volta campione mondiale dei pesi welter; fu un’incredibile serata per la boxe.

Fisicamente come ti sentivi?
Mi capitava spesso che prima dell’incontro uscissero dei dolori. Anni dopo il combattimento con Hagler mi bloccai di nuovo con la schiena, non potevo alzarmi dal letto. Quando ricominciai a camminare mia moglie mi convinse a frequentare una scuola serale. Quando entrai in classe con le stampelle, il professore, che era di pochi anni più giovane di me, mi chiese se fossi Antuofermo l’ex campione. Non poteva credere che stessi in quelle cattive condizioni per un mal di schiena. Mi diede un libro di John Sarno sulla Tension myositis syndrome e sul rapporto fra dolore fisico e stato mentale. Lessi metà libro e mi alzai dal letto, la maggior parte dei dolori proviene dalla mente.

Pensi che Hagler sia il pugile più forte che tu abbia incontrato?
No, il secondo. Il primo fu un pugile di Philadelphia che si chiamava Eugene “Cyclone” Hart. Prima del nostro combattimento (1977) perse un incontro proprio con Hagler. Questo menava forte e fu l’unico che mi fece sentire le campane. Quella stessa sera mia moglie ebbe la mia prima figlia ed io la salutai ai microfoni dopo la vittoria ma credevo fosse un baby boy. Poi ho avuto tre maschi, il secondo si chiama Vito come me. Dopo la sconfitta contro Hagler si parlava di un possibile match contro Duran. Non so perché il mio manager non accettò. Duran è stato un grande campione e all’epoca era un peso leggero. Mi sarebbe piaciuto combattere con lui, lo farei anche adesso (ridendo ndr). Duran era uno che veniva incontro ed era più facile per me; io avevo problemi con quelli che “tiravano e scappavano” come Benvenuti e Minter. In palestra infatti mi piaceva fare sparring con i pesi massimi perché sono un po’ più lenti.

Dopo nemmeno quattro mesi eri di nuovo sul ring per difendere il titolo dei medi contro Alan Minter.
Sì dopo aver sconfitto Hagler mi fecero combattere con Minter il 16 marzo del 1980. Non mi diedero abbastanza tempo per recuperare perché quello con Hagler fu un incontro duro. Feci 15 riprese anche con Minter e credevo di aver vinto il match ma me lo rubarono. Portarono due giudici dal Regno Unito, uno in realtà abitava a Las Vegas ma era inglese, e Minter era britannico. Il terzo giudice era spagnolo e fu l’unico a votare per me, assegnando un paio di round in meno a Minter. Io ero un italiano in America, mi annunciavano dicendo “from Bari Italy”, perché non portarono un giudice italiano? Se vedi l’incontro eravamo piuttosto in parità. I giudici inglesi invece assegnarono 13 round a Minter, 1 round pari e 1 a me. Mi diedero un solo round su 15 riprese. Mi fregarono il titolo.


Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe


Minter era uno dei pugili più odiati in Italia in quegli anni, anche a causa della morte di Jacopucci.
Sì purtroppo Jacopucci morì in seguito all’incontro con Minter nel 1978 ma prima di quel match fece un paio di incontri duri in cui vinse ma prese molti colpi. Gli sconsigliarono di combattere e Minter lo mise KO. Dopo l’incontro andò a mangiare ma non si sentiva bene, lo portarono in albergo e poco dopo morì. Spesso quando accadono queste tragedie, la causa della morte è da ricercare nei combattimenti precedenti. Dopo quell’incontro iniziarono a fare controlli approfonditi al cervello, prima ai pugili venivano fatti solo i raggi.
Io nel 1978 feci un combattimento con un certo Willie Classen, un peso medio del Porto Rico che sembrava un medio massimo. I nostri manager erano amici e in palestra lo battevo sempre. Iniziarono a scrivere sui giornali che avevo paura di affrontarlo; non mi piaceva quella storia e decisi di combattere. L’incontro fu in un Madison Square Garden pieno fino all’ultima fila; c’era anche Benítez quella sera. Vinsi quell’incontro con molto vantaggio e, nonostante Classen fosse imbattuto, quella sera le prese. C’erano i portoricani ma anche gli italiani e quelli che avevano scommesso per lui fecero un casino, tirarono sedie e bottiglie. Due settimane dopo fece un altro incontro e andò KO per tre volte; dopo l’incontro con Wilford Scypion (novembre 1979 ndr), che lo mise nuovamente KO, Classen morì in ospedale. Penso che tutto sia iniziato con me. Così a volte muoiono i pugili.

