giovedì 2 gennaio 2014

I SUPERSOLDATI e l'uso bellico delle sostanze psicoattive





Fin dall’antichità gli uomini hanno impiegato gran parte del loro tempo e delle loro risorse intellettuali per escogitare mezzi con i quali sopraffare gli avversari.
L’importanza che nel corso della storia tutti gli eserciti hanno attribuito ai fattori psicologici nel determinare il successo o la sconfitta in guerra rende assai interessante lo studio dei mezzi mediante i quali gli eserciti hanno cercato di porsi nella migliore condizione possibile per vincere.
L’uso di droghe in guerra può essere ricondotto a due intenti fondamentali:


1) Permettere alle proprie truppe di commettere atti non accettabili dalle consuete regole morali, vincere la fatica e consentire un miglioramento della performance del combattente (qui c’è una profonda analogia con il doping degli sportivi).
2) Ridurre l’efficienza del nemico mediante l’uso di sostanze in grado di provocare alterazioni dello stato di coscienza tali da menomare la capacità combattiva; ottenere informazioni durante gli interrogatori di prigionieri, mediante l’uso di cosiddetti “sieri della verità”.


Questo uso delle droghe è diffuso non solo negli ambienti militari. Nel 1993, un quotidiano di Lima, riportava la notizia che nella selva peruviana alcune bande di narcotrafficanti addestravano i loro membri iniziandoli all’uso delle piante allucinogene in modo da renderli incuranti negli scontri con la polizia o con le bande rivali.
Tutto ciò non è un caso. Nel continente latino americano, l’utilizzo degli allucinogeni e delle sostanze psicomimetiche, che resta pur sempre un fenomeno parziale nel generale contesto dello sciamanesimo, è sempre avvenuto in un ambito guerriero.


Nell’età antica
Il coraggio in battaglia e la coesione dei reparti di fronte all’avanzata del nemico sono sempre stati un elemento fondamentale per il buon esito di uno scontro. Il morale delle truppe ha sempre costituito una variante essenziale e imprevedibile e ha fatto fiorire una vera e propria agiografia dell’eroismo individuale o di particolari reparti. La storia delle guerre è costellata non soltanto di vittorie ottenute in condizioni d’inferiorità, rese possibili da una non comune volontà di vincere, ma anche di disfatte provocate dall’improvviso cedimento della tenuta delle truppe di fronte al nemico.
Due soli esempi bastano per tutti.


I trecento opliti, guidati dal re spartano Leonida, che nel 480 a.C. resistettero fino all’ultimo uomo alle Termopili combattendo contro l’esercito persiano, sono una testimonianza classica in merito all’importanza del coraggio individuale e della coesione di gruppo dei soldati. Per contro la sconfitta avvenuta a Canne nel 216 a.C. di 110.000 soldati romani guidati dai consoli Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, sbaragliati da poco più di 50.000 Cartaginesi comandati da Annibale, dimostra come il panico sia un’emozione rovinosa anche per un combattente tecnicamente preparato e in condizioni di superiorità numerica.
Quando nelle antiche civiltà cominciarono a formarsi le classi sociali, si creò una casta di guerrieri professionisti della guerra, addestrati sia dal punto di vista fisico che quello psicologico.
Se l’addestramento rappresenta indubbiamente la via più sicura per ottenere il successo in battaglia, esso ha tuttavia dei limiti molto gravi sia in termini di costi sia di tempi di attuazione. La formazione di un buon soldato richiede, infatti, molti soldi e uno spazio di tempo sufficiente, non sempre disponibile.
Nel corso della storia sono stati adottati molteplici metodi per la preparazione di combattenti d’élite, mediante sofisticati addestramenti, discipline marziali esoteriche e metodi scientifici assai rigorosi.
Data l’estrema importanza dei fattori psicologici individuali nel combattimento, in ogni epoca molti uomini alle armi hanno deciso di queste variabili utilizzando, come scorciatoia, sostanze psicotrope al fine di aumentare la propria capacità combattiva.
Le prime notizie in merito risalgono all’antichità classica
Presso gli antichi la guerra e i combattimenti avevano frequentemente una connotazione sacra: si svolgevano prevalentemente per necessità concrete di sopravvivenza dei gruppi contrapposti. Manca ancora quell’idealizzazione della guerra che emergerà nei secoli successivi.
Tutti gli individui validi di sesso maschile della comunità, partecipavano al combattimento; l’ingresso di un giovane nel mondo degli adulti è segnato da un rito d’iniziazione che prevede anche la consegna delle armi e il valore in guerra è considerato una sorte di patente di virilità all’interno della comunità di appartenenza. È comprensibile come i guerrieri fossero motivati a dare il meglio di sé per salvare il proprio gruppo e accrescere il proprio valore.
Gli opliti greci prima delle battaglie in cui si trovavano a combattere corpo a corpo con gli avversari, ricorrevano spesso al vino per controllare la paura della morte. Certo, l’immagine dei soldati che si lanciano all’assalto contro il nemico sotto gli effetti dell’alcool sembra inconciliabile con l’ordine e la disciplina che di solito si attribuisce a questo tipo di soldati, ma sembra che quest’uso fosse molto diffuso.
Già dai tempi di Omero era nozione comune che l’alcool potesse essere usato come analgesico contro il dolore delle ferite. E' probabile che molti opliti ne assumessero prima della battaglia per rendersi meno sensibili al dolore. Di certo il vino era largamente presente nella vita militare e faceva parte della normale dotazione degli opliti quando erano in marcia, tranne particolare occasioni.
Spesso le battaglie erano precedute da particolari danze rituali che per il grande potere di stordimento della coscienza erano in grado di produrre una sorta di stato di estasi e quindi di comunione mistica con la divinità.
Le antiche cronache riferiscono che Alessandro Magno prima d’intraprendere la conquista della Persia danzò la pirrica a Faselide, intorno alla tomba di Teodette.
In Medio Oriente, nell’XI secolo dopo Cristo, presso la setta sciita ismailita fondata dal persiano Hasan-i Sabah sarebbe stato diffuso, secondo la leggenda, l’uso dell’hashish (termine arabo che indica le erbe medicinali essiccate, non specificamente la Cannabis) per infondere il coraggio agli adepti incaricati di pericolose missioni. Per questo motivo gli appartenenti a questa setta, le cui azioni particolarmente efferate, secondo le leggende contemplavano spesso l’assassinio degli avversari politici, prese il nome di Hashishin, da cui derivò il moderno termine di assassini.
La setta maomettana dei Dervisci praticava invece un insieme di rituali e di tecniche diverse (detti dhikr) per ottenere un ideale annullamento dell’individuo in Dio e raggiungere uno stato di estasi che li rendeva particolarmente coraggiosi in battaglia. Sono ancor oggi i famosi balli da loro praticati, consistenti in rotazioni su se stessi ripetute fino quasi alla perdita dei sensi.


Le arti marziali orientali
Le origini di queste discipline sono molto remote. La consuetudine di yogi dediti all’addestramento marziale si perde nella più antica tradizione della religione induista. Durante la dominazione britannica queste pratiche furono represse, anche se tuttora nel Kerala sopravvivono delle forme di lotta tradizionale, praticate nel corso di riti religiosi. Questa tradizione è tuttora ben salda in Cina, in Giappone e in Vietnam, dove arrivarono con la diffusione del buddismo.
Il pugilato cinese consiste in un sistema di tecniche sovrapposte a una forma di lotta ancora in un sistema più antica, detta wu gong. Le tecniche fisiche si fondono con l’ideologia perfettamente cinese di continuo flusso, tra atteggiamenti “aperti” e “chiusi”, rigidi e rilassati e movimenti lenti o rapidissimi. Tipico e il kung fu wushu in cui lo stimolo e caratterizzato dal controllo della mente sul respiro e sui movimenti. La concentrazione, l’allenamento e il controllo della respirazione portano alla capacità di utilizzare la forza in modo esplosivo. Le prove di rottura di mattoni e tavolette di legno sono l’esempio più conosciuto di queste tecniche. I vari stili di kung fu dal punto di vista formale imitano i movimenti degli animali: l’oca selvatica, il drago, la tigre, il leopardo, il serpente e la gru.
L’energia viene presa tramite la respirazione dall’aria (e qui riecheggia il “prana” degli yogi indiani), attraverso i piedi dalla terra e viene concentrata nello stomaco in un punto tre dita sotto l’ombelico, “hara”, contemporaneamente baricentro e centro energetico del corpo. Poi, attraverso le linee energetiche, utilizzate anche nell’agopuntura, fluisce verso gli arti e viene emessa in forma esplosiva tramite colpi velocissimi e assolutamente precisi. Contemporaneamente vi è l’emissione del respiro e l’urlo, “kiai”.
Queste tecniche di rottura furono perfezionate nell’isola di Okinawa durante il periodo dell’occupazione giapponese, quando gli isolani legati alla Cina furono sottoposti al divieto di portare armi. Per reazione si sviluppò il karatè, tecnica di combattimento a mani nude e il kobudo, che si avvale dell’uso molto virtuoso di armi, ricavate da attrezzi agricoli comuni in quelle zone: dal nunchaku (due corti bastoni uniti da una catena, in origine usati per la pulizia del riso), al kama (un falcetto), al kusari (una catena di una sessantina di centimetri con due pesi all’estremità).
Le arti marziali, fanno parte della tradizione dell’India e dell’Estremo Oriente e nei giorni nostri si manifesta come attività sportiva, come forma di meditazione all’interno del buddismo zen, ma sono utilizzate anche nell’addestramento di reparti speciali d’élite. Oltre all’esercito coreano in cui è usato il tae kwon do e il vietnamita che impiega il viet vo dao, anche gli eserciti degli imperialisti occidentali hanno riscoperto queste antiche tradizioni. Pionieri in questo senso furono i capitani Fairbairn e Sykes che negli anni ’30 erano in servizio nella polizia di Shanghai. Essi codificarono le tecniche di combattimento corpo a corpo dei commandos inglesi, voluti da Churchill agli inizi del secondo conflitto mondiale. I nomi di Fairbairn e Sykes sono poi legati ancora allo speciale pugnale da loro creato, che era destinato in particolare per il combattimento ravvicinato e all’eliminazione delle sentinelle.
Analoghe procedure di addestramento furono utilizzate per la formazione dei primi reparti di paracadutisti e ranger americani. L’evolversi della strategia militare nel dopoguerra con i molti conflitti locali e con lo sviluppo dei movimenti rivoluzionari nel Tricontinente (spacciati come movimenti terroristi) e nelle stesse metropoli imperialiste, portò il proliferare in tutti gli eserciti di reparti speciali, e dopo l’azione di Settembre a Monaco nel 1972, all’istituzione di reparti speciali presso tutte le forze di polizia. Nel programma di addestramento è dato largo spazio all’insegnamento delle arti marziali, sia nelle loro forme tradizionali, come la savate nella Legione Straniera, sia in forme moderne che mettono insieme elementi presi dalle varie scuole e li combinano con l’utilizzo di armi da fuoco dell’ultima generazione. Ad esempio gli spetstnaz i corpi speciali russi dedicano molto tempo al sambot. L’addestramento prevede scontri molto violenti e realistici in cui sono utilizzati, come armi, gli stessi stivali da paracadutista e il fucile d’assalto regolamentare AK 47 con la baionetta innestata. Sono anche praticate tecniche volte allo sviluppo delle capacità individuali come la rottura a mani nude di mattoni infuocati. Il krav maga, “combattimento con contatto” in ebraico, esso è il combattimento corpo a corpo praticato dall’esercito e dalle forze di polizia israeliane. Si tratta di tecniche di difesa da qualsiasi tipo di aggressione con pugni, calci, strangolamenti e uso di armi varie. L’allievo viene abituato a usare le varie tecniche anche in situazioni del tutto particolari, come nell’oscurità, da seduto o coricato e in spazi ristretti come i mezzi di trasporto.
C’è una continua osmosi con scambi d’informazioni a livello ufficioso tra molti corpi speciali di molte nazioni diverse; ad esempio il GIGN, gruppo d’intervento della Gendarmeria francese, utilizza il krav maga. Viceversa i Seal della marina americana hanno per tradizione rapporti molto stretti con i marines di Taiwan e della Corea del Sud. Anche i berretti verdi, forze speciali dell’esercito statunitense, hanno programmi di scambio con reparti analoghi di altre nazioni NATO e più volte hanno assunto dei maestri di arti marziali per i programmi di addestramento. Ad esempio negli anni ’80 venne svolto l’esperimento di addestramento all’Aikido tenuto da Richard Strozzi Heckler, a sua volta allievo del grande maestro Ueshiba, inventore dell’Aikido o via dell’armonia. L’Aikido è basato, in completo contrasto con una tradizionale strategia bellica, sulle virtù taoiste della non resistenza, dello sforzo senza sforzo e del continuo mutamento. Le tecniche si basano su movimenti impercettibili del corpo che permettono di scansare millimetricamente i colpi dell’avversario e di ritorcere su di lui la sua stessa forza e aggressività col fine ultimo di arrivare alla comprensione e alla comunione con l’avversario stesso. In questo programma dopo alcuni mesi di addestramento un gruppo di 25 berretti verdi, tutti sottufficiali o ufficiali, selezionati e di provato mestiere, riuscirono con un controllo scientifico dei risultati a elevare le proprie capacità nel tiro, nella resistenza in mare e nello stress prolungato.
Esiste un lato oscuro delle arti marziali che solo recentemente e in maniera molto distorta si è manifestato. È il ninjitsu che comprende tecniche di combattimento non convenzionale e assassinio politico, spionaggio, rituali magici e tradizioni religiose del buddismo zen. I ninja traggono le loro origini dal medioevo giapponese ma l’importanza della guerra non convenzionale era ben nota nell’antica Cina. L’arte della guerra di Sun Tzu, scritto al 500 d.C. è il primo grande classico di strategia militare in cui molta importanza è data al concetto che un esercito dovrebbe attaccare solo quando il nemico è stato indebolito all’interno. A questo fine erano consigliati lo spionaggio, la disinformazione, l’intrigo e la congiura. Nel tredicesimo capitolo Sun Tzu espone la sua teoria secondo la quale il saggio condottiero si distingue dagli uomini comuni per una superiore visione globale degli eventi che non deriva dalla divinazione o dagli spiriti ma da una rete di abili informatori.
Vengono distinti cinque tipi di agenti:
1) Gli In-kan. Sono gli informatori reclutati tra gli abitanti del territorio nemico.
2) I Nai-kan. Sono i funzionari del governo nemico che tradiscono, essi sono pagati per fornire informazioni.
3) Gli Yu-kan. Sono le spie nemiche scoperte che cambiano bandiera.
4) Gli Shi-kan. Sono gli agenti spendibili che vengono infiltrati tra il nemico con false informazioni e fatti scoprire.
5) Gli Sho-kan. Sono le spie classiche, usate per ricognizioni nel territorio nemico.
Le informazioni dovevano essere costantemente raccolte e contemporaneamente venivano disseminate false voci per demoralizzare il nemico. È interessante notare che l’ideogramma usato per indicare la spia è il carattere kan che significa anche “lo spazio tra due oggetti” e “discordia”.
Molti secoli prima di Macchiavelli la strategia di Sun Tzu è profondamente basata sull’inganno del nemico. Questa filosofia orientale è esattamente l’opposto del concetto europeo di guerra totale, dalla falange macedone alle trincee della prima guerra mondiale.
Secondo la tradizione le arti marziali nacquero in India. La più antica arte di combattimento di cui ancora si conservi memoria è, infatti, il Kalari Payat indiano, la disciplina di lotta a mani nude e con armi da taglio. Si dice che il suo fondatore fosse il monaco Bodhidarma che fece un viaggio verso la Cina dove fondò il monastero fortezza di Shao-Lin. A loro volta la tradizione delle arti marziali passò dalla Cina al Giappone attorno al 700 d.c. Il primo ninja sarebbe stato in principio Yamato, secondo quanto tramandato dal più antico testo scritto giapponese del 714 d.c., che contiene tra l’altro il racconto di un assassinio politico in pieno stile ninja. L’evoluzione delle scuole di arti marziali fu poi molto simile in Cina e in Giappone.
L’insegnamento avveniva all’interno di scuole in cui i segreti erano gelosamente conservati e trasmessi dai maestri agli allievi, all’interno di un rigido sistema gerarchico. Gli allievi iniziavano il loro apprendistato in giovanissima età e per lo più provenivano da famiglie di guerrieri. L’addestramento era continuo e durissimo, con una serie di barriere e di esami che costituivano degli importanti riti di passaggio, con un contemporaneo condizionamento fisico e mentale. Il fine di questi lunghi anni di pratica era il controllo fisico della mente, delle emozioni e del corpo. Ogni scuola si specializzava in alcune tecniche, ad esempio l’uso di armi da fuoco e di esplosivi, le tecniche di mimetismo, travestimento e infiltrazione, l’uso dell’ipnosi, di erbe medicinali e di veleni. È interessante questo sovrapporsi, su livelli diversi, di tecniche di combattimento, maneggio delle armi, pratiche di meditazione, tecniche di meditazione, tecniche di Yoga e alchimia. Il denominatore comune era la ricerca chiamata Chi in Cina e Ki in Giappone, con l’obiettivo antico della ricerca del proprio io attraverso le pratiche marziali e lo studio della tradizione mistica.
Sui ninja fiorirono diverse leggende, nelle quali insistevano in particolare sulla loro capacità di apparire e scomparire a loro piacimento. Questi effetti d’invisibilità venivano raggiunti in molti modi. Evidentemente sapevano che l’occhio umano è particolarmente sensibile al movimento, poi ai contorni di un oggetto e infine ai colori; dunque l’invisibilità può essere ottenuta restando immobili, alterando la propria sagoma o utilizzando abiti con colori scuri o mimetici che si armonizzano con il territorio circostante. L’arte del celarsi dava indicazioni molto precise, suddivise secondo nomi di animali. La tecnica della quaglia consisteva nello sfruttare i piccoli spazi che ci sono tra gli oggetti molto grandi, che distraggono con la loro massa imponente un osservatore. Il metodo del procione consisteva invece nell’uso di luoghi sopraelevati: tronchi, travi, tetti, partendo dal principio che raramente gli uomini sollevano lo sguardo durante la ricerca. Il sistema della volpe prevedeva l’uso dell’acqua anche per far perdere le tracce o per attirare il nemico in un elemento ostile. La scomparsa, per mezzo del fuoco prevedeva l’uso di granate abbaglianti, incendiarie e fumogene che oltretutto rendevano “magiche” le apparizioni e le scomparse dei ninja agli occhi degli osservatori ingenui. Accanto a questi metodi veniva anche impiegato il controllo della respirazione, efficace nel disciplinare le emozioni e il battito cardiaco degli operatori allenati.
Molta importanza veniva attribuita all’uso di droghe, veleni e medicinali. La medicina tradizionale cinese passò in Giappone attorno al settecento dopo Cristo, dove prese il nome di Kampo, con tutto il suo grande bagaglio di medicinali ricavati dalle erbe. I veleni erano ricavati dalle piante oppure dagli escrementi di animali, quali i serpenti di terra e di mare. Anche se possono apparire dei mezzi bellici arcaici, i veleni sono stati ad esempio utilizzati ampiamente, con grande efficacia, dai vietcong nella preparazione di trappole durante la guerra di liberazione del Vietnam. Anche in questo caso oltre all’effetto diretto sul nemico è importante l’effetto psicologico: per un americano che finiva sulle punte avvelenate ce n’erano centomila che si spaventavano a morte.
La figura dei ninja è stato spessa confusa con quella dei monaci Yamabushi, letteralmente “coloro che vivevano nelle montagne” seguaci di una religione con elementi di buddismo e dello shintoismo e componenti della magia Tantra. Questi monaci si sottopongo a lunghi pellegrinaggi in alta montagna, accompagnati da pratiche di digiuno e di deprivazione sensoriale per raggiungere poteri come la chiaroveggenza, la telepatia e la telecinesi. In questo ci sono forti somiglianze con i monaci guerrieri cinesi, tibetani, gli sciamani siberiani e sudamericani. Da un punto di vista pratico la figura del monaco errante era una copertura ideale per agenti dello spionaggio impegnati in operazioni d’infiltrazione e ricognizione.