Perché hai deciso di fare subito la rivincita con Minter?
Non lo decisi io ma il mio manager, non so perché. Mi portarono in Inghilterra ma non ero pronto. Avevo fatto 15 riprese con Corro, poi 15 riprese con Hagler e di nuovo 15 round con Minter, mi avevano distrutto. Dopo circa tre mesi (28 giugno 1980 ndr) facemmo l’incontro ma ero già “squagliato'”. Non dovevo accettare, era troppo presto e mentalmente non ero preparato. Prima di partire per l’Inghilterra mi fecero fare sparring con un pugile barese, veniva da Giovinazzo. Mi tagliò sul sopracciglio due giorni prima del match ma il mio manager mi fece combattere ugualmente. Quando arrivai a Londra tutti i giornalisti videro che avevo un taglio. Io non dissi niente ma Minter lo sapeva già e quando mi colpì con il destro alla prima ripresa usciva sangue dappertutto. Il match finì all’ottava ripresa.

Nel giugno del 1981 hai incontrato di nuovo Hagler che nel frattempo aveva conquistato il titolo proprio contro Minter.
Sì il secondo incontro lo facemmo a Boston, da dove veniva Hagler, ma il mio manager e il mio allenatore decisero di fermare il match alla 5 ripresa. In quell’incontro Hagler mi ruppe l’arcata con una testata. Quando ti tagli i medici usano delle medicine che fermano il sangue. Nel primo incontro, i manager di Hagler erano così sicuri di vincere che mi fecero usare le mie medicine, lui avrebbe fatto lo stesso; avevo 70 punti sulle sopracciglia ma non c’era sangue. Nel secondo incontro invece mi dissero che avrei potuto usare solo il 5% delle medicine. Alla seconda ripresa battemmo la testa, dopo che avevo già un taglio, e alla terza ripresa lo fece di nuovo venendo sotto con la testa bassa. Sospesero l’incontro.

Quante volte ti hanno ricucito le sopracciglia?
Mi tagliavo sempre. Dopo il secondo incontro con Hagler nel 1981, ritornai a combattere come medio junior dopo tre anni. Trovai un dottore che mi disse che mi tagliavo sempre perché avevo le ossa della fronte sporgenti, feci un’operazione in cui me le limarono. Due mesi dopo l’intervento ero di nuovo sul ring, non gli diedi abbastanza tempo per guarire e mi tagliai di nuovo, però vinsi l’incontro. Negli incontri successivi non mi tagliai più. Molti mi sconsigliarono e il mio manager mi lasciò quando decisi di tornare a combattere. Quando ritorni non è mai la stessa cosa e all’epoca non volevo capire. Molti amici mi dicevano che andavo meglio di prima e mi incoraggiavano ad andare avanti. Nel 1985 a Montreal feci un combattimento con il canadese Matthew Hilton. Prima del match conobbi un dentista che mi convinse ad usare un paradenti che aveva brevettato e che mi avrebbe dato più potenza. Questo paradenti era diviso tra sopra e sotto ed era ottimo con la bocca chiusa. All’epoca però avevo il setto nasale deviato e dopo 3 o 4 round iniziavo a respirare con la bocca. Stavo vincendo le prime riprese con Hilton ma poi iniziai a respirare con la bocca e mi arrivarono due uppercut. Il primo mi fece saltare il paradenti, il secondo i denti. Due denti li trovarono nel suo guantone e fermarono l’incontro alla quarta ripresa, quello fu il mio ultimo match.