L’età contemporanea
Le guerre del periodo medioevale in Europa erano condotte da mercenari, professionisti della guerra che raramente desideravano sterminare gli avversari, colleghi di mestiere. Combattere bene era più importante che uccidere il nemico e riscattare i prigionieri.
Con la rivoluzione francese si ebbe però una svolta decisiva nel modo di far la guerra.
Il periodo storico della rivoluzione francese è la parte culminante dell’ascesa e del predominio della borghesia come classe. Essa era già stata anticipata dalle guerre franco-spagnole per il predominio in Italia nel XVI secolo. Fu la Spagna, la quale possedeva un impero coloniale e che viveva dei proventi delle attività commerciali con cui sfruttava le terre e i popoli d’Africa, Asia e America, che pretese di dominare l’Europa alla stessa maniera. La potenza militare spagnola era certamente maggiore di quella francese, tuttavia la Francia costituiva già uno stato più omogeneo e più accentrato, dove la borghesia appoggiava apertamente la monarchia contro gli interessi della nobiltà. Senza contare che la Francia, nella sua lotta contro la Spagna, poté avere l’appoggio dei nobili tedeschi, che, ha loro volta contro l’impero spagnolo, volevano consolidare l’autonomia di certe regioni tedesche, utilizzando a tale scopo non solo l’alleanza con la Francia, ma anche le contemporanee guerre di religione.
Le guerre condotte contro la monarchia spagnola annunciavano il nuovo modo di produzione, in quanto erano caratterizzate da un postulato di fondo: la formazione di stati nazionali. Che era all’epoca un fatto rivoluzionario, poiché tendeva alla distruzione dei rapporti economici preborghesi e alla loro sostituzione con il mercato capitalistico.
È durante il periodo della rivoluzione francese che comincia a essere introdotta in molte nazioni la coscrizione obbligatoria. La maggior parte dei cittadini maschi validi si trovò a prestare il servizio militare senza avere una vocazione guerriera e tantomeno un interesse economico diretto.
Nacque così la guerra totale, che interessava tutto il popolo, mobilitato in nome di concetti come Nazione, Libertà e Rivoluzione. La nuova guerra di popolo iniziò a dettare le sue regole. La guerra non subiva più interruzioni stagionali e non riguardava più soltanto una ristretta cerchia di professionisti (come i mercenari) ma tutto il popolo si trovò per la prima volta a esserne coinvolto.
Sorse il problema di armare un numero ingentissimo di soldati. L’intera economia delle nazioni si organizzò per sostenere gli sforzi bellici. Furono istituiti i razionamenti dei cibi e la nazionalizzazione delle manifatture d’interesse bellico.
Anche le risorse intellettuali, di scienziati e tecnici, furono convogliate a contribuire allo sforzo bellico, nella costruzione di armi, fortificazioni e nuovi espedienti per ottenere un vantaggio sull’avversario. A questo punto sorse il problema di motivare e addestrare grandi masse di soldati.
E' in questo periodo che cominciano a svilupparsi dei codici di disciplina militare e a perfezionarsi le tecniche di addestramento dei combattenti.
Il perfezionamento delle armi da fuoco, che richiedevano un addestramento più semplice rispetto alle armi bianche, influenzò anche le tecniche di combattimento. Per alcuni secoli furono impiegate formazioni di soldati in ordine chiuso che si sparavano a breve distanza. Questo rendeva possibile la rimozione dei freni psicologici del combattente, poiché quello che doveva uccidere era un uomo sconosciuto. La distanza, seppure breve, era sufficiente per impedire alla vittima di suscitare compassione nell’aggressore e rimandare il corpo a corpo solo a una fase successiva: a questo punto subentrava la carica alla baionetta dove la compagine più motivata e solida psicologicamente travolgeva l’avversario.
Se fino ad allora le milizie mercenarie potevano cambiare bandiera vendendosi al miglior offerente, con la coscrizione di massa divenne evidente il fenomeno della diserzione, da parte di quanti costretti a combattere, desideravano salvarsi la vita fuggendo. Il problema era enorme; soltanto nella guerra civile americana, nel 1863, fra i confederati vi furono centomila disertori.
In quest’epoca di carneficine fra i fanti in formazioni a ranghi serrati, con l’andare del tempo per sostenere e dare coraggio al soldato in guerra si affiancano all’alcool nuove sostanze.
In Europa alla fine dell’Ottocento venne presa in considerazione la cocaina alla quale persino Sigmund Freud dedicò in quel periodo attenti studi.
L’uso di masticare le foglie di coca era diffuso da molti secoli fra gli abitanti delle regioni andine, per alleviare le fatiche del lavoro in montagna, ma la coca fu importata in Europa solo nel 1580. Nel 1860 fu scoperta la cocaina, e nel 1883 il medico tedesco Theodor Aschenbrandt sperimentò questa sostanza su alcuni militari in vista di un eventuale impiego in guerra, riscontrando che i soldati trattati mostravano una maggior energia e un’accresciuta capacità di resistere. Si trattò probabilmente del primo caso di doping. Queste rudimentali tecniche di doping cominciarono a essere usate in campo veterinario. Gli stessi stimolanti impiegati per ottenere prestazioni migliori dai cavalli erano a disposizione di alcuni reparti della cavalleria francese per essere utilizzati durante azioni di combattimento particolarmente impegnative.
Gli entusiasmi per la cocaina si raffreddarono però quando si scoprì che questa sostanza era in grado di creare una forte dipendenza nei soggetti che l’assumevano. Era di quegli anni che si scoprì la “malattia del soldato”, ossia la tossicodipendenza da morfina che colpì più di 45.000 persone al termine della guerra civile americana.
Nello stesso periodo, la paura, questo che era considerato il “sentimento dei deboli”, cominciava essere oggetto di attenzioni scientifiche. Amedeo Latour descrive su di sé gli effetti del bombardamento di Chatillon: “Durante i primi giorni io tremavo ad ogni colpo di cannone con forti e frequenti palpitazioni di cuore e tremore delle mani. La mia lingua era presa da una specie di insopportabile core, che certamente io ho provato spesso nell’occorrenza di vive emozioni, di cui ebbi, durante la vita, di cui ebbi, durante la vita, la mia parte. È uno strano fenomeno, che io non ho trovato in alcun luogo descritto. I muscoli della lingua sono presi da convulsioni, le quali fa sì che l’organo eseguisce movimenti irregolari a destra e sinistra, si fissa contro il palato, o si rovescia sul frenulo, mantenendosi in costante e dando luogo ad una spiacevolissima ed irritante sensazione, il parlare è impedito, è l’articolazione dolorosa, così che è impossibile di leggere ad alta voce, e il conversare è cosa molto difficile. Questi movimenti linguali sono interamente indipendenti dalla volontà, che non può arrestarli né modificarli per qualunque sforzo essa faccia. Il sonno li sospende; ma ricomparirono tosto nello stato di veglia. Questo disordine durò la prima settimana, ma dopo questo tempo, come io divenni abituato al rumore, i muscoli linguali e cardiaci ripresero la loro azione normale”.
Tra la metà dell’800 e il primo decennio del ‘900 si formano imperi coloniali, i paesi imperialisti che erano impegnati nelle campagne coloniali, dovettero confrontarsi a volte in conflitti contro gruppi tribali che combattevano con strategie e armi meno raffinate, la tenacia e l’audacia di questi combattenti che difendevano la loro terra faceva ritenere ai militari colonialisti, che questi combattenti erano sotto l’effetto di sostanze psicoattive. Uno dei casi più famosi, è stato nel 1898 nelle Filippine è lo scontro che avvenne tra le truppe statunitensi e i Moros Juramentados, mussulmani che avevano già combattuto contro gli spagnoli. Numerosi soldati statunitensi furono uccisi sotto i colpi delle armi bianche di questi indigeni, che sembravano insensibili al dolore riuscivano a continuare i loro attacchi anche se feriti da numerosi colpi di revolver. Non riuscivano a capire (e non potevano capirlo per via del loro razzismo), i colonialisti la volontà di lotta dei popoli che non si vogliono sottomettere.


Brevi note sul sacrificio
Il sacrifico è considerato l’antibisogno per eccellenza (perché c’è rinuncia, privazione), è caratterizzato e si distingue per l’autorepressione dei bisogni dovuto a una scelta soggettiva di coscienza.
Il sacrificio è una forza molto potente della Storia: le stupide teorie clericali e borghesi sul “naturale” egoismo umano hanno sempre dimenticato, rimosso gli immensi sacrifici sopportati coscientemente, nel corso dello sviluppo del genere umano, da masse enormi per il soddisfacimento dei loro bisogni ed ideali: rivoluzioni, guerre di liberazione nazionale, guerre civili, le guerre giuste come quella condotta dall’URSS nella lotta mortale contro il nazifascismo. Altre forme di sacrificio si trova nel sacrificio quotidiano, grigio ma non per questo meno eroico dello schiavo cristiano che andavano incontro al martirio della croce inflittogli dai suoi padroni e dallo Stato Romano schiavista; nel sacrificio quotidiano del militante comunista durante il fascismo e il nazismo in Italia e in Germania. Le tendenze verso l’egoismo, l’autoconservazione propria e dei suoi discendenti, verso l’indifferenza si sono sempre scontrate in ogni uomo con la tendenza (che è reale) all’altruismo, al sacrificio per gli altri.
Di esempi concreti di sacrifici sofferti sono innumerevoli: pensiamo all’eroico comunista torinese Dante Di Nanni. Ferito in un azione dei GAP è circondato dai nazifascisti dove muore combattendo infliggendo pesanti perdite al nemico. Ma Dante era un ragazzo di 17 anni, che indubbiamente come tutti i ragazzi della sua età voleva vivere, ma che era costretto a lottare “ soprattutto perché, se oggi non facessimo nulla non ci sarebbe mai un domani da cui cominciare a cambiare veramente le cose”.
Voglio adesso esporre una tesi che potrebbe essere presa per assurda: che nella stragrande maggior parte degli esseri l’altruismo è più forte delle tendenze egoistiche. Che questo altruismo può a volte assumere forme corporative, ma sempre altruismo è. L’esperienza pratica offre miliardi di esempi: la priorità data ai figli, ai discendenti dalla grande maggioranza dei genitori. Se si trattasse di scegliere nei casi tra la propria vita e quella dei figli la maggioranza dei genitori (specie se madri, ma non solo) saprebbero cosa scegliere. L’imprenditore avarissimo ma che nella vita privata cede ad ogni pretesa dei rapitori del figlio/a.


La guerra industriale nei due conflitti mondiali
Il lungo periodo di Pace in Europa durante la Belle Époque, in realtà fu caratterizzato da una crescente e generalizzata preparazione alla guerra. Il capitalismo era entrato nella sua fase imperialista, che divise tutti i paesi imperialisti in due gruppi fondamentali: gli sfruttatori e gli sfruttati, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti, che formalmente erano indipendenti dal punto di vista politico, ma che in realtà sono assoggettati da un punto di vista finanziario e diplomatico. La tendenza dell’imperialismo è non solo quello dell’assoggettamento di territori agrari da parte dei paesi più industrializzati – questa era la caratteristica dell’epoca coloniale – ma anche all’assoggettamento di stati più deboli sul piano politico-militare e su quello economico-finanziario da parte degli stati più forti. Si tratta quindi di una lotta per l’egemonia mondiale, che si svolge su ogni piano e su scala mondiale.
Protagonista principale di tale lotta è lo Stato. Esso, nell’epoca imperialista, non è più soltanto depositario della forza della classe dominante, che all’occorrenza saprà usarla in maniera diretta, ma è diventato anche l’istituzione finanziaria più importante, attraverso i mille legami che ha con le centrali finanziarie private e attraverso il controllo sulla concentrazione bancaria.
Prima del 1914 l’eventualità di una guerra tra gli stati imperialisti non era presa sul serio. I teorici della borghesia sostenevano la concezione della cosiddetta “pace armata”, secondo la quale la nostra “civiltà” si sarebbe progressivamente estesa a tutto il pianeta, nella certezza che governati e governanti non si sarebbero ma fatti prendere dalla follia di una conflagrazione europea, dati i moderni mezzi di distruzione. Anche da parte socialista si finì per credere che le classi dominanti e i governi avrebbero evitato ad ogni costo lo scontro diretto.
La tesi principale dei revisionisti e degli opportunisti, circa i caratteri dell’epoca imperialista, è che la base economica e quella politica sarebbero separabili e che, dunque, l’imperialismo non sarebbe che una particolare tendenza politica, alla quale sarebbe opponibile, gli stessi rapporti economici, una politica pacifica di almeno alcune potenze imperialiste.
Questa tesi, non tiene conto che l’imperialismo non è uno specifico modo di produzione, ma il risultato inevitabile dello sviluppo delle categorie capitalistiche. Dunque tra base economica e politica imperialista c’è un nesso indicibile: lo sviluppo della concentrazione capitalistica ha come conseguenza la caduta tendenziale del saggio di profitto, da cui nasce la ricerca spasmodica di spazi economici in cui possibile realizzare tassi di profitto maggiori e, di conseguenza è ineliminabile la tendenza da parte dei maggiori stati imperialisti, alla continua spartizione e ripartizione del mondo in zone d’influenza.
La natura aggressiva dei rapporti tra gli stati è sempre stata una loro caratteristica fondamentale, che assurge a legge assoluta nel periodo dell’imperialismo.
Lo studio della legge della caduta del saggio di profitto di Marx ci aiuta a capire le dinamiche del Modo di Produzione Capitalista e della motivazione perché alla fine è destinato a cadere. Infatti, il saggio di profitto è espresso con la frazione p/c+v, dove al numeratore c’è la massa del plusvalore e al denominatore l’ammontare del capitale costante e del capitale variabile. Si tratta ormai non più di grandezze nazionali ma internazionali, poiché le relazioni economiche e commerciali internazionali, che già Marx indicava come controtendenza, hanno definitivamente trasformato il capitalismo in un unico mercato mondiale. Ebbene, se trasformiamo con una semplice operazione matematica, la suddetta frazione nell’altra (p/v fratto c/v + 1), scopriamo che il saggio medio del profitto è direttamente proporzionale al saggio di plusvalore e inversamente proporzionale alla composizione organica del capitale. Ecco così scoperta la tendenza fondamentale e le eventuali controtendenze possono solo ritardare e aggravare la crisi del capitalismo, ma non evitarla. Ciò che condanna il capitalismo è là la tendenza sempre più marcata alla crescita del capitale costante, all’impiego sempre più che proporzionale del lavoro morto rispetto al lavoro vivo. Tendenza ineliminabile perché ogni capitalista, ogni gruppo industriale, ogni centrale finanziaria, privata o pubblica sa che solo così potrà appropriarsi di una proporzione sempre maggiore di plusvalore prodotto socialmente attraverso il “miracolo” della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, prima, e di mercato poi. Ma alla fine la socialità della produzione non tollera alla fine l’appropriazione privata. Per quanto dolorose controtendenze che l’umanità deve sopportare per il mantenimento del Modo di Produzione Capitalistico, dalle più brutali tecniche di sfruttamento del lavoro vivo per far innalzare il numeratore di quella frazione (p/v), al più brutale sfruttamento dei popoli del Tricontinente e alla più brutale distruzione delle risorse energetiche della terra, per accaparrarsi materie prime a buon mercato e ottenere così una provvidenziale diminuzione di (c/v), intorno al secondo decennio di questo secolo, gli stati imperialisti hanno dovuto trovare di meglio: una guerra generalizzata tra gli stessi stati imperialisti, che, come e più delle altre controtendenze, funzioni in modo tale da diminuire drasticamente la composizione organica media. Come tutte le altre controtendenze, la guerra funziona come antitossina, che come ogni organismo malato produce, e pertanto sono tutte accompagnate da giustificazioni morali e ideologiche. Il ricorso alla guerra è giustificato facendo appello all’amor di patria, all’orgoglio nazionale, alla difesa dei “sacri” principi di libertà e del diritto internazionale. Dal 1914 il mondo è entrato nell’epoca della guerra imperialista e della rivoluzione proletaria. Si tratta di una lotta mondiale, che con l’Ottobre 1917 l’esito storico era stato anticipato. Le guerre imperialiste non rappresentano per niente una soluzione della crisi storica del capitalismo, bensì il suo aggravamento in ogni caso e, nella migliore delle ipotesi per il capitalismo, solo il suo rinvio.
In Italia a preparare questo clima di guerra contribuì il movimento futurista guidato da Filippo Tommaso Marinetti e il “vate guerriero” Gabriele D’Annunzio.
Nel 1909 Marinetti pubblicando il Manifesto del futurismo che enunciava il programma non solo artistico, ma anche politico del movimento, proclamava “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore”.
Quando poi scoppiò il conflitto oltre all’esaltazione futurista dell’atto eroico individuale e della “bella morte” di D’Annunzio troviamo degli esempi di propaganda e di guerra psicologica.
Episodi come il “volo di Vienna” e la “beffa di Bucari” ebbero grande risonanza a livello mondiale. La novità non consisteva nelle azioni eroiche presunte o reali ma nel confezionare un vero e proprio prodotto pubblicitario destinato alle masse. Tutto ciò fu utilizzato per ottenere il maggior eco possibile sugli organi di comunicazione.
Espressivo l’utilizzo dei mezzi più moderni, come l’aereo, il motoscafo veloce, ma anche il lancio di volantini per demoralizzare la popolazione del campo avverso direttamente nelle città.
Nell’età moderna, l’espansione dei sistemi di comunicazione contribuì a rendere ancora più totali le guerre. La popolazione, grazie alle notizie inviate in breve tempo da luoghi lontani tramite il telegrafo, poté partecipare direttamente agli eventi della guerra. E fu coinvolta nello sforzo della produzione industriale degli enormi quantitativi di materiali bellici necessari al fronte.
Grazie alle colorite corrispondenze degli inviati dei giornali, la guerra cessò di essere per i civili un evento lontano, com’erano state invece le guerre coloniali del secolo precedente.
Iniziò così l’abolizione della differenza fra combattenti impegnati al fronte e civili al sicuro nella vita civile, che poi scomparirà del tutto nella seconda guerra mondiale, quando le parti s’invertirono; dove le perdite fra i civili superarono quelle dei combattenti nelle prime linee.
In tutte le nazioni belligeranti, gli organi di stampa dopo i primi scontri e la stabilizzazione del fronte nella guerra di trincea ci fu la mitizzazione di figure combattenti individuali come gli assi della caccia o in Germania i comandanti dei sottomarini. Viceversa si preferì censurare spesso l’orrore quotidiano della guerra di trincea caratterizzata da condizioni di vista disumane, con centinaia di migliaia di uomini costretti a vivere in ripari di fortuna, esposti alle intemperie e ai continui bombardamenti dell’artiglieria nemica e con la prospettiva di essere lanciati all’improvviso in attacchi suicidi contro le linee nemiche difese da filo spinato, mine e mitragliatrici.
Questa predominanza della difesa sull’offesa grazie all’uso delle armi moderne si era già manifestata nella guerra russo giapponese (1904-1905). Ma questo fatto era sfuggito agli Stati Maggiori europei. In particolare l’esercito francese nel 1914 si lanciò contro le linee tedesche in attacchi frontali e il Regio Esercito italiano si trovò a dover affrontare le munitissime linee permanenti austro-ungariche lungo il confine orientale senza un’artiglieria adeguata per qualità e quantità. Non è un caso che negli eserciti si svilupparono ammutinamenti come in quello nel 1917 in Francia e in Russia e nel 1918 nella marina militare tedesca (negli ultimi due casi, gli ammutinamenti erano dentro un processo rivoluzionario in atto).
I comandi per mantenere la disciplina, come strumento di controllo, oltre alla disciplina severa dei tempi di guerra, e all’uso di ampi contingenti di polizia militare, delle fucilazioni di massa e dei reparti punitivi, furono utilizzati mesi di propaganda e di persuasione.
Tutto questo nasce dal fatto che la borghesia è cosciente che per mantenere l’ordine pubblico non è sufficiente reprimere, neutralizzare o prevenire i comportamenti considerati “asociali” dei singoli individui. Tra l’altro questo non sarebbe neanche una novità, si faceva anche nelle società primitive. Il salto di qualità sta nel fatto, di fare in modo che la massa della popolazione obbedisca alle leggi e segua le abitudini che la classe dominante ha stabilito e che comunque tutela tramite lo Stato, benché in esse siano in contrasto con gli interessi e le aspirazioni o i bisogni di una grande parte della popolazione.
Per questo la borghesia per motivare le truppe e la popolazione civile, grazie allo sviluppo della psicologia sociale e dei mass media, puntò su alcuni temi fondamentali quali: il nazionalismo esasperato, il culto della sacralità della patria, il disprezzo disertori. In quest’attività fu coadiuvata dalle autorità religiose. Man mano che gli ideali di patria andavano, perdendo il loro mordente sotto la drammatica esperienza della guerra, la propaganda iniziò a toccare altri tasti come le atrocità compiute dal nemico. Se sui giornali popolari l’immagine frequente dei soldati che balzavano all’assalto gridando il loro amore di patria era sempre più lontano dalla realtà, le canzoni spontanee dei soldati parlavano degli orrori della guerra, degli affetti rimasti a casa, del paese lontano.
Non è un caso che al fronte dilagò l’uso di alcool etilico, sotto forma di vino e liquori, unico conforto ai disagi della vita di trincea.
Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, in quel periodo illustrava come l’abbrutimento dei soldati in trincea garantisse il loro adattamento alle sofferenze e ai combattimenti che richiedevano soprattutto obbedienza e rassegnazione.
Anche Paolo Caccia Dominioni annotava il 4 novembre 1916 nel suo diario come “…il fiasco infonde ardore al goliardo nervoso che comanda il plotone e deve uscire in pattuglia con una ventina di giannizzeri e non gli permettono neppure di aspettare il buio. Il vino dà la rassegnazione al poveraccio che non comanda un cavolo, che è appena uscito dalla settima azione e già vede delinearsi l’ottava”.
L’alcool è però una droga imperfetta; se da un lato induce euforia e permette di superare l’ansia, dall’altro diminuisce la vigilanza e la coordinazione motoria del soldato, riducendone la performance nel combattimento; e di certo non erano migliori gli effetti dell’etere che, secondo alcune fonti, aveva una diffusione fra le truppe tedesche, per vincere la paura prima degli assalti alla baionetta.
Per superare la staticità della guerra di posizione gli austro-ungarici misero in campo reparti d’assalto (Sturmtruppen), unità speciali costituite per compiere operazioni di sorpresa contro le linee nemiche, per catturare prigionieri, creare un continuo stato di allarme e aprire dei varchi nelle linee avversarie per le truppe convenzionali. Il reclutamento avveniva per lo più su base volontaria, fra gli uomini che avevano le caratteristiche psicofisiche più idonee per le operazioni speciali.
Il grosso dell’esercito ordinario restava composto di un gran numero di elementi con un profilo psicofisico meno brillante, dotati di armamenti convenzionali (fucile e baionetta) e addestrati in modo più sommario.
Le Sturmtruppen rimasero una componente integrata nelle unità di fanteria, con il compito spesso di trascinare negli assalti la massa.
Proprio questi reparti servivano a modello per la creazione in Italia dei reparti di arditi. Questi nacquero nell’estate del 1917 in seno alla Seconda Armata, comandata dal generale Capello. La formazione del personale fu particolarmente accurata, con l’istituzione di poligoni appositamente predisposti, un’accurata preparazione fisica, e al combattimento corpo a corpo con l’uso del pugnale e delle bombe a mano.
Una differenza rilevante alle Sturmtruppen fu l’impiego come vere e proprie unità autonome per operazioni speciali, svincolate dal sostegno della fanteria.
Queste truppe d’élite nel 1919 in Germania originarono i Freikorps, unità volontarie che soffocarono nel sangue la rivoluzione tedesca e furono in seguito i primi quadri del partito nazista. In Italia molti arditi seguirono D’annunzio nell’impresa di Fiume e aderirono ai primi Fasci di Combattimento.
Ma l’uno si divide in due. L’influenza della rivoluzione di Ottobre non poteva non influenzare anche queste truppe di élite. In Italia nel 1921 si costituirono gli Arditi de Popolo: loro fondatore fu Argo Secondari pluridecorato tenente delle fiamme nere (Arditi che provenivano dalla fanteria). La nascita degli Arditi del Popolo fu annunciata da Lenin sulla Pravda. In Germania abbiamo persino il passaggio dai Freikorps alla lotta all’interno del movimento comunista. Josef “Beppo” Römer uno dei fondatori dei Freikorps (che aveva contribuito tra l’altro a reprimere la rivolta operaia della Ruhr nel 1920), nel 1921 entra in contatto con il Partito Comunista di Germania (KPD) diventandone membro effettivo nel 1932. Fu un combattete antinazista, fonda il Sozialistiche Front, gruppo di ex combattenti dei corpi scelti Freikorps formato sia da nazionalisti che da militanti di sinistra. A seguito dell’infiltrazione di queste cellule da parte della Gestapo, è arrestato nel febbraio 1942. Condannato a morte il 16 giugno 1944, venne ucciso il 25 settembre di quello stesso anno.
Come si diceva prima, l’alcool è una droga da guerra imperfetta. Per questo motivo durante la seconda guerra mondiale raggiunse una grande diffusione dei nuovi e più efficaci stimolanti chimici, le anfetamine. Militari americani, inglesi, tedeschi e giapponesi utilizzarono con larghezza queste sostanze che, sintetizzate alla fine degli anni ’20, erano state introdotte nella pratica nel 1936.
Se lo sviluppo delle artiglierie e degli aerei da bombardamento nei primi decenni del secolo sembrava aver ridotto il ruolo del singolo combattente, l’impiego, durante la seconda guerra mondiale, di truppe addestrate per operazioni speciali portò nuovamente alla ribalta l’importanza del fattore umano.
Il reparto di paracadutisti tedesco della settima divisione aviotrasportata che nel maggio 1940 sbarcò con gli alianti sopra al poderoso forte belga di Eben Emael e riuscì a espugnarlo, poteva contare fra l’equipaggiamento anche su compresse di Pervitin, anfetamine utili per sostenere un impegno fisico così intenso. Più tardi nel corso della seconda guerra mondiale i servizi d’informazioni alleati ipotizzarono l’impiego, da parte degli aviatori tedeschi della Luftwaffe, di un derivato surrenalico, detto Composto E che avrebbe consentito loro una maggiore resistenza fisica ai voli ad alte quote. Fu condotto un intenso programma di ricerche, sotto la guida dell’endocrinologo Kendall (premiato con il Nobel nel 1950), fino a quando non fu scoperto che i piloti tedeschi usavano anfetamine; gli studi alleati portarono alla scoperta del cortisone.
Durante il conflitto sarebbero stati forniti alle sole truppe britanniche più di settanta milioni di compresse di anfetamina e non è un caso che in Giappone, nell’immediato dopoguerra, furono immessi sul mercato civile gli enormi stock di questa sostanza, prodotti per uso militare. Questo surplus di farmaci diede luogo in quel paese a una vasta diffusione della tossicodipendenza da anfetamine, “ice che ”, smerciate dalla yakusa, che ebbe il suo culmine di propagazione negli anni ’50, con circa 600.000 tossicomani, quando si tentò di stroncarlo con drastiche , misure repressive. Le gang giapponesi, tra cui le maggiori erano Yamaguchi Gumi e Sumiyoshi Renco arrivarono a gestire le grosse fabbriche clandestine di anfetamine anche nella Corea del Sud, con l’appoggio o per la benevola indifferenza del servizio segreto sudcoreano.
Nella seconda guerra mondiale, dal 1944 alla fine del conflitto migliaia di aviatori giapponesi si sacrificarono in attacchi suicidi di massa contro la marina americana. Il fenomeno dei Kamikaze fu una caratteristica del Giappone e non ebbe equivalenti negli altri esercitici partecipanti al conflitto. Non che non ce ne siano stati: per esaltazione, perché non c’erano vie di scampo, per scelte morali (per salvare altre persone per esempio). Ma nella cultura e nella morale occidentale il suicidio è un male, di cui è al massimo ammessa una scusante in casi eccezionali. Nella cultura giapponese invece il sacrificio della propria vita ha riscosso l’approvazione sociale e ciò affonda le sue radici fin dall’antichità. Secondo lo shintoismo, l’imperatore era un Dio vivente e il meno che gli si poteva offrirgli era la propria vita. Lo shintoismo, che dal 1868 era diventato religione di stato, vi sono le più antiche religioni orientali come il confucianesimo e il buddismo, caratterizzate da alcuni elementi comuni come il disprezzo della vita terrena e della morte, l’esaltazione della pura spiritualità e del misticismo. Se per Confucio il suicidio come nella antichità classica greca e latina era una possibilità accettabile, per i giapponesi divenne addirittura un fine, il coronamento di un’esistenza dedicata al Bushido, “la via del guerriero”. Anche nel buddismo Zen e nel Mikko esoterico dei monaci Yamaguchi il ripudio dell’Io materiale, l’indifferenza per qualsiasi dolore fisico e la ricerca della morte sono considerati i mezzi più idonei per raggiungere il nirvana, il nulla e il tutto.
Gli antichi samurai erano la quintessenza vivente dei principi etici ed estetici della società giapponese tradizionali. Militarismo e religiosità sono due entità inseparabili e complementari per la cultura “dell’impero flottante” e il Bushido.
Negli anni ’30 l’ideologia ultranazionalista propagandata da innumerevoli sette segrete come i Draghi Neri, la Società del Ciliegio, appoggiati dalle potenti lobbies industriali Zaibatsu, contagiò tutti gli strati della società e in particolare le forze armate. Dopo le facili vittorie ottenute in Manciuria e nel Kwantug contro l’esercito cinese, l’alto comando nipponico impose a un governo indebolito il piano strategico di espansione in tutto l’Estremo Oriente, provocando alla fine lo scontro con l’imperialismo statunitense. Da questi presupposti storici, un’analisi psicologica che l’estremo autocontrollo, su cui era basata tutta la società nipponica, nei rapporti interpersonali, nelle arti e nella cultura, era destinata a far sì che tutti i soldati carichi di questo fanatismo mistico, abituati a una disciplina durissima e molto motivati, si dimostrarono in guerra dei combattenti spietati e insensibili sia verso il nemico sia nei loro stessi confronti.
Da questi presupposti risulta più comprensibile il fenomeno dei kamikaze. Già nei primi anni della guerra nel Pacifico numerosi aviatori giapponesi si erano sacrificati lanciandosi contro i mezzi nemici ma si trattava di fatti individuali e non codificati. Dalla fine del 1943 le sorti del conflitto erano mutate e le forze imperiali giapponesi, dapprima credute invincibili, erano state costrette alla difensiva.
Il 15 ottobre 1944 il contrammiraglio Masabumi Arima, comandante della prima flotta aerea della marina imperiale, attaccò con il suo reparto la Task Group 38/4 dell’U.S. Navy e, tra lo sgomento dei suoi ufficiali, si lanciò deliberatamente contro la nuova grande portaerei Franklin che subì danni gravissimi e oltre 900 morti. L’esempio di Arima ebbe un peso determinante per la costituzione di reparti speciali denominati kamikaze, Vento divino, in ricordo dell’uragano che nel 1281 distrusse la flotta d’invasione mongola di Kublai Khan che si apprestava di invadere il Giappone.
Tattiche suicide furono applicate anche in campo navale, con l’utilizzo di minisommergibili e motoscafi esplosivi. In campo terrestre furono poi adottati armi anticarro come cariche cave montate su aste di legno, così pericolose da provocare di solito la morte dell’utilizzatore.
In Europa nel campo nazista anche se non furono costituiti specifici reparti suicidi, è interessante considerare che alcuni reparti delle Waffen SS, come la Panzer Divisionen Hitlerjugend, riuscirono a mantenere intatta la coesione e la catena di comando dopo aver subito la perdita oltre il 60% degli effettivi in lunghi periodi di operazioni continuate.
Analogamente ci furono reparti costituiti da anziani ultracinquantenni e da adolescenti che resistettero fino all’ultimo durante la battaglia di Berlino, nel maggio 1945.
Nel campo degli eserciti anglosassoni furono sviluppati reparti d’élite, come i paracadutisti e i commandos. Nell’estate del 1940, dopo la caduta della Francia, nell’ambito del commando inglese si sviluppò con l’appoggio dello stesso primo ministro Churchill l’idea di costituire piccoli reparti speciali con cui condurre incursioni sulle coste nord dell’Europa per mostrare al nemico la volontà del Regno Unito di continuare la lotta. Tali operazioni avevano più che altro un valore simbolico ma costituirono l’inizio della tradizione dei corpi speciali che vennero ad avere un’importanza sempre maggiore negli anni del dopoguerra.
Ai commandos inglesi ben presto si affiancarono da parte USA, i reggimenti dello Special Air service, i rangers.
Anche i tedeschi e gli italiani costituirono unità di commandos. L’Ufficio Tedesco per lo Spionaggio e Controspionaggio (OKW Amt Ausland/Abwehr) formò i Brandenburger nel dicembre 1939. Essi condussero un misto di azioni allo scoperto e sotto copertura, ma divennero sempre più coinvolti in azioni di fanteria e alla fine divennero una divisione di Panzer-Grenadier, che soffrì pesanti perdite in Russia. Otto Skorzeny (noto principalmente per la liberazione di Benito Mussolini) condusse diverse operazioni speciali per conto di Adolf Hitler. In Italia l’unità speciale più famosa fu la Xª Flottiglia MAS, che fu responsabile dell’affondamento e del danneggiamento di un considerevole numero di unità Alleate nel Mediterraneo, grazie al coraggio, alla determinazione e all’addestramento dei suoi uomini. Dopo l’8 settembre 1943, quelli di loro che continuarono a combattere con la Germania mantennero il nome originale, mentre quelli che si schierarono con gli Alleati cambiarono il nome in Mariassalto.
Negli anni della cosiddetta “guerra fredda” tutte le nazioni della NATO costituirono reparti analoghi, mentre i paesi del campo socialista si organizzavano sul modello russo, paracadutisti o spetstnaz. Questa tendenza fu imitata dalle cosiddette “nazioni non allineate” e i reparti speciali sono stati impiegati con successo in tutti in conflitti dal secondo dopoguerra fino a oggi. L’emergenza rappresentata dalla “minaccia terroristica” (in realtà sviluppo delle opzioni rivoluzionarie all’interno dei paesi imperialisti) dagli anni ’70 portò un’ulteriore specializzazione, con l’istituzione di “gruppi antiterrorismo” come i GSG-9 della Germania Ovest, la Delta amerikana e il GIGN francese.
Il crollo del revisionismo moderno ha portato infine a un generale ridimensionamento di tutti i maggiori eserciti con la rinuncia alla leva di massa e la tendenza a impiegare quasi esclusivamente reparti costituiti da professionisti. In un certo senso sembra che il ciclo degli eserciti di massa che si era aperto con la Rivoluzione francese si stia chiudendo. Resta il problema della motivazione e dell’addestramento. Nel caso dei corpi speciali caratteristiche comuni sono l’esasperato orgoglio di appartenenza e lo spirito di corpo, simboleggiato anche da particolari dell’uniforme (ad esempio il berretto rosso dei parà o la maglia a strisce blu delle forze speciali russe), dell’equipaggiamento e dell’armamento. Le durissime prove fisiche e psichiche che i candidati volontari devono superare per essere integrati in questi reparti e l’elevata percentuale di scartati rappresentano un vero e proprio rituale iniziatico molto simile in tutti gli eserciti.