Oggi i pugili diventano famosi con molti meno incontri rispetto alla tua generazione. Il pugilato è ancora un modo per farsi strada ed emergere?
Credo di sì. Adesso sono quasi tutti sudamericani o dell’Europa dell’Est perché hanno la stessa fame che avevamo noi. Ho sentito storie incredibili di pugili degli anni ’50, loro avevano più fame di noi degli anni ’70. Sono un amico di Jake (LaMotta ndr), ho visto il film di Scorsese e ho letto il suo libro, era davvero un toro scatenato. Ce n’erano anche altri come lui, negli anni ’70 la situazione era già cambiata. Non ci sono più i pugili di una volta, o meglio, sono molto rari. Ad esempio quando vedevi Tyson combattere ti rendevi conto subito che era un leone che veniva dalla foresta.

Hai sempre frequentato la comunità italiana a New York?
Sì quasi sempre. Quando combattevo venivano tutti gli italoamericani. C’era anche un giornale italo-americano, “Il Progresso”, che scriveva spesso di me.

Ti piace quando ti chiamano Paisà?
Sì perché vogliono essere tutti miei paesani, anche i siciliani. Mi chiamano tutti paesano o campione.

Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe


Hai mai incontrato John Gotti?
Abitavamo a pochi blocchi di distanza ma non ci incontravamo mai. Ti racconto questo episodio accaduto due o tre anni prima della sua morte (2002 ndr). Ogni anno organizzano una festa per la boxe al club Ring Eight dove si ritrovano tutte le persone che hanno fatto parte del mondo del pugilato. Ero al bancone con altri ex pugili quando arriva Gotti con il suo seguito, era famoso e tutti si alzano a salutarlo. Lui mi vede e grida il mio nome, gli vado incontro e lui mi abbraccia calorosamente mentre ci fanno delle foto. Il giorno dopo un giornalista del Post mi chiama perché voleva farmi un’intervista. Ci incontriamo in un ristorante a Manhattan, a Little Italy, e inizia a farmi domande sulla mia carriera. Poi mi dice che molti pugili frequentano i mafiosi e mi domanda se ne conosco qualcuno. Conoscevo molta gente ma non ho mai fatto affari con loro. Mi chiede se conosco Gotti. Non mi andava di rispondere e gli dico che abitavamo vicino e lui mi informa che il giorno dopo sarebbe stata pubblicata una foto di noi due. Il giorno dopo sul Post, in terza pagina, c’era questa foto a mezza pagina con me e Gotti.

Quando hai smesso di boxare di cosa ti sei occupato?

Non sono diventato ricco con la boxe. Quando smisi definitivamente iniziai a gestire con mio fratello, che conosceva il settore, un ristorante-pizzeria nel Queens. Il secondo anno l’attività cominciò ad andare male, non era una buona zona, persi dei soldi e fui costretto a vendere. Lavorai per qualche anno come distributore della Coca Cola, per la quale facevo la pubblicità quando ancora combattevo, nel quartiere italoamericano di Bay Ridge. Successivamente iniziai a lavorare al porto, dove sono stato impiegato fino a pochi mesi fa. Ora sono in pensione.

Risultato immagini per Vito Antuofermo, il combattente della working class italo-americana racconta la sua boxe

Hai avuto anche una parentesi nel cinema.
Sì ho fatto un paio di film, Il padrino III (1990), La bomba (1999) con Gassmann e un paio di pubblicità. Un giorno mi chiamarono degli italiani per chiedermi se volevo andare a fare un provino ma non mi spiegarono di cosa si trattasse; io pensavo fosse qualche manager che voleva che tornassi a combattere. Quando arrivai all’appuntamento a Manhattan ero un po’ contrariato perché non sapevo che fosse il casting per Il Padrino III. Circa due mesi dopo, alla vigilia di Natale, mi chiamarono per dirmi che avevo la parte (guardia del corpo di Joey Zasa ndr) ma io non sapevo ancora nulla, poi mi spiegarono tutto. Andai in Italia perché tutti gli interni li girammo a Cinecittà. Rimasi a Roma tre mesi e conobbi Pacino, Garcia, la figlia di Coppola e gli altri. Legai con Pacino anche perché ero amico di James Caan, che all’epoca veniva ad allenarsi nella mia stessa palestra, e lui gli aveva parlato spesso di me. Andammo a cena insieme un paio di volte e Pacino mi venne a prendere; lui era la star e aveva a disposizione una limousine, io invece ero in un albergo lontano da Cinecittà. Dopo tanti anni mi piacerebbe tornare in Italia, magari quest’estate.























giovedì 5 marzo 2020

Arhat

Risultati immagini per Arhat


Nel Buddhismo Theravāda e nel Buddhismo dei Nikāya, gli arhat — sanscrito arhat (अरिहन्त), "degno di venerazione"; pāli arahant;Vietnamita La Hán; cinese 阿羅漢, āluóhàn o 阿羅漢, luóhàn; coreano 아라한, 阿羅漢, arahan o 나한, 羅漢, nahan; giapponese arakan (阿羅漢) o rakan (羅漢); tibetano dgra.bcom.pa — secondo il Buddhismo Mahayana gli Arhat praticano solo per loro stessi, per raggiungere il Nirvana il prima possibile, al contrario invece dei Bodhisattva'.
Un arhat ha quindi percorso lo stesso cammino di un Buddha raggiungendo il nibbāṇa (pāli, nirvāṇa sans.), ma non attraverso una dottrina e una disciplina sviluppati autonomamente, bensì grazie all'insegnamento di un Buddha, vivente o passato. Prima del Sutra del Loto, gli "arhat" non potevano ottenere l'illuminazione perché avevano bruciato i semi della buddità; solo nel IV capitolo del Sutra del Loto, con la parabola del figlio del ricco, tutta l'assemblea degli Arhat o "ascoltatori della voce" manifesta il proprio ringraziamento al Buddha per la predizione dell'illuminazione e rammarico per essersi accontentati di uno stato inferiore, essendo convinti di poter meritare solo quello.
Nelle altre scuole di buddhismo, e in particolare nel buddhismo Mahāyāna, gli arhat sono dei Buddha a tutti gli effetti, detti śrāvakabuddha, ma comunque inferiori a coloro che, pur potendo ormai conseguire tale stato, prendono il voto di continuare a rinascere innumerevoli volte come bodhisattva fintanto che resteranno al mondo esseri senzienti non illuminati, e sono detti Bodhisattvabuddha o Samyaksambuddha.



mercoledì 4 marzo 2020

Suburitō

Risultato immagini per Suburitō



Un suburitō (素振り刀) è un tipo di bokken, una spada da allenamento in legno originaria del Giappone.

Descrizione e utilizzo
Il suburitō ha una lama molto più spessa rispetto all'impugnatura, il che rende il suburitō molto più pesante di un normale bokken. I suburitō sono usati per praticare il suburi (esercizi di taglio con la spada) e kata (forme codificate). Il peso del suburitō è usato per rafforzare la muscolatura, oltre a sviluppare lo spirito. Il suburitō viene utilizzato anche per perfezionare la tecnica individuale.
Un suburitō è lungo circa 3-4 shaku (90-120cm), con una massa di circa 2 kin (1,2 kg). Tuttavia, questi bokutō possono variare ampiamente in dimensioni e peso. Un suburitō generalmente non include una guardia.
La leggenda narra che Miyamoto Musashi scolpì un bokken che assomigliava a un suburitō da un remo di una barca mentre viaggiava verso il suo famoso duello con Sasaki Kojiro, che presumibilmente fu ucciso.


martedì 3 marzo 2020

Ānanda (monaco)

Risultato immagini per Ānanda (monaco)



Ānanda — sanscrito आनन्द "beatitudine"; cinese Anando (阿難陀, 阿难陀, Ānánduò) spesso abbreviato Anan (阿難, 阿难); tibetano kun-dgà-bo (ཀུན་དགའ་བོ་) (India, ... – India, ...) è stato un monaco buddhista indiano.
Fu cugino e uno dei principali discepoli del Buddha storico Siddhartha Gautama, ed è oggi venerato come Custode del Dharma. Nel Buddhismo Tiāntái (che segue lignaggio riportato nel Fu fazang yinyuan zhuan, 付法藏因緣傳), come nel Buddhismo Chán (che segue il lignaggio riportato nel Baolin zhuan, 寳林傳), Ānanda è considerato il secondo patriarca indiano, dopo Mahākāśyapa, e i due sono spesso ritratti accanto al Buddha Shakyamuni.