Tecniche d’interrogatorio, armi psicochimiche, controllo mentale e guerra psicologica
L’origine della narcoanalisi (tecnica nata per fini psicoterapeutici e parallelamente anche giudiziari) trae le sue origini dal motto latino “in vino veritas”.
Secondo alcune fonti risulta che presso le sette di guerrieri ninja, nel Giappone del XV secolo, era applicata una tecnica definita del “ricordo totale” cui erano sottoposti gli agenti specialisti che compivano le ricognizioni in profondità dentro il territorio nemico. Questa tecnica avrebbe dovuto consentire di estrarre dalle loro menti, nel più breve tempo possibile, ogni informazione immagazzinata anche a livello subconscio durante le missioni.
Sarebbero esistite due varianti di questa tecnica d’interrogatorio. Nella prima l’agente era posto in una “stanza della memoria” completamente dipinta di bianco, dove eseguiva esercizi di meditazione per ottenere uno stato di trance. Di fronte a lui si trovava un basso tavolo bianco, su cui erano posati dei fogli di carta nera, pennello e inchiostro. Il ninja scriveva rapidamente tutti i dettagli sulla carta ed essendo questa nera, come l’inchiostro usato, nulla poteva disturbare il suo stato di trance. Non c’era nessuna ragione per alcun personale attaccamento alle esperienze vissute, semplicemente un freddo ricordo totale. Più tardi il rapporto poteva essere reso leggibile, bagnandolo con un acido che faceva virare verso il rosso il colore dell’inchiostro.
Dopo la scrittura l’agente era fatto riposare mentre i suoi superiori analizzavano gli scritti; poi era svegliato e interrogato a voce. Terminato l’interrogatorio, l’agente era lasciato solo e in stato di meditazione compiva uno speciale rituale per cancellare dalla sua memoria ogni ricordo di ciò che aveva visto, contemplando due ideogrammi cinesi il cui significato era in concetto di cancellazione dei ricordi.
Il foglio era poi bruciato sulla fiamma di una candela e contemporaneamente ogni memoria della missione era cancellata dalla sua mente. Tutto il processo richiedeva circa dieci ore; esisteva un metodo rapido per il ricordo totale in meno di un’ora che metteva tuttavia in pericolo la salute psichica dell’agente e che per questo motivo era impiegato soltanto nei casi di grave urgenza.
In Cina, negli alti gradi delle Triadi, erano praticate delle tecniche di ascesi basate sull’uso delle droghe estatiche e sullo yoga con controllo della respirazione. La magia, estremamente diffusa in tutti gli strati sociali, era utilizzata per ottenere il controllo della psicologia individuale e collettiva. In particolare all’interno di queste società segrete avevano un ruolo molto importante i Tai Feu Ciu, esperti di medicina tradizionale e in tossicologia e responsabili anche dell’uso di veri e propri “sieri della verità”.
In Occidente i primi esperimenti scientifici d’interrogatorio con l’uso di sostanze psicoattive risalgono alla metà del XIX secolo, quando Moreau de Tours impiegò nel 1845 la Cannabis. Sauver nel 1847 praticò la somministrazione di etere, Mantegazza usò nel 1866 la cocaina, Obernier nel 1873 l’alcool, Kallitsch la scopolamina e Longre infine una miscela di oppio e morfina.
Nel 1936 Horsley utilizzò per la prima volta il termine “narcoanalisi” in occasione degli esperimenti su soggetti trattati con pentotal sodico per fini psicoterapeutici. Il termine “siero della verità” era stato usato per la prima volta nel 1931 da House che interrogò un individuo sospettato di furto, con l’impiego di una miscela di morfina e scopolamina. Ma fu il Pentotal a meritarsi l’appellativo di siero della verità. Il Pentotal e in generale i Sali dell’acido tiobarbiturico trovarono, infatti, il loro impiego per indurre narcosi se iniettati endovena in soluzione (5-10 milligrammi per chilo di peso). La perdita di coscienza interviene dopo 10-20 secondi, il tempo richiesto perché il farmaco arrivi al cervello. La profondità dell’anestesia è raggiunta quasi instantemente e quindi scema progressivamente fino al risveglio, che si manifesta nel giro di 5-20 minuti. L’anestesia generale da tiopentale deriva dalla soppressione del sistema reticolare attivato del tronco dell’encefalo. Tuttavia nella pratica anestesiologica si possono osservare risposte eccitatorie disinibitorie con dosi insufficienti (1-2 mg/kg) o durante la fase d’induzione e risveglio. È quasi certo che tali risposte siano dovute principalmente alla depressione di circuiti inibitori (probabilmente di tipo GABA energetico) che permette la manifestazione cosciente di ricordi, espressioni verbali o comportamentali fino a quel momento represse. È proprio questa potenzialità della sostanza che la rende interessante come “siero della verità”.
La tecnica differiva leggermente a seconda che si volesse utilizzare per l’interrogatorio del soggetto il periodo pre-narcotico o quello post-narcotico.
Volendo utilizzare il primo si somministrava lentamente una dose molto ridotta di farmaco (1-2 mg per chilogrammo di peso del soggetto) fino a ottenere il grado di sub narcosi necessario. Se si voleva utilizzare il periodo pre-narcotico s’iniettava una dose adatta a ottenere un breve sonno (5-10 mg/kg) e poi dopo un’attesa di qualche minuto s’iniziava a porre domande al soggetto.
Il periodo pre-narcotico si dimostrava in genere più utile; durante questa fase il soggetto presentava ipermnesia (95% dei casi), euforia (90%) e crisi psico-affettive (60%). Soltanto il 10% dei soggetti presentava mutismo e non poteva quindi offrire risposte utili all’esaminatore.
Durante la seconda guerra mondiale fu sperimentato nel campo di Dachau anche l’impiego di mescalina come nuovo “siero della verità” per la polizia politica tedesca. I campi di concentramento istituiti a partire dal 1933 in tutti Lander del territorio tedesco richiesero un personale di oltre 40.000 uomini, costituito oltre che dai sorveglianti, anche da un largo numero di inquisitori della Gestapo specificamente addestrati.
Le teorie sviluppate dal colonnello delle SS Theodor Eicke, primo comandante del campo di Dachau, circa l’addestramento delle guardie, furono adottate da Himmler, comandante supremo delle SS, per tutta l’organizzazione. Lo stato di totale degradazione in cui erano tenuti i prigionieri aveva lo scopo di soggiogare completamente, umiliandole, le vittime che dal loro punto di vista rappresentavano la “feccia della società”, la “razza inferiore” da cui doveva difendersi il popolo tedesco. La base del potere assoluto esercitato dalla Gestapo in tutti i paesi occupati era data dal decreto che prendeva il nome di “Notte e nebbia”, promulgato da Hitler il 07.12.1941, secondo il quale chiunque, di qualsiasi nazionalità, fosse sospettato di attentare alla sicurezza del Reich, poteva essere internato senza processo. In seguito, il 19 marzo 1942, la commissione del Reich per l’Olanda aveva stabilito anche la possibilità per le SS di agire al di fuori di qualsiasi legge esistente e di prendere provvedimenti a carico degli imputati per limitare il crescente numero di prigionieri.
Le forze di polizia delle SS erano state ricostituite nel settembre del 1939 sotto la suprema giurisdizione dell’ufficio di sicurezza del Reich, RSHA. In questo modo era stata annullata ogni distinzione tra esecutivo del partito e l’esecutivo dello Stato. L’RSHA era divisa in vari dipartimenti: servizio segreto interno, Gestapo e servizio esterno. Tutto il personale portava le insegne delle SS sulle uniformi, con una predilezione per stivali, guanti, cappotti e occhiali neri. Questa messinscena serviva a incutere terrore. È questo un tratto caratteristico, seppure secondario, che si ritrova in molte polizie segrete, dai Tonton Macoutes di Haiti agli squadroni della morte sudamericani.
Tutti i membri di questi gruppi di azione dovevano essere trasformati in assassini insensibili, e, sebbene subissero un continuo indottrinamento teso della necessità di eliminare le razze inferiori, spesso come si ricava dalle testimonianze al processo di Norimberga di alcuni ufficiali superiori, dovevano essere “aiutati” con l’alcool o con altri sedativi e molti di loro finiscono per soffrire di gravi disturbi psichici.
Per estorcere confessioni accanto all’impiego di “sieri della verità” furono sviluppate, soprattutto da parte di molte polizie politiche tecniche speciali d’interrogatorio. Nell’URSS di frequente gli interrogatori erano condotti di notte, per approfittare della minore resistenza provocata dal sonno. Un’altra tecnica consisteva nella persuasione della “sincerità” con cui era interrogato il prigioniero convincendolo a firmare la confessione. Molto vicino alle torture fisiche era l’impiego di altri mezzi la continua stimolazione sonora e luminosa, che impediva il sonno al prigioniero e ne ostacolava i pensieri.
Una tecnica particolare impiegata spesso in passato dai militari inglesi nell’Irlanda del Nord per ottenere informazioni dai prigionieri, senza utilizzare sostanze psicoattive, si basava sulla deprivazione sensoriale. I militanti dell’IRA catturati erano tenuti con la testa costantemente coperta da un pesante cappuccio nero, tranne che durante gli interrogatori, e assordati da un suono. Privati di cibo e acqua per periodi prolungati erano costretti a rimanere per molte ore in una scomoda posizione in punta di piedi, con la faccia al muro, a gambe divaricate.
Questa tecnica produceva una forte riduzione di tutte le capacità sensitive, creando uno stato di grande ansia e a volte alterazioni profonde della coscienza dei prigionieri (molti giunsero ad avere delle allucinazioni).
L’impiego di sostanze psicoattive su larga scala per ridurre la capacità combattiva dell’avversario è una tecnica applicata, come tale, soltanto in anni relativamente recenti.
Nel XVIII secolo le tribù dei nativi del Nord America subirono gli effetti degli alcolici introdotti dai coloni in arrivo dall’Europa; l’ebbrezza causata dall’”acqua di fuoco” ebbe effetti sconvolgenti sulle abitudini e sui rituali di queste popolazioni, indebolendone la capacità di combattere.
I giapponesi condussero un’azione d’intossicazione in grande stile ai danni della Cina, quando, a partire dai primi anni del XX secolo, alimentarono un attivissimo commercio clandestino di morfina e di eroina.
Dalle iniziali cinque tonnellate introdotte in Cina dal 1900 al 1907, si giunse nel solo 1917 ad esportare clandestinamente più di diciassette tonnellate. La droga era fatta penetrare in enormi quantitativi, nel territorio del Kwangtung, attraverso la concessione di T’ien-tsin e la regione di Chingking (dove nel 1931 esistevano un centinaio di fabbriche di morfina).
Nel 1937, quando l’esercito nipponico invase la Cina, la diffusione dell’uso della droga in ampie fasce della popolazione aveva diminuito considerevolmente la capacità difensiva del paese.
In Occidente, durante il primo conflitto mondiale, la chimica militare, che già nel secolo precedente aveva rivoluzionato l’arte della guerra con l’invenzione delle polveri infumi per le armi a retrocarica, ritornò alla ribalta con lo sviluppo degli aggressivi chimici. Il primo impiego bellico si ebbe il 22 aprile 1915 a Ypres dove i tedeschi lanciarono un violento attacco contro le linee francesi usando il cloro.
Negli anni del primo dopoguerra le principali nazioni imperialiste continuarono a perfezionare gli agenti chimici e le loro tecniche d’impiego.
L’arma chimica ebbe un progresso fondamentale negli anni ’30 quando furono preparati in Germania nuovi aggressivi ad azione selettiva. Non si trattava più di agenti con una grossolana azione sulla cute o le vie respiratorie ma di sostanze con una potente interferenza specifica sulla neurotrasmissione; era iniziata l’era dei gas nervini. Nel 1936 fu preparato il Tabun e nel 1938 il Sarin, che sono degli aggressivi estremamente letali, ancora in dotazione negli arsenali degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica.
Durante il secondo conflitto mondiale nessun esercito utilizzò gli aggressivi chimici, tuttavia entrambe le parti avevano consistenti riserve di gas e avvenne anche qualche incidente come quello di Bari nel dicembre 1943 dove la nave alleata John Harvey, carica della “vecchia”, ma sempre efficace iprite, fu colpita da bombardieri tedeschi; nel disastro perì un centinaio di persone e tutto rimase segreto per parecchi anni dopo la guerra.
Fin qui si è descritta in breve storia degli aggressivi chimici convenzionali, vediamo adesso quelli “non convenzionali”.
Negli anni ’50 l’attenzione dei ricercatori militari si concentrò sullo sviluppo degli agenti psicochimici, in grado di neutralizzare il nemico senza ucciderlo, risparmiando ogni danno ai materiali. In questi anni le armi chimiche riacquistavano quel ruolo di primo piano che avevano avuto durante il primo conflitto mondiale. Furono studiati nuovi agenti chimici in grado di alterare temporaneamente e reversibilmente la coscienza senza danneggiare il corpo.
La storia degli aggressivi chimici inabilitanti psichici ha origine il 19 aprile 1943, per opera del chimico svizzero Albert Hoffman. Presso il laboratorio della Sandoz di Basilea erano in corso già da cinque anni esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segala cornuta, quando decise di sperimentare su di sé gli effetti della dietilamide dell’acido lisergico aprendo così la porta a quello che sarebbe stato chiamato il periodo della “rivoluzione psichedelica”. La sostanza nota come LSD è un derivato semisintetico, completamente inodore, insapore e incolore, della segala cornuta, prodotta dalla Clavicep purpurea, un fungo che infetta i cereali. Già da molti secoli erano noti gli effetti dell’ingestione del fungo, che davano luogo a epidemie d’intossicazione (ergotismo); uno dei sintomi più caratteristici nei soggetti colpiti era un grave disturbo della coscienza con allucinazioni.
Gli effetti principali dell’LSD consistono in vertigini, astenia, offuscamento della vista, distorsione della prospettiva, illusioni e allucinazioni; hanno un inizio rapido e la durata è dipendente dalla dose (la dose media necessaria per indurre modificazioni della coscienza è assai ridotta, nell’ordine di un microgrammo per ogni chilogrammo di peso, e ciò ne fa uno degli agenti farmacologici più potenti).
Da qui allo studio di possibili applicazioni militari di una sostanza così potente il passo fu breve, il padre dell’LSD, Hoffman, dichiarò di non essersene mai voluto occupare. A queste ricerche lavorarono però i ricercatori militari statunitensi. I primi progetti si proponevano di usare l’LSD per smascherare le spie.
La CIA utilizzò l’LSD nel famigerato progetto MKULTRA .
Sin dalla seconda guerra mondiale, i nazisti iniziarono a svolgere le ricerche coadiuvate dall’Istituto Medico Kaiser Wilhelm di Berlino sul controllo mentale indotto da trauma.
Grazie al Progetto Paperclip, con il quale il governo statunitense promosse la risistemazione di circa 2000 nazisti d’alto livello negli U.S.A., gli studi sulla tecnologia di programmazione del controllo mentale avanzarono rapidamente.
A partire nel secondo dopoguerra, industrie private, strutture militari, e gli apparati politici degli U.S.A. e dell’ex URSS, anno finanziato e gestito esperimenti occulti sul controllo delle masse.
Il 1° giugno 1951, alti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti degli Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, convocarono un piccolo gruppo di psicologi a un meeting segreto all’Hotel Ritz-Carlon di Montreal, per discutere le “tecniche comuniste di controllo del pensiero”. I ricercatori occidentali erano convinti che il successo comunista dovesse essere il frutto di alcune misteriose e sensazionali scoperte scientifiche. Fu così che nel successivo mese di settembre, gli scienziati americani, pianificarono un programma top segret sulla modificazione del comportamento umano: MKULTRA.
Il progetto MKULTRA si trattava di tutta una serie d’attività svolte dalla CIA che avevano come scopo quello influenzare e controllare il comportamento delle persone (controllo mentale).
Uno degli scopi del progetto fu di modificare il livello di percezione della realtà di alcune persone, costringendole a compiere atti senza rendersene conto; un altro degli scopi del progetto era di creare degli assassini inconsapevoli (candidati Manciuriani).
Nel 1977, grazie alla legge sulla libertà d’informazione, furono derubricati alcuni documenti che testimoniavano la partecipazione della CIA al programma.
Il progetto fu portato all’attenzione dell’opinione pubblica per la prima volta dal Congresso degli Stati Uniti e da una commissione chiamata Rockefeller Commission.
Tale commissione pubblicò un documento che diceva: “Il direttore della CIA ha rilevato che oltre 30 tra università sono coinvolte in un programma intensivo di test che prevede l’uso di droghe su cittadini non consenzienti appartenenti a tutti i livelli sociali, alti e bassi, nativi americani e stranieri. Molti di questi test prevedono la somministrazione di LSD. Almeno una morte, quella del Dr. Olson, è attribuibile a queste attività”.
Il progetto MKULTRA fu ordinato dal direttore della CIA Allen Dulles il 13 aprile 1953, nel 1964 fu rinominato MKSEARCH poiché stava specializzando nella creazione del cosiddetto siero della verità, sostanza che sarebbe poi usata per interrogare gli appartenenti del KGB. Dato che quasi tutti i documenti riguardanti l’MKULTRA sono stati distrutti è in pratica impossibile poter ricostruire tutte le attività svolte nell’ambito di questo progetto.
I documenti recuperati fanno presupporre, con sufficiente margine di certezza, che la CIA abbia usato radiazioni e LSD al fine di controllare le menti delle cavie. Le vittime erano dipendenti della CIA, personale militare, agenti governativi, prostitute, pazienti con disturbi mentali e gente comune; in tutto con lo scopo di verificare che tipo di reazione avessero queste persone sotto l’influsso di droghe e altre sostanze.
Il Dottor Sydney Gotlieb, l’ideatore di tutti gli esperimenti, era solito anche torturare le vittime aggiungendo alla normale dose di droga anche rumore molesti o costringendoli ad ascoltare frasi offensive.
Ormai è noto che dalla fine della seconda guerra mondiale negli U.S.A., la Commissione per l’Energia Atomica, il Dipartimento della Difesa, le Forze Armate, la CIA e le altre agenzie si sono serviti di detenuti, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, studenti di college, militari e gente comune, in una serie impressionante di esperimenti per valutare gli effetti delle radiazioni, dell’LSD e del gas nervino, fino a l’applicazione di violenti shock elettrici e prolungati “stati di deprivazione sensoriale”. Solo poche, di queste persone, sapevano a cosa andavano incontro; la maggioranza ne era totalmente inconsapevole e non immaginava neppure di far parte di un esperimento.
In seguito il programma MKULTRA diventerà noto, per i suoi studi pionieristici sull’LSD, spesso condotti su detenuti o frequentatori di bordelli organizzati e gestiti dalla CIA. Gli esperimenti nei bordelli, noti come Operation Midnight Climax, prevedevano l’uso di specchi semitrasparente che permettevano agli agenti di osservare gli effetti dell’LSD sul comportamento sessuale. Ironia della sorte, nell’ambito del programma di tanto in tanto i funzionari governativi aggiungevano LSD ai drink dei colleghi e uno dei risultati sarà il suicidio per psicosi del dottor Frank Olson.
In udienza del 1977, l’allora direttore della CIA Stanfield Turner disse di aver constatato l’uso di sperimentazioni deprecabili e promise che la CIA stessa avrebbe fatto tutto il possibile per rintracciare e informare le persone, una ad una, utilizzate negli esperimenti. La verità è che memorandum interni e deposizioni rese da agenti della CIA in un processo contro l’agenzia hanno rilevato che delle centinaia di “soggetti da esperimento” usati nel programma CIA di controllo della mente, solo 14 furono informate e solo uno fu risarcito. A queste 14 persone, a loro insaputa, era stato somministrato LSD dagli agenti della CIA, nel novero di test sugli effetti di questa droga in uno scenario “realisticamente operativo”.
Negli anni ’50 Cameron, aveva sviluppato un metodo per trattare gli psicotici utilizzando quello che chiamava “rimodellamento” e “ricondizionamento psichico”. Cameron richiese alla Society for the investigation of Human Ecology (un ente di copertura della CIA creato per supportare la ricerca sul controllo del comportamento) l’approvazione di una procedura consistente nella distruzione di modelli continuativi del comportamento dei pazienti per mezzo di elettrochock particolarmente intensi (rimodellamento) e, in alcuni casi, con massicce dosi di LSD. Il trattamento prevedeva sedute consistenti nell’ascolto forzato (16 ore al giorno per sei o sette giorni) di messaggi registrati, mentre il paziente era tenuto in parziale isolamento sensoriale. Nella sua petizione, Cameron, proponeva di provare una varietà di droghe, incluso il curaro da paralisi, come parte di una nuova tecnica di “disattivazione del paziente”.
La CIA attraverso l’Human Ecology Society fornì una sovvenzione di 60.000 dollari. Nove pazienti ricoverati per cure antidepressive, alcolismo e altri problemi c/o Memorial Institute intentarono una causa contro la CIA nel 1979. Una paziente, Rita Zimmerman, fu “rimodellata” con 30 sedute di elettroshock, seguite da 56 giorni di sonno indotto da droghe, il che sfociò in una sindrome da incontinenza. Altri soggetti invece, subirono danni permanenti al cervello, persero il lavoro o in ogni caso la loro salute peggiorò.
Indicativo è il caso di L. Gamble ufficiale dell’aeronautica statunitense, nel 1957 volontariamente prese parte a un test dell’Army Chemical Warfare Laboratories (i lavoratori militari). Era stato informato che avrebbe provato maschere antigas e dispositivi di protezione. Invece, come poi apprese nel 1975, a lui e ad altri 1000 soldati era stato somministrato l’LSD. Gamble cominciò ad accusare perdite di memoria, periodi di grande depressione, ansia e comportamento violento. Tentò il suicidio nel 1960, perse il suo nullaosta di sicurezza top-secret e si congedò anticipatamente nel 1968.
Quando poi venne a sapere che aveva ingerito LSD, chiese di essere risarcito. Il Dipartimento della Giustizia rifiutò la sua richiesta perché non pervenuta in tempo utile, l’Amministrazione dei Veterani gli negò i contributi d’invalidità, perché l’uomo non presentava segni d’invalidità permanente.
Il governo USA addusse diverse motivazioni per giustificare gli esperimenti, da progetti tesi al discredito di politici stranieri, all’addestramento di speciale personale militare. Le forze armate hanno esposto 3000 soldati al BZ, un potente allucinogeno allora sviluppato come arma chimica, una droga che attacca il sistema nervoso, causa vertigini vomito e paralisi.
I primi esperimenti sul controllo del comportamento facevano parte di un progetto della Marina del 1947, chiamato Operation Chatter per individuare e testare “i sieri della verità”, simili a quelli usati nell’U.R.S.S. per interrogare le spie. Tra i farmaci provati su soggetti umani, la mescalina e la scopolamina, un depressore del sistema nervoso centrale. Nel 1951 questo progetto fu rinominato Artichoke con l’avvio di esperimenti medici su soggetti umani per provare su soggetti umani l’efficacia di LSD, il pentotal e l’ipnosi negli interrogatori.
In uno studio realizzato nel 1952 dalla commissione governativa Psychological Strategy Board. Si predispose un programma di ricerca sul controllo del comportamento. Gli esperti, dopo avere definito il lavaggio del cervello adoperato dai comunisti “una serie minaccia alla specie umana”, sollecitarono l’impiego di droghe e shock elettrici negli studi clinici da condurre in condizioni di segretezza. Nello studio si discuteva persino il potenziale di lobotomia arguendo che “se fosse stato possibile sperimentarla sui membri del Politburo, la Russia non sarebbe stata più un problema”, nonostante vi si sottolineasse che le cicatrici chirurgiche rendessero il suo impiego proibitivo.
Nel 1955, le Forze Armate promossero una ricerca alla Tulane Aniversity attraverso la quale nel cervello di individui affetti da turbe psichiche furono introdotti elettrodi per misurare gli effetti di droghe psichedeliche. In altri esperimenti, dei volontari furono tenuti in camere di deprivazione sensoriale per almeno 130 ore, bombardati con rumori di fondo e messaggi subliminali fino all’insorgere in loro dei primi sintomi allucinatori. Tutto questo aveva l’obiettivo di “riconvertire” gli individui sottoposti a questo trattamento.
In un libro di Franco Fracassi L’INTERNAZIONALE NERA si parla della Colonia Dignidad, una località che si trova va 340 Km a sud di Santiago del Cile, che era un centro di smistamento logistico dei nazisti in fuga nel secondo dopoguerra, ma soprattutto un centro di addestramento di forze militari e paramilitari anticomuniste. Ebbene si afferma in questa colonia “ si tennero anche esperimenti di uno dei programmi più tristemente famosi portati avanti dalla Cia fino all’inizio degli anni Settanta: MKULTRA. Lavaggio del cervello, controllo dell’essere umano attraverso l’ipnosi e le droghe. In questo pezzo di Baviera ai piedi delle Ande persero la vita, o la ragione, centinaia di soldati statunitensi usati come cavie per MKULTRA”.
Tutto questo nasce dalla collaborazione che si creò dalla fine della seconda guerra mondiale tra nazisti e potenze imperialiste occidentali contro quello che il comune nemico: il comunismo. Gehlen uno dei sei capi dei servizi segreti nazisti ha raccontato nelle sue memorie, come Allen Dulles cercò di agganciarlo in tutti i modi: “Alla fine di dicembre 1944 i colloqui arrivarono a buon fine. Ricordo bene i termini dell’accordo con l’Oss. Che un servizio segreto clandestino tedesco potesse continuare ad esistere e raccogliere informazioni nell’Est, come aveva fatto fino ad allora. La base dei nostri comuni interessi era la difesa contro il comunismo. Che questa organizzazione non avrebbe lavorato per o sotto gli americani, ma insieme agli americani. Che l’organizzazione sarebbe stata finanziata dagli Stati Uniti. Che i servizi americani si sarebbero impegnati ad aiutare chiunque fosse stato proposto dall’organizzazione come un soggetto in pericolo”.
Si è venuto a saper agli inizi degli anni ’90 che anche l’esercito britannico negli anni ’70 condusse esperimenti sui propri militari.
Secondo la celebre e abusata definizione di Karl von Clausewitz la guerra non sarebbe che “il proseguimento della politica con altri mezzi”.
Nell’ambito dei mezzi di controllo politico dell’avversario e degli oppositori interni si distinguono fra le attività di guerra psicologica quelle di propaganda, destinate al tempo di pace e quelle di guerra psicologica propriamente detta, tipica del tempo di guerra.
Le operazioni psicologiche o manovre psicologiche (in inglese PSYOPS Psychological operations) sono un metodo utilizzato dalle istituzioni militari definibile come un complesso di attività psicologiche messe in atto mediante l’uso programmato delle comunicazioni, pianificate in tempo di pace, di crisi e di guerra, dirette verso gruppi o obiettivi “amici”, neutrali o nemici (governi, organizzazioni, gruppi o individui) al fine di influenzarne i comportamenti che incidono sul conseguimento di obiettivi politici e militari.
C’è una versione che afferma che L’arte della guerra, sarebbe il frutto di un lavoro collettivo di un gruppo di generali che circa 2300 anni fa sintetizzarono per iscritto l’esperienza collettiva, ereditata da antiche tradizioni orali. Sun Tzu mostra che la guerra è uno degli strumenti a disposizione del potere politico per conseguire i suoi fini, ma è anche un mezzo politico-militare particolarmente delicato poiché dal suo uso dipende la salvezza o meno dello Stato: risulta chiaro la subordinazione della guerra alla sfera politica e la preoccupazione per la conservazione – riproduzione del potere, Sun Tzu anticipa a più di due millenni la famosa definizione di Clausewitz sulla guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. Perciò nel quadro della centralità dell’obiettivo politico rispetto al mezzo bellico che Sun Tzu dice: “Perciò, combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza: la suprema abilità consiste nel piegare la resistenza (volontà) del nemico senza combattere” il principio noto come strategia indiretta: la suprema abilità consiste nel giungere nelle migliori condizioni possibili, costringendo l’avversario nelle peggiori condizioni.
E in quest’ambito che si muove la guerra psicologica.
Le scienze delle comunicazioni, il cui sviluppo è stato pilotato dalla CIA a partire dagli anni ’50, hanno costituito uno strumento essenziale della guerra psicologica condotta contro il movimento comunista, i paesi socialisti e tutti quei paesi che resistevano al dominio U.S.A.
Gli specialisti del comportamento hanno contribuito a raccogliere informazioni sugli avversari dell’imperialismo U.S.A., a elaborare la propaganda, a prevenire i movimenti di liberazione fino a consigliare gli esperti della tortura.
Quest’alleanza fra mondo scientifico e quello politico è tuttora operante in tutti i paesi imperialisti.
In un documento dell’esercito degli Stati Uniti redatto nel 1948, riprendendo Sun Tzu definisce così la guerra psicologica: “Questa impiega mezzi fisici o etici, oltre alle tecniche militari ortodosse, tendenti a:
A – Distruggere la volontà e la capacità di combattere del nemico.
B - Privarlo del sostegno dei suoi alleati.
C - Accrescere in seno alle nostre truppe e in quello dei nostri alleati la volontà di vincere.
La guerra psicologica impiega qualsiasi arma in grado di influenzare la volontà del nemico. Le armi sono psicologiche solamente per l’effetto che producono e non in ragione della natura delle armi stesse. Quindi, in un quadro di guerra psicologica, la propaganda palese (bianca), segreta (nera), o grigia – sovversione, sabotaggio, operazioni speciali, guerriglia spionaggio, pressioni politiche, culturali, economiche e razziali – sono considerate armi utilizzabili
Per realizzare questo programma che i servizi segreti reclutano nelle università gli specialisti di scienze del comportamento”.
Il progetto Troy consisteva nel mobilitare ricercatori per definire i differenti mezzi disponibili per diffondere la propaganda statunitense dietro la Cortina di Ferro. L’obiettivo era di rinforzare il dispositivo Voce dell’America, una rete di radiodiffusioni creata dal Servizio Informazioni Internazionale un organismo messo in piedi da Truman. La Voce dell’America era un’operazione di propaganda bianca, palese; il suo ruolo era di fare promozione dell’imperialismo U.S.A., mentre il progetto Troy era propaganda nera.
Inizialmente il progetto Troy doveva essere centrato sulle radiodiffusioni e su lanci di volantini con palloni sonda.
Nell’ambito di questo progetto, s’istituì lo Psychological Strategy Board (Commissione per le Strategie Psicologiche), che aveva lo scopo di studiare la società sovietica con un programma di colloqui e relazioni con i dissidenti e si creò nel MIT (Massachusetts Institute of Technology) il dipartimento CENIS (Centro per gli studi internazionali). Il progetto Camelot consisteva, negli anni sessanta, nel produrre modelli di contrasto dei processi nazionali rivoluzionari nei paesi del Terzo Mondo. Camelot rappresentava l’intensificazione delle relazioni delle relazioni tra i comportamentisti e i servizi segreti. Lanciato nel 1963, il piano era destinato a facilitare gli interventi nello Yemen, a Cuba e nel Congo belga. In Cile il piano Camelot fu messo in atto attraverso l’intermediazione dell’Organizzazione per la Ricerca sulle Operazioni Speciali (SORO).
Nel 1937, De Witt, dell’Università di Princeton, crea la rivista Pubblic Opinion Quarterly (POQ), pubblicò articoli sulla guerra psicologica. Il consiglio di amministrazione della rivista si compose dopo la seconda guerra mondiale di specialisti che partecipano al progetto psicologico della CIA.
Lo studio dei sistemi di comunicazione dei paesi del campo socialista o che potrebbero essere conquistati dai comunisti permette di raccogliere informazioni che gli strateghi delle forze terrestri possono utilizzare lo stesso, valgono per le indicazioni sulle modalità di diffusione della propaganda bianca e i metodi neri di diffusione del terrore. Le scienze della comunicazione di massa, concepite come strumenti di vigilanza e di coercizione, hanno di conseguenza una vocazione puramente manipolatrice. Molti degli specialisti della “manipolazione di massa” sono frequentemente dei marxisti pentiti.
I media occidentali (seguiti dalla varia forza politica di destra, centro, sinistra ed estrema sinistra) hanno spacciato i colpi di Stato in Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004) come rivoluzioni. Lo fanno per ingannare la gente. Il problema è che questa interpretazione si è associata molto all'estrema sinistra che si considera “rivoluzionaria”.
Per chiarirsi, questi cosiddetti “rivoluzionari” col parlare di masse e apparati in modo astratto nascondono la natura della rivoluzione se democratica borghese o socialista, non dicono quale classe sta dirigendo rivoluzione.
Una delle caratteristiche di queste cosiddette “rivoluzioni” è l’uso dei media.
Il controllo dei media è importante per il capovolgimento di un regime. I media costruiscono una realtà virtuale, il controllo di questa realtà è uno strumento di potere, perciò non è un caso che dopo un colpo di Stato classico, la prima cosa che s’impadroniscono i golpisti è la radio.
C’è una ripugnanza da parte di molte persone affiorare l’idea che gli avvenimenti politici siano deliberatamente manipolati.
L’ideologia di questi manipolatori ha origine da una certa impostazione di Freud sugli impulsi istintuali. Freud riteneva che giacché l’organizzazione sociale per esistere debba piegare e utilizzare gli istinti erotici (e distruttori) del singolo, il prezzo della civiltà è la repressione e il suo disagio è la nevrosi.
Questa tesi fu esposta nella prima forma in Totem e Tabù, strettamente legata alla difesa dell’autorità come personificazione dell’esigenza repressiva. Un decennio più tardi, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud insisteva nuovamente sull’importanza dei moventi irrazionali che legano le masse all’autorità “paterna” dei capi e riprendeva il tema della derivazione delle forme societarie più vaste dal nucleo patricentrico naturale della famiglia. (Con questo libro era teorizzata in forma compiuta la riduzione della politica a inganni dell’inconscio e nasceva una concezione scettica, psicologizzante e antipolitica dei rapporti sociali che avrà in seguito, fertili risultati: si pensi come, con una coscienza ben maggiore dei propri fini, la scienza psico-sociale americana ha riscoperto che voltando la politica in psicologia si riesce a far sì che tutte le vacche diventino nere).
Le diversificazioni delle informazioni derivata dai media, è pura apparenza, nasconde un’estrema povertà delle fonti originali. Le informazioni sugli avvenimenti provengono spesso da un’unica fonte, di solito da un’agenzia di stampa, e anche coloro deputati alla diffusione delle informazioni come la BBC, si accontentano di riciclare le informazioni ricevute da queste agenzie, presentandole come farina del loro sacco.
I corrispondenti della BBC spesso stanno nelle loro camere di albergo quando spediscono i loro dispacci, leggendo per gli studi di Londra le informazioni che sono state loro trasmesse da colleghi in Inghilterra, che a loro volta le hanno ricevute da agenzie di stampa.
Un altro aspetto che spiega la ripugnanza a credere alla manipolazione dei media è legato al sentimento di onniscienza che la nostra epoca di mezzi di comunicazione di massa ama assecondare: criticare le informazioni della stampa è come dire alle persone che sono credulone, e questo messaggio non è gradevole da ricevere.
Il primo teorico importante in questa materia è stato il nipote di Freud, Edward Bernays, che scriveva nella sua opera Propaganda, apparsa nel 1928, come fosse del tutto naturale e giustificato che i governi plasmassero l’opinione pubblica per fini politici.
Il primo capitolo porta il titolo rivelatore: Organizzare il caos.
Per Bernays, la manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse è un elemento importante delle società democratiche. Coloro che manipolano i meccanismi segreti della società costituiscono un governo invisibile, che rappresenta il potere effettivo. Noi siamo etereodiretti, i nostri pensieri sono condizionati, i nostri gusti sono costruiti ad arte, le nostre idee sono suggerite essenzialmente da uomini di cui non abbiamo mai inteso parlare. È la conseguenza logica della maniera in cui la nostra società “democratica” è strutturata.
Un gran numero di esseri umani deve cooperare per vivere insieme in una società che funzioni bene. In quasi tutti gli atti della nostra vita quotidiana, che si tratti della sfera politica, di affari, dei nostri comportamenti sociali o delle nostre concezioni etiche, noi siamo dominati da un numero relativamente ridotto da persone che conoscono i processi mentali e le caratteristiche sociali delle masse. Sono queste persone che controllano l’opinione pubblica.
Per Bernays, molto spesso questi membri del governo invisibile non conoscono essi stessi chi sono gli altri membri. La propaganda è il solo mezzo per impedire all’opinione pubblica di sprofondare nel caos.
Bernays ha continuato a lavorare su quest’argomento dopo la guerra e nel 1947 ha pubblicato La costruzione del consenso, titolo al quale Edward Herman e Noam Chomsky hanno fatto riferimento quando pubblicato la loro opera La fabbrica del consenso.
Il rapporto con Freud è decisivo perché la psicologia è uno strumento capitale per influenzare l’opinione pubblica.
Secondo Fleischmann e Howard Cutler (che avevano collaborato con la La fabbrica del consenso), ogni leader politico deve fare appello alle emozioni umane primarie al fine di manipolare le opinioni.
L’istinto di conservazione, l’ambizione, l’orgoglio, la bramosia, l’amore per la famiglia e per i bambini, il patriottismo, lo spirito di imitazione, il desiderio di comando, il gusto dell’azione, così come per altri bisogni, sono le materie psicologiche che ciascun leader deve prendere in considerazione nei suoi tentativi per conquistare l’opinione pubblica alle sue idee.
La rapidissima evoluzione tecnologica degli ultimi anni del secondo millennio ha sviluppato ulteriormente le tecniche di guerra psicologica che viene definita anche guerra incruenta. Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e d’informazione, assieme alla nascita del cyberspazio, pone come centrale da parte degli Stati e degli altri organismi politici, economici e militari, per raggiungere gli obiettivi politici, economici, militari e culturali che si prefiggono, il possesso delle informazioni, come nel passato era il controllo del traffico commerciale e quello delle risorse materiali e prima ancora era quello delle capacità produttive agricole. In sostanza si passa da un mondo nel quale uno dei compiti delle forze armate era la capacità di annientare l'avversario attraverso la forza fisica (caratteristica che tuttora rimane) attraverso un’adeguata forza fisica, con la spada o con le bombe nucleari, a uno dove la forza è data dalla creatività, dalla spregiudicatezza intellettuale. Cambia il modo di fare la guerra. La prospettiva è che le battaglie saranno combattute anche nei campi di battaglia virtuali. Perciò, in questo, si tratta di ridefinire anche il concetto di spazio vitale per la battaglia che non corrisponde più solamente a uno spazio fisico, come non è più identificabile con una disponibilità di risorse naturali quali le fonti d’energia, le miniere di ferro e carbone o i campi di grano.
Oggi lo spazio vitale è quello in cui un Paese o meglio i suoi capitalisti riesce ad agire e competere con successo. Una delle conseguenze della crisi attuale è lo scatenamento di una lotta senza quartiere fra i capitalisti per decidere quale porzione di capitale debba fare le spese della crisi e sparire dal mercato. Tutto ciò accentua i contrasti tra i vari gruppi imperialisti e di conseguenza fra gli Stati. Questa competizione diventa un terreno per costruire l’identità nazionale (della serie “siamo tutti nella stessa barca”, “bisogna essere competitivi per salvare la ‘nostra economia” ecc.). Questo comporta un riesame sia delle dottrine militari sia delle istituzioni dello Stato (non è un caso che una delle tendenze di fondo in tutti i paesi imperialisti è il rafforzamento degli esecutivi e lo svuotamento delle assemblee legislative).
L’ambito attuale è che spesso gli interventi militari si trovano ad agire sotto l’occhio attento delle telecamere di tutto il mondo (pensiamo a cosa vuol dire la repressione in Birmania o le proteste per il Tibet), in operazioni che vedono la presenza contemporanea oltre che di militari, dei civili delle ONG e degli agenti che operano nei servizi segreti. Perciò si tratta da parte dei vari paesi imperialisti di coordinare efficacemente tutti questi soggetti. Già gli U.S.A. hanno già da alcuni anni previsto la possibilità d’avere azioni militari incruente nell’ambito delle operazioni definite con la sigla OOTW (Operations Other Than War) operazioni diverse dalla guerra. In sostanza le nuove guerre saranno combattute prima dell’avvio d’eventuali azioni militari tradizionali, in stretto coordinamento con tutte le varie branche della Pubblica Amministrazione e di varie organizzazioni civili (ONG, Protezione Civile ecc.). In questo quadro, è importante la creazione di un centro unico di comando in grado di operare velocemente in un vasto ventaglio di situazioni che possono andare dalle cosiddette operazioni “umanitarie” ai confronti con armi nucleari.
Poiché l’attuale sistema a rete è tremendamente complesso e in esso circolano i flussi economici, politici e militari che regolano il mondo. Se s’interviene su un elemento una componente s’innesta un ciclo di azioni e reazioni, con feedback positivi e negativi che è molto difficile valutare quantitativamente.
In sostanza la guerra del futuro come si diceva prima non consisterà più solamente nell’utilizzo di mezzi che coinvolgono la forza degli armamenti per costringere il nemico ad accettare la propria volontà ma consisterà nell’usare tutti i mezzi possibili per obbligare il nemico a servire i propri interessi.
Da tempo la tendenza per arrivare alla vittoria nelle guerre attuali (e future) è la combinazione dei metodi operativi che si usano e che possono variare, a seconda degli scopi che si vogliono raggiungere. I metodi da combinare possono essere militari, trans-militari (guerra diplomatica, guerra di network, guerra di intelligence, guerra psicologica, guerra tattica, guerra di contrabbando, guerra di droga, guerra virtuale di deterrenza), oppure non militari (guerra finanziaria, guerra commerciale, guerra di risorse, guerra di aiuto economico, guerra di sanzioni, guerra mediatica, guerra ideologica).
Ad esempio la cosiddetta “guerra al terrorismo” lanciata da Bush dopo l’11 settembre è una combinazione di guerra d’intelligence + guerra finanziaria + guerra di network + guerra ideologica + altri tipi di conflitti.
I conflitti contemporanei sono dei grandi contenitori e la vittoria è tutto ciò che si può mettere in questo contenitore.
Nel libro La CIA e la Guerra fredda culturale si spiega in maniera molto dettagliata come, all‘inizio della cosiddetta Guerra fredda, gli statunitensi e i britannici dettero inizio a un‘importante operazione clandestina destinata a finanziare intellettuali anticomunisti.
L‘elemento fondamentale è che la CIA concentrò la sua attenzione su alcune personalità della sinistra soprattutto su trotzkisti. Un gran numero di queste persone divennero in seguito neoconservatori di primo piano: Irving Kristol, Sidney Hook e Lionel Trilling.
Le origini di sinistra, e specificamente trotskiste, mantengono una relazione particolare con le operazioni clandestine, poiché le operazioni della CIA erano di influenzare gli oppositori di sinistra al comunismo, vale a dire i trotskisti. Molto semplicemente, l‘idea della CIA era che gli anticomunisti di destra non avevano alcun bisogno di essere influenzati.
Scriveva a proposito Saunders: “L‘obiettivo di sostenere gruppi di sinistra, non era né di distruggere né di dominare questi gruppi, a piuttosto di mantenere con loro una discreta prossimità e di dirigere il loro pensiero, di procurare loro un modo di liberarsi dalle loro inibizioni inconsce e, al limite, di opporsi alle loro azioni nel caso in cui fossero diventati eccessivamente …radicali“.
Le modalità attraverso cui questa influenza di sinistra fece sentire i propri effetti furono molteplici e variegate.
Gli Stati Uniti erano decisi a fornire di se stessi un‘immagine progressista che contrastava con quella di Unione Sovietica “reazionaria“.
Ad esempio negli ambienti musicali statunitensi, Nicolas Nabokov (il cugino dell‘autore di Lolita) era uno dei principali esponenti del Congresso per la libertà della Cultura.
Nel 1954, la CIA aveva finanziato un festival della musica a Roma nel corso del quale l‘amore autoritario di Stalin per compositori russi come Rimski-Korsakov e Tchaikovski era contrastato dalla musica moderna non ortodossa ispirata dal dodecafonismo di Schoenerbert. Per Nabokov, promuovere una musica che eliminava in modo eclatante le gerarchie naturali, era lanciare un chiaro messaggio politico.
Un altro “progressista“, il pittore Jackson Pollock, ex comunista, fu allo stesso modo sostenuto dalla CIA. I suoi imbrattamenti erano considerati come la rappresentazione dell‘ideologia americana di libertà contrapposta all‘autoritarismo del realismo socialista.
Questa commissione fra cultura e politica fu incoraggiata apertamente da un organismo della CIA che portava un nome molto orwelliano, l‘Ufficio di Strategia Psicologica (PSB).
Nel 1956, quest’organizzazione sostenne una tournée europea della Metropolitan Opera (Met) che aveva lo scopo politico di incoraggiare il multiculturalismo.