Infanzia
Secondo la tradizione delle scuole del Buddhismo dei Nikāya, Ānanda nacque nel clan degli Śakya, e poiché la sua famiglia ripeteva che fosse "nato per portare felicità" (ānanda), gli fu dato questo nome. Nelle sue prime biografie è ricordato come uno dei "grandi discepoli" (mahasravaka) del Buddha Shakyamuni.
Secondo la tradizione Mahāyāna e quelle da questa derivate, prima della sua nascita storica Ānanda risiedeva nel paradiso Tuṣita insieme alla precedente incarnazione di Siddhartha Gautama, e i due sarebbero nati tra gli Śākya nello stesso giorno. Era figlio di Mrgī e Amitodana, che era fratello di Śuddhodana e quindi zio del Gautama; i suoi fratelli si chiamavano Mahānāma e Anuruddha. Secondo un'altra tradizione invece il padre era Suklodana e i fratelli Devadatta e Upadhāna.
Divenne monaco nel secondo anno di predicazione del Buddha, insieme a molti altri giovani del clan Śākya, e ricevette l'ordinazione dal Gautama stesso; gli fu assegnato come upajjhāya (guida alla via monastica) Belatthasīsa, e nel tempo ascese al grado di sotāpanna.

Attendente del Buddha
Dopo aver avuto per 20 anni come assistenti vari monaci a turno, Gautama dichiarò davanti all'assemblea di aver deciso di avere un attendente permanente (upatthaka). Molti si offrirono candidati, tra cui Shariputra e Mogallana, mentre Ānanda rimase in silenzio, seduto in disparte. Allora si rivolse ad Ānanda chiedendogli perché non si fosse candidato. Ānanda rispose che era interessato, ma solo a otto condizioni che potevano essere riassunti in tre grandi punti: suo cugino non doveva mai fargli doni o concedergli particolari benefici che potessero far credere che avesse ottenuto il posto per quella ragione; doveva concedergli invece piena discrezione nell'accettare inviti al suo posto e nel presentargli visitatori venuti da lontano; e doveva rispondere a tutte le sue domande e ripetergli tutti gli insegnamenti che aveva prodigato in sua assenza. Gautama accettò.
Ānanda prese il suo incarico molto a cuore e fu molto attento ai cambiamenti di tono o d'aspetto del suo maestro, addirittura ammalandosi insieme a lui per empatia. In un'occasione si pose davanti a lui per salvarlo da un elefante infuriato lanciato contro di lui da suo cugino Devadatta, rischiando la vita.
I monaci e i laici si confidavano con lui e venivano spesso a chiedergli consigli, o chiarimenti sui discorsi del Buddha; Ānanda era in grado anche di ripetere o proseguire il sermone, e talvolta ne teneva di propri, approvato e incoraggiato in questo dal Gautama. Buddhaghosa compilò una lista dei discorsi a lui attribuiti: Sekha, Bāhitiya, Anañjasappāya, Gopaka-Moggallāna, Bahudhātuka, Cūlasuññata, Mahāsuññata, Acchariyabbhuta, Bhaddekaratta, Mahānidā-na, Mahāparinibbāna, Subha e Cūlaniyalokadhātu, oltre a molti dialoghi con altro monaci.
In molti dei dialoghi tramandati nei sutra, Ānanda ha il ruolo dell'interlocutore del Gautama. Nell'Anguttara, che elenca i nomi di tutti i discepoli del Buddha e le loro qualità, Ānanda è nominato più di ogni altro, cinque volte; di lui si dice che eccellesse nella condotta, nell'essere di servizio agli altri e nell'esercizio della memoria.