Stress da battaglia, e la “pillola del coraggio”
Nel dopoguerra l’uso di sostanze psicoattive da parte dei militari si ripeté quasi in ogni conflitto; particolarmente diffuso fu l’impiego di anfetamine in Corea da parte delle truppe statunitensi.
Il problema esplose in tutta la sua gravità durante la guerra del Vietnam che in molti aspetti rappresentò un fenomeno unico e uno spartiacque con le epoche precedenti. Gli Stati Uniti avevano combattuto altre guerre “difficili” ma non era mai accaduta una situazione in cui durante il conflitto ci fosse un divario netto fra l’opinione pubblica (che era per la maggioranza indifferente se non ostile) e la politica del governo. Inoltre la condotta della guerra fu completamente diversa dai conflitti precedenti con l’alternarsi di brevi periodi di combattimento con pause di tranquillità nelle città del Sud Vietnam. Forse il singolo aspetto più importante era la regola del tour predeterminato di dodici mesi in zona di operazioni. I soldati di leva in Vietnam sapevano che dovevano sopravvivere per questo periodo limitato e poi avrebbero avuto diritto al rimpatrio. Mancava il senso di disperazione dei conflitti precedenti in cui le uniche vie di uscite sul fronte erano la morte o il ferimento.
La guerra del Vietnam vide il fallimento della tradizionale strategia bellica che aveva guidato fino allora gli USA. La strategia di annichilazione, che aveva portato al successo nella seconda guerra mondiale, partiva dal fatto che avendo gli Stati Uniti a disposizione risorse naturali ed economiche in apparenza senza limiti, i militari statunitensi non sarebbero mai stati parsimoniosi sui mezzi materiali utilizzati, e avrebbero sviluppato la “guerra di annichilazione”, basata sulla superiorità soverchiante della potenza di fuoco. Si riprodusse sul piano militare ciò che avvenne in tutti i settori dell’economia americana: il risparmio di energia e di mezzi furono considerati secondari.
Il metodo della guerra di annichilimento fu messo a punto dal generale nordista U. Grant durante la Guerra Civile (1861-1865). Invece di seguire la strategia napoleonica della battaglia decisiva, Grant sviluppò il concetto di una successione di mazzate da sferrare con una soverchiante potenza di fuoco contro l’esercito sudista allo scopo di disgregarlo. La realizzazione di questa strategia fu possibile per la soverchiante superiorità industriale del Nord. Grant non si preoccupò dei costi politici di questa strategia (difficoltà di riconciliazione postbellica con lo sconfitto). Poiché un esercito è sostenuto dalla sua economia e dalla sua popolazione, il passaggio dall’idea dell’annientamento di un esercito a quello del suo retroterra civile è naturale. Questo secondo aspetto della guerra di annientamento fu applicato dal generale Sherman, il secondo per importanza dopo Grant, il quale diede il suo consenso a colpire e terrorizzare la popolazione civile del Sud.
Nel Vietnam questa strategia, contro la guerriglia, non funzionò. In una guerra convenzionale conta la potenza di fuoco contro le postazioni avversarie, ma una guerriglia non è condotta da posizioni fisse, e la potenza di fuoco significa colpire la popolazione, inimicandosela, alimentando in tal modo il reclutamento dei guerriglieri. Una guerra convenzionale è per il controllo del territorio, una guerriglia è per il controllo della popolazione. In Vietnam la guerriglia colpiva i funzionari di governo: colpiva sia i corrotti per avere la simpatia della popolazione, che i migliori per impedire il funzionamento del governo. Entro il 1960 ben 2.500 funzionari del governo sudvietnamita venivano uccisi ogni anno. Alla fine accettavano il rischio di servire il governo di Saigon solo avventurieri corrotti. Ciò accresceva lo scollamento tra governo e popolazione.
L’esito del conflitto vietnamita fu determinato non tanto dalla semplice forza delle armi (su questo campo era indubbia la superiorità degli USA) o dalle operazioni militari, ma dall’atteggiamento delle masse popolari vietnamite, del campo civile insomma, insieme a un appoggio al Nord Vietnam dell’URSS e della Cina. In altre parole l’uomo e il suo vigore psichico furono (e lo sono tuttora dal mio punto di vista) più importanti dei materiali bellici che s’impiegarono.
A nulla servì da parte delle forze armate USA l’impiego contro la guerriglia da parte dell’esercito americano delle forze speciali. Il generale nordvietnamita Nguyen Van Vinh riteneva nel 1966 di poter constatare il fallimento di queste forze speciali americane: “La special warfare americana nel Vietnam del Sud è sostanzialmente fallita dopo essere stata sperimentata per più di tre anni con strategie e tattiche diverse con nuove armi e nuove tecniche, accompagnate da metodi estremamente crudeli: i loro principali sostegni, le truppe e l’amministrazione del governo fantoccio, sono anch’essi in decadenza; il sistema dei “villaggi strategici”, ch’essi consideravano la loro spina dorsale, è stato in sostanza distrutto; la tattica degli elicotteri e dei mezzi anfibi, che erano stati considerati più agili e più facilmente manovrabili, è stata un fiasco solenne; le città considerate dagli aggressori come le loro più sicure retrovie, sono accerchiate, notevolmente ridotte in estensione, e davanti all’incessante lotta politica e nelle campagne da milioni di uomini del popolo si trovano in pieno scompiglio; il carattere neocolonialista dell’imperialismo USA è stato smascherato agli occhi di tutto il popolo sudvietnamita, e per compiere atti di sabotaggio nel Vietnam del Nord mediante commandos di truppe del sud, sono miseramente falliti”. In sostanza il successo delle forze speciali antiguerriglia era essenzialmente legata dall’appoggio che avrebbero ottenuto delle masse della popolazione vietnamita, ciò che non avvenne.
Con il perdurare del conflitto il morale e la disciplina crollarono con numerosi episodi di ammutinamento di interi reparti, mentre negli Stati Uniti gli studenti dei campus universitari contestavano in maniera sempre più violenta e organizzata.
A partire dal 1967, uno dei motivi di allargamento della contestazione fu un progetto di modifica del sistema di reclutamento, che minacciava di coinvolgere gli studenti che ottengono scarsi risultati universitari. Molti giovani spedirono indietro i documenti militari, 20.000 lasciarono il paese soprattutto alla volta del Canada (mentre i militari americani di stanza in Europa trovarono rifugio in Svezia e in numerosi altri paesi). Tra il primo luglio 1968 e il 30 giugno 1969 sono registrati 27.444 casi di diserzione.
I casi di diserzione passarono dal 15 per mille del 1966 al 74 per mille del 1971.
Durante l’invasione della Cambogia nell’aprile 1970 alcune grandi unità dell’U.S. Army come la Quarta divisione di fanteria entrò in crisi per un minimo di resistenza da parte del nemico, con ammutinamento di interi reparti e la paralisi operativa e il peso delle operazioni fu spostato sempre di più sulle forze aree, composte largamente da personale di carriera e con una struttura con maggiori percentuali di ufficiali.
Grabriel Kolko nel maggio del 1969 nel rapporto compreso nel volume Il Vietnam in America pubblicato in italiano dalla casa editrice Editori Riuniti: “Nella storia delle guerre combattute dagli americani mai il morale delle truppe è stato così basso come nel Vietnam. Questo fenomeno – che costituì uno dei più grossi problemi per gli americani in Corea – pone anche oggi problemi che il Pentagono si dimostra sempre più incapace di risolvere”.
Si potrebbe, senza essere accusato di fare forzature, che una gran parte dell’Esercito statunitense era sulla via della disgregazione. Uno dei motivi di ciò, stava nel fatto che a differenza della seconda guerra mondiale, una gran parte dei soldati non credeva nella causa per cui combatteva. Nonostante la propaganda che dipingeva la guerra del Vietnam come una guerra giusta per un mondo migliore, non ci volle molto per i soldati a capire che le cose non stavano così.
Nel 1973 con l’abolizione della leva, il nuovo esercito statunitense consisteva in soldati di bassa qualità delusi ed equipaggiati con armi obsolete. La cultura della droga e l’indisciplina regnavano nelle caserme al punto che gli ufficiali potevano entrare nelle camerate solo se armati.
Nel 1973 in un rapporto interno del pentagono si calcolava che il 35% di tutti gli uomini in servizio nel Vietnam aveva provato l’eroina e che il 20% di questi era diventato tossicodipendente nel corso dei dodici mesi di permanenza nel sud-est asiatico. Analogamente si ritiene che più del 50% dei soldati facesse uso di marijuana.
Nella storia ufficiale della Guardia Nazionale: A History of the Army National Guard, si dice che dopo il ritiro dal Vietnam, l’esercito USA era nel pieno di una crisi per la diffusione della droga, della mancanza di disciplina, delle tensioni razziali. In Europa i comandanti dell’Esercito ritenevano che la mancanza di disciplina rendesse inutilizzabile la Settima Armata, e il comandante del Command and General Staff di Fort Leavenworth, Kansas, pubblicamente ammise che l’Esercito era “di fronte a seri problemi per quanto riguardava la truppa, il morale, la strategia, la leadership”. E’ l’ammissione ufficiale, che l’Esercito, uno strumento fondamentale del monopolio della violenza organizzata, con cui la classe dominante impone la sua legge alle altre classi, stava venendo meno.
La spiegazione di tutto ciò da parte dell’Esercito americano furono diverse: l’esercito americano allora era basato sulla coscrizione obbligatoria e nella metà degli anni ’60 nella popolazione giovanile americana si era largamente diffuso l’utilizzo di sostanze stupefacenti. Inizialmente il governo non aveva esercitato alcun controllo su un fenomeno che in breve tempo passato dalle élite delle avanguardie artistiche della beat generation e dell’arte pop alle grandi masse giovanili. Il Sud-Est asiatico poi era, ed è tuttora uno dei maggiori centri mondiali produzione della droga. Nelle città del Vietnam del Sud era facilissimo trovare marijuana e oppio proveniente dal Triangolo d’oro a prezzi molto bassi.
Quello che si voleva nascondere era che la gran parte del traffico degli stupefacenti tra il Sud-Est asiatico e gli Stati Uniti era gestita dalla CIA, che si serviva di questi introiti per finanziare le operazioni coperte.
Il legame tra servizi segreti e traffico di stupefacenti non è ovviamente esercitato solo dai servizi segreti statunitensi. Nel 1996 è stato divulgato da fonti militari israeliane come per molti anni i servizi segreti di questa nazione abbiano alimentato un traffico di hashish verso l’Egitto per indebolire la capacità di combattimento dell’esercito egiziano.
La guerra del Vietnam è stata una delle prime occasioni in cui i militari sono stati oggetti di attente indagini psicologiche. È molto probabile che in altre guerre l’uso di sostanze psicoattive abbia avuto un’ampia diffusione ma che sia sfuggito (molto probabilmente volontariamente) a ogni tentativo di quantificazione.
Proprio il problema del crollo psicologico nei conflitti moderni ha assunto dimensioni preoccupanti e ingentissimo è il numero di soldati che è stato necessario ritirare temporaneamente o definitivamente dal servizio attivo per motivi neuropsichiatrici. La principale causa è stata individuata nel disturbo post-traumatico da stress, definito dagli autori americani come “Combat stress reactions”. Si tratta di un disturbo mentale noto fin dai tempi antichi ma che è stato descritto e classificato con questo nome da una ventina d’anni.
Disturbi psichiatrici furono notati già nei combattenti della guerra di secessione americana, anche se era loro attribuita una base organica; nel primo conflitto mondiale questi disturbi mentali furono ricondotti a cause funzionali e furono chiamati “shock da bomba”. Per effetto delle teorie psicoanalitiche che cominciavano allora a diffondersi fu introdotto il termine di nevrosi traumatica, considerata il risultato della riattivazione di conflitti preesistenti, non risolti.
L’esperienza della seconda guerra mondiale portò gli psichiatri americani a definire nel loro primo manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali del 1952 (DSM_I) la nevrosi da stress. Fu grazie agli studi sui veterani del Vietnam, la cui riabilitazione e terapia costituirono un grave problema sanitario e sociale, che nel nuovo manuale DSM-III, fu coniato il termine di disturbo post-traumatico da stress. Le cause principali furono identificate nella combinazione di fattori estremamente logoranti presenti sul campo di battaglia, nel collasso delle strutture di comando e nella mancanza di coesione delle truppe sotto l’effetto del panico.
Il soldato impegnato in operazioni di combattimento è sottoposto a privazioni estreme che mettono a dura prova i suoi meccanismi psicologici di difesa e le risorse fisiche utilizzabili per far fronte alle situazioni di crisi.
Fattori collaterali come la disidratazione, frequente in regioni con climi torridi, la mancanza di sonno, l’alimentazione inadeguata, la mancanza di comunicazioni, la solitudine e la lontananza dagli affetti possono contribuire significativamente a indebolire la difesa contro la principale minaccia, costituita dal timore di perdere la vita.
Nel caso della guerra dei Sei Giorni il numero delle perdite israeliane fu assai limitato, attorno all’uno per cento, grazie alle condizioni ottimali in cui i soldati si trovarono a combattere. Le truppe erano addestrate con cura e i militari avevano nelle proprie unità gli stessi compagni con i quali si erano addestrati.
Al contrario nella guerra dello Yom Kippur nell’ottobre 1973 scoppiò all’improvviso trovando le truppe israeliane impreparate. Ciò ebbe gravi effetti sul morale tanto che secondo alcune statistiche le perdite dovute a motivi psichiatrici raggiunsero nei primi giorni addirittura il sessanta per cento. Durante l’aggressione israeliana del Libano del 1982 l’esercito israeliano soffrì di un numero di perdite quasi trascurabili per cause psichiatriche nei primi giorni mentre quando iniziò l’avanzata per Beirut, non condivisa da tutti i combattenti, queste aumentarono drasticamente.
Per permettere ai soldati americani durante il conflitto vietnamita di superare il trauma del combattimento sarebbe stata distribuita, quanto a livello sperimentale, una fantomatica “pillola del coraggio”. Mancano notizie attendibili in proposito, anche se nei racconti dei reduci è conservata l’espressione gergale “fare John Wayne” per indicare comportamenti di esagerato sprezzo del pericolo da parte di soldati dopati.
Anche in tempi recenti sono stati segnalati episodi di utilizzo di sostanze stupefacenti in operazioni di combattimento.
È interessante ricordare come alcune fonti di stampa ecuadoriane abbiano più volte accusato le truppe peruviane di far uso di droghe nel corso dei combattimenti sul confine amazzonico. Nel conflitto somalo degli anni ’90 le varie fazioni facevano uso del khat, una sostanza vegetale con effetti simili alle anfetamine molto diffusa nell’Africa orientale e in numerosi paesi arabi. L’uso di alcolici e stupefacenti è infine molto diffuso fra le truppe nel conflitto nell’ex Jugoslavia; fra tutti il più usato sarebbe un farmaco chiamato Apaurin, in grado di ridurre l’ansia prima del combattimento.
Durante la guerra del Golfo il corpo di spedizione francese avrebbe avuto in dotazione 14.000 confezioni di Madafinil un farmaco eccitante, diffuso con il norme di Virgil, da usare come una sorta di pillola del coraggio.


Le guerre di un “futuro” che è in realtà un tragico presente.
Dalla fine della seconda guerra mondiale si sono susseguiti almeno un centinaio di conflitti armati, più di ottanta sono stati classificati come conflitti a bassa intensità, anche se questo termine comprende genocidi di proporzioni enormi come le guerre tra Biafra e Nigeria e gli scontri in Ruanda.
L’enfasi posta dall’ONU sulle missioni di “peace keeping” ha ottenuto scarsi risultati, e ha provocato delle forti resistenze tra molti strateghi americani, secondo cui i soldati dovrebbero lasciare le caserme solo per proteggere “l’interesse nazionale” da minacce definite. In un articolo del 1992 del colonnello Charles Dunlap dell’U.S. Army, che fu premiato dall’allora capo di stato maggiore, generale Colin Powell, come migliore saggio militare dell’anno, si afferma che impegnare l’esercito americano in “operazioni umanitarie” sotto l’egida dell’ONU avrebbe trasformato le forze armate in una sorte di boy-scout, incapaci di adempiere la loro unica missione: distruggere il nemico e vincere le guerre.
Secondo Martin Libicki della National Defense University, la tecnologia sofisticata che ha permesso la vittoria americana nella guerra contro l’Iraq del 1991, poteva dimostrarsi inadeguata in situazioni di caos (come si dimostrò in una Mogadiscio degli anni ’90) e la disparità tra la concezione della guerra come massima espressione della tecnologia e la realtà dei conflitti locali combattuti con armi giudicate obsolete, ma non per questo meno distruttive, resta insanabile.
A proposito può essere interessante una citazione del filosofo indiano Osho Raineesh: “Quando una società giunge al suo culmine non può combattere. Le società più raffinate vengono sempre calpestate e sconfitte da società minori… Quando una società è ricca e opulenta non combatte più”.
L’addestramento degli eserciti imperialisti occidentali è basato sostanzialmente su due contrapposte filosofie. Da un lato utilizza un approccio estremamente disumanizzante, in cui il civile appena giunto al reparto è ricostruito con un’immagine stereotipata e specifica, eliminando la sua individualità. Esempi di questa tecnica sono il corso di addestramento della P Company della brigata paracadutisti del Critish Armyt, dei paracadutisti francesi, dei paracadutisti e dei marines dell’esercito americano.
L’altro sistema è ispirato alle teorie di Kurth Halm, la cui base è il concetto che il singolo individuo non deve essere massificato o costretto, ma deve essere posto in un ambiente controllato e progettato per fare emergere in ciascuno gli aspetti più responsabili del carattere e lo spirito di gruppo. Secondo alcuni questo genere di autodisciplina, ispirata al concetto di “disciplina accettata” della tradizione cavalleresca, non può funzionare in condizioni estrema che richiede il massimo controllo sulle truppe e l’obbedienza automatica agli ordini.
Fra le tecniche di condizionamento psicologico sperimentale negli ultimi anni delle forze armate statunitensi un posto di rilievo spetta alla Programmazione Neurolinguistica. I suoi presupposti sono fondati sulla possibilità d’influenzare durevolmente il comportamento di un soggetto modificandone la percezione della realtà attraverso il linguaggio. Fra i vantaggi di questa tecnica, oltre alla facilità d’apprendimento che ne rende l’applicazione standardizzata in tempi brevi a un grande numero di persone, va ricordata la possibilità del soggetto trattato di designare lui stesso la meta auspicata. Presupposto teorico della PNL è la possibilità di agire attraverso tecniche come la visualizzazione d’immagini mentali, modificando i processi sensoriali, che organizzano e mantengono un comportamento, senza esaminare il contenuto emozionale o le dinamiche esistenti come invece avverrebbe con una tecnica psicodinamica tradizionale, ad esempio con quelle di derivazione psicoanalitica.
È stata comunicata notizia di programmi più sinistri, volti ad addestrare individui ad agire come killer, selezionando di preferenza militari con precedenti penali per reati violenti. Queste tecniche tenderebbero a desensibilizzare, mediante uso di filmati con scene particolarmente raccapriccianti, i soggetti trattati, rendendoli indifferenti verso la sofferenza altrui e pronti a uccidere senza esitazione.
Le strade percorse per ottenere il controllo delle proprie truppe e influenzare negativamente il nemico sfiorano il campo della fantascienza. Già nel 1985 nel libro The mind race di Keith Harary e Russel Targ della Stanford Research Institute, vennero per la prima volta ufficialmente esposti al pubblico i risultati di esperienze parapsicologiche in campo militare. In particolare erano state eseguite ricerche per la comunicazione telepatica tra personale a terra e altro imbarcato a bordo di sottomarini nucleari. Anche nell’Unione Sovietica furono eseguiti degli studi e ricerche nel campo della percezione extrasensoriale e sulle applicazioni pratiche in campo medico, educazionale, e per obiettivi politici.
Per vent’anni i servizi segreti statunitensi hanno impiegato medium con il programma Stargate per studiare l’efficacia dei fenomeni parapsicologici. I sensitivi statunitensi, ospitati nella base di Fort Meade nel Maryland, avrebbero tentato di localizzare il nascondiglio di Gheddafi prima del bombardamento di Tripoli nel 1986, o ancora di individuare gli ostaggi americani in Iran.
L’ultima e più agghiacciante delle iniziative in questo campo è che nel 2008 il Dipartimento della “Difesa” USA ha ufficializzato (sicuramente aveva cominciato prima in gran segreto) le ricerche sulla tecnologia Rfid e sulla modalità d’impiego nelle Forze Armate.
Tutto ciò ci riporta all’antico e perenne desiderio di tutte le classi dominanti di dominare con ogni mezzo l’essere umano e la natura con tutti i mezzi a disposizione, sono cambiati i mezzi e nel corso dei secoli dai rituali sacri degli sciamani si è giunti agli esasperati sviluppi dell’alta tecnologia ma il fine non è mutato.
Una considerazione finale: ogni classe dominante fa la guerra a suo modo, diceva Mao a proposito: “Non dobbiamo assolutamente perdere un’altra mossa di fronte al nemico, dobbiamo sfruttare a fondo questa mossa, la mossa, la mobilitazione politica, per trarne vantaggio.
Questa mossa è cruciale; è, infatti, di primaria importanza mentre la nostra inferiorità in armi e in altre cose è solo secondaria. La mobilitazione del vasto mare nel quale annegherà il nemico, creerà le condizioni che suppliranno alla nostra inferiorità in armi e in altre cose, e creerà i requisiti per superare ogni difficoltà. Per conquistare la vittoria, dobbiamo perseverare nella guerra di resistenza, nel fronte unito e nella guerra di lunga durata.
Ma tutto questo è inseparabile dalla mobilitazione della popolazione. Desiderare la vittoria è trascurare la mobilitazione politica è come “desiderare di andare a nord dirigendo il carro a sud”, e il risultato sarebbe inevitabilmente quello di essere privati della vittoria.Che cosa è la mobilitazione politica? Primo, significa dire al popolo ed all’esercito quale è lo scopo politico della guerra. E’ necessario che ogni soldato ed ogni civile capisca perché la guerra deve essere combattuta e quanto la guerra lo riguarda” (Mao Tse-Tung, Sulla guerra di lunga durata, maggio 1938).