Dopo la morte del Buddha
Dopo la morte del suo maestro nel primo Concilio Buddhista gli anziani del sangha gli diedero l'incarico di raccogliere e recitare tutti i discorsi del Buddha in quello che divenne noto come il Sutta Piṭaka, una delle tre sezioni del Canone pāli; oltre che per la grande fiducia ricevuta dal Gautama in vita, ciò si deve anche al fatto che essendo stato per tanto tempo al seguito del Buddha aveva memorizzato tutti i suoi discorsi.
La partecipazione di Ānanda al Concilio, tuttavia, non fu affatto scontata; nonostante la sua grande prossimità al Buddha, infatti, Ānanda non era un arhat, ma un semplice discepolo. Nel Canone Pali, infatti, Ānanda è presentato come un Buddhista imperfetto ed in balia delle emozioni; pianse infatti sia la morte di Śāriputra che del Gautama, e in un passaggio del Theragatha si descrive la sua solitudine dopo il trapasso del suo maestro (festeggiato come il suo parinirvāṇa dai buddhisti). L'essere schiavo delle emozioni è un grave impedimento al raggiungimento dell'illuminazione, e la partecipazione di Ānanda al Concilio fu oggetto di discussione nella comunità; secondo la leggenda, Ānanda concentrò i suoi sforzi e fu in grado di raggiungere il Nirvāṇa prima del Concilio.


lunedì 2 marzo 2020

Glíma

Risultato immagini per Glíma



La Glíma è lo stile tradizionale nazionale di lotta in Islanda. La più antica competizione islandese di glima è la Skjaldarglíma Ármann che si tenne nel 1888 e che fu disputata quasi ogni anno da lì in poi. Nel 1905 venne introdotto l'uso della cintura di modo che i lottatori possano avere una maggior presa sull'avversario. Nel 1906 avvenne la prima competizione di Íslandsglíman (Grettisbeltið) i cui vincitori sono chiamati Glímukóngur. Nelle Olimpiadi del 1912 la glima fu sport dimostrativo.
Dal 1987 si insegna la glìma anche nella scuola primaria islandese.
L'International Glima Association (IGA) è l'organizzazione mondiale che gestisce tutti i gruppi e le federazioni della Glima. L'attuale presidente è l'islandese Orri Bjornsson.
La glima si differenzia dagli altri stili di lotta per quattro punti principali:
  • I partecipanti devono sempre rimanere eretti;
  • I partecipanti girano in senso orario attorno a loro (in maniera simile a un waltzer), in modo da creare opportunità di attacco/difesa ed evitare uno stallo;
  • Non è consentito cadere sull'avversario o spingerlo giù con la forza, non essendo considerato sportivo;
  • Si suppone che i lottatori si guardino le spalle poiché è considerato maggiormente legittimo lottare sfruttando tatto e sensibilità piuttosto che la vista.
Il cuore del sistema sono otto principali brögð (tecniche), che formano l'allenamento base per approssimativamente 50 modi di eseguire una proiezione.
Attorno alla glima vi è un codice d'onore chiamato drengskapur che invoca lealtà, rispetto e preoccupazione per la sicurezza per i propri compagni d'allenamento.
Il termine "glima" è la parola in lingua islandese per indicare la lotta generale, nell'accezione più larga di "sforzo" o "scontro".

domenica 1 marzo 2020

Flissach

Risultato immagini per Flissach

Il Flissach, anche Flyssa, è un'arma bianca manesca del tipo spada originaria del Maghreb, tipica del popolo Cabili. Ha lama diritta, monofilare, con punta molto pronunciata, a volte ricurva. L'elsa è interamente in metallo, quasi sempre incisa od intarsiata con ottone, priva di guardia e con pomolo molto pronunciato come nello yatagan degli ottomani.

Costruzione
Il flissach è una sorta di ibrido tra il costoliere occidentale e lo yatagan dei turchi ottomani:
  • come nel costoliere, la lama è diritta, monofilare, con punta molto pronunciata, a volte ricurva;
  • l'elsa è priva di guardia e con pomolo molto pronunciato, atto a meglio bloccare la mano dell'utente nel vibrare il pesante fendente. Caratteristica peculiare dell'arma è l'avere elsa interamente in metallo, quasi sempre incisa od intarsiata con ottone.