mercoledì 1 gennaio 2014

Salawaku

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Il salawaku è uno scudo tradizionale indonesiano, originario delle Isole Molucche. La denominazione salawaku è tipica delle lingue tidore e pagu, mentre in galela è detto ma dadatoko, salwake, saluwaku o salawako, in loloda è chiamato salewaku-mu, in madole hawau-mu, in buru emuli e in tobelo o dadatoko.

Descrizione
Il salawaku è un lungo scudo in legno la cui forma ricorda quella di una clessidra ed è interamente intagliato da un unico pezzo di legno, compreso il manico. La parte superiore e quella inferiore sono più larghe, mentre la parte centrale è più stretta. La superficie esterna è convessa, e può essere arrotondata o a forma di "V", con la parte centrale leggermente prominente. Lo scudo è inoltre leggermente curvato anche verticalmente. Nella parte posteriore è presente un'alta nervatura verticale lunga quanto l'intero scudo; nella parte centrale essa diventa l'impugnatura. Lo scudo è dipinto di nero con fuliggine e succhi vegetali ed è intarsiato con madreperla e frammenti di terracotta, e può essere ornato con simboli kakean (usati da società segrete) o altri ornamenti.

Cultura
Lo scudo rappresenta un corpo umano e le decorazioni corrispondono a certe parti; la parte superiore simboleggia la testa, quella inferiore le gambe. La nervatura posteriore rappresenta la spina dorsale e, appena al di sotto dell'impugnatura, la laringe. Gli intarsi simboleggiano gli occhi, e il loro numero varia a seconda del numero di nemici uccisi dagli antenati. Il salawaku è anche parte dei doni di matrimonio dello sposo, e viene usato nel cakalele, una danza di guerra, o nell'hoyla, una danza praticata durante i matrimoni tradizionali dai Tobeloresi. Durante il cakalele, il salawaku viene portato con la mano sinistra mentre nella destra i danzatori stringono una lancia o una spada, come anche nella hasa, un'altra danza rituale praticata solo da uomini, che in questo caso portano nella mano destra una sorta di machete in legno detto barakas.

Impiego
Il termine salawaku significa "protezione" o "repellenza" in riferimento al potere soprannaturale esercitato dagli antenati, o anche "mancare e prendere". Quest'espressione designa una tecnica con cui il difensore disarma l'avversario dopo che la sua arma si è piantata nello scudo. Il salawaku non è solo un'arma difensiva, ma grazie alla sua peculiare forma stretta e allungata può essere facilmente usato per infliggere colpi con i bordi affilati e con gli angoli. Lo scudo deve essere lungo meno di due braccia per evitare che l'estremità vada a colpire il mento di chi lo utilizza e per evitare che delle lacrime possano cadervi, poiché secondo la tradizione coraggio e tristezza devono rimanere separati.




martedì 5 novembre 2013

Cosa rende il Krav Maga così brutale?

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Bisognerebbe capire che cos'è il Krav Maga.
Non essendo codificata, come le arti marziali tradizionali, ognuno mette in mezzo tutto quello che vuole e lo spaccia per Krav Maga, come 35 anni fa, facevano con il Kung fu.
Sorgevano come funghi maestri di kung fu, che si erano inventati 4 balletti e li spacciavano per forme di stili inesistenti.
Oggil 99,9999999999999999999999999% degli istruttori di krav maga sono dei pagliacci.
L' allenamento sembra brutale, perchè si fa con un compagno che naturalmente ti asseconda
Guardiamo anche su Youtube i video, hanno tutti una caratteristica comune: gli aggressori sono molto tranquilli, calmi, si avvicinano lenti, portano un attacco solo e si beccano la reazione, cadendo a terra o lasciandosi torcere il collo, braccia, ecc…
Se parliamo di strada, non è così.
Il tuo contendente ti arriva contro urlando come una furia, cerca di accorciare subito la distanza, ti spintona a tutta forza per sbilanciarti, parte con una serie di colpi con tutta la sua potenza, perchè non è un match sulle 12 riprese, dove deve risparmiare fiato, lui vuole tirarti giù subito.
Quando il primo pugno ti arriva, lui sta giù partendo con il secondo, non ti lascia lì il braccio per fargli la leva.
Io insegno difesa personale femminile, protezione per v.i.p. E per ragazze che dovranno fare da baby sitter a bambinidi famiglie ricche e quindi ad alto rischio, ecc…
Un pugno di una ragazza non ferma un uomo che la attacca furibondo, magari ubriaco, drogato, strapieno di adrenalina, potrebbe persino avere un addestramento che di primo acchito non si sarebbe sospettato.
Un panzone di 110 kg che ti carica, non lo tiri giù con una ginocchiata nella trippa.
Oggi arrivano stranieri da tutto il mondo.
Molti di loro si sono fatti 20 anni nell' esercito, non credere di fargli paura se ti metti nella guardia di Bruce Lee.
Io vendo giocattoli, una mia passione.
Un giorno avevo un fucile giocattolo anni '70, molto realistico, appena preso da un amico, passo davanti al supermercato, saluto il nigeriano che chiede la carità, parliamo sempre.
Mi chiede di vedere il fucile, lo prende in mano, toglie e rimette la sicura, lo apre per il caricamento.
Ci ha messo pochi secondi, non è una cosa immediata.
Quello sapeva esattamente dove toccare, come aprirlo… se non hai mai visto un fucile, ci metti un po' a capire.
Quel tizio è unsoldato, si vede da come lo impugna, lo maneggia, è uno che ha esperienza.
Era un giocattolo certo, ma i meccanismi sono uguali all'arma vera.
Il krav maga, quindi, è brutale nei video, poi bisogna vedere chi lo pratica, che cosa si è imparato.
30 anni fa, Jean Luc Magneron lo insegnava ai paracadutisti e lo si chiamava close combat, 30 anni fa i SEALS lo chiamavano kokkar…
Non è la tecnica ad essere brutale, può esserlo l'applicazione.
Lo studio della tecnica deve tenere conto delle caratteristiche fisiche dell' allievo.
L'applicazione deve considerare anche quelle dell'avversario.
Quando guardiamo i video su Youtube, solo degli italiani, perchè all'estero non è così, ognuno pensa solo a criticare gli altri.
Le mie tecniche sono le uniche che funzionano, io ho fatto questo, io ho fatto quello…. per strada è così, per strada è cosà… qui non puoi far niente, lì non puoi far niente… scappa, corri… come se l'altro ti lascia andare via e non ti insegue.
Se io sono stato incaricato di liquidare uno, può scappare anche in questura, io lo inseguo e lo finisco… ed è così che ragiona chi ti attacca, non credere che ti lasci scappare.
Io insegno a ragazze, che domani saranno mamme, che accompagnano a scuola o all' asilo figli di altre persone.
Sei con un bambino e ti aggrediscono: non puoi scappare, devi fare solo una cosa, hai un unico dovere: vincere ad ogni costo!
"Quando la situazione è gravissima, quando la vostra vita è in pericolo, lottate con la ferocia della tigre che protegge i cuccioli!".



lunedì 4 novembre 2013

LaMotta – Robinson: Il Massacro di San Valentino

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Nel giorno della Festa degli innamorati del lontano 1951, sul ring del Chicago Stadium due pugili si scambiarono tutto tranne che tenere effusioni. Quel giorno, infatti, Ray Sugar Robinson e Jake LaMotta diedero vita a uno degli incontri più cruenti della storia, non a caso ricordato come il “Massacro di San Valentino”. Riviviamo quella serata incredibile.
Il 14 febbraio del 1951, nel giorno degli innamorati, non ci fu amore tra pesi medi sul ring approntato all’interno del Chicago Stadium. Ray Sugar Robinson di Detroit e Jake LaMotta di New York si incontravano per la sesta volta; il bilancio sorrideva al grande boxeur di colore, impostosi in quattro occasioni su cinque, ma era l’italoamericano ad avere in mano il titolo, che difendeva per la terza volta. Sul piatto c’era lo straordinario record di Robinson, in quel momento 122 vittorie contro una sola sconfitta; quell’odiata, unica sconfitta patita proprio dal Toro del Bronx, otto anni prima, peraltro vendicata in un re-match di sole tre settimane più tardi.


Dopo tanti incontri tra loro, il più grande pugile di tutti i tempi sapeva quali fossero i difetti del fighter newyorchese: conosceva il lento ingresso nel match da parte di LaMotta e sapeva di dover imporre un ritmo forsennato nei primi tre round, in maniera tale da accumulare vantaggio in punti e costringere “Toro Scatenato” alla rincorsa. La volontà di Jake LaMotta, però, trascendeva i calcoli accurati, i pugni devastanti, le ferite più profonde. Ray Robinson, dall’alto della sua immensa classe, lo investì con la furia del diretto sinistro e del montante destro, cambiando spesso le basi, in maniera da aggirare la guardia statica di Jake. Le gambe di LaMotta non si piegarono nemmeno per un instante.
Nel quarto round, dopo un’infinita serie di Sugar Ray, Jake rispose dalle corde con un secco gancio sinistro. Le gambe di Ray tremarono ed il pubblico si zittì per la sorpresa: LaMotta pareva tornato dal mondo dei morti, a cui sembrava esser andato in visita nei primi round. Nella quinta ripresa, La Motta tentò di ripetersi, ma Sugar aveva preso le misure e lasciò sfilare il gancio di Jake, per riprendere nuovamente a tamburellare la testa ed il costato dell’avversario. Nei piani di LaMotta vi era l’attesa che il match scendesse ad un ritmo blando, a lui più congeniale; fino al settimo era sicuro di aver vinto, o quantomeno pareggiato, un paio di round, quindi contava di far suo l’incontro dominando il finale, secondo sua caratteristica. Sugar Ray Robinson, però, non abbassò il ritmo: lo incrementò!

I round successivi si trasformarono in un’infinita punizione: LaMotta incassava, Sugar Ray picchiava con violenza inaudita non avendo più bisogno di difendersi, perché i guantoni di Jake erano alti a difesa della testa ed i gomiti attaccati al corpo a protezione della figura. Il campione non portava più colpi e Robinson lo stava tempestando di jab taglienti e poderosi uppercut. Ma Jake LaMotta, all’anagrafe Giacobbe, non cedeva; le sue gambe non si piegavano. Quando Robinson prendeva fiato, lui alzava la testa sanguinante, lo guardava attraverso gli occhi gonfi e lo sfidava col suo infinito orgoglio. Alla fine del decimo round, molti dei quindicimila presenti invocavano l’intervento dell’arbitro Frank Sykora, affinché ponesse termine ad una tale punizione; non era, però, una soluzione così immediata, dato che LaMotta era il campione in carica ed il suo angolo non mostrava segno di volerla finire.




All’undicesimo round, un colpo nella nebbia di LaMotta scosse Robinson; il Toro del Bronx diede segno di avvedersene e si lanciò sull’avversario alla sua maniera, con un nugolo di colpi che, però, Robinson incassò con la grande classe in lui innata. Poi ricominciò l’opera di demolizione. Alla campana del dodicesimo round, LaMotta si avviò all’angolo ormai incapace di vedere e di sentire. Dirà, nell’intervista successiva al match, che il forte dolore l’aveva sentito alla quinta ed alla sesta, ma poi gli sembrava di essere uscito dalla tempesta. Ma non era così. Al contrario, i colpi erano aumentati e si erano fatti più precisi. Due minuti e quattro secondi dall’inizio della tredicesima ripresa, il ring coperto del sangue di un ormai irriconoscibile LaMotta convinse l’arbitro Sykora dell’averne abbastanza di quella mattanza, che alzò il braccio al nuovo campione mondiale dei pesi medi. LaMotta fu condotto all’angolo e poi immediatamente negli spogliatoi, dove sarebbe rimasto attaccato all’ossigeno per oltre un’ora e mezza; prima che superasse le corde, però, uno stanchissimo Robinson riuscì a regalargli un sincero abbraccio. Sapeva che quella era la fine della loro epica serie di battaglie e che lui aveva vinto la guerra, ciò nondimeno non volle privare il suo grande avversario dell’onore che si era meritato. Dirà poche ore più tardi: “Credevo non avrebbe finito la ripresa già alla sesta, ma più lo picchiavo, più sembrava determinato a rimanere in piedi! Non capisco di cosa sia fatto: gli ho rifilato i colpi più duri della mia carriera ed era ancora lì“.




Il sesto match tra Jake LaMotta e Sugar Ray Robinson, subito ribattezzato “il massacro di San Valentino” lasciò anche molti strascichi polemici, a causa dell’indubbia violenza di alcuni passaggi, soprattutto nelle ultime riprese. The Indianapolis News descrisse l’incontro come “un crimine nel nome dello sport, un malato tributo alla brutalità”. Ognuno deve essere libero di dire la propria opinione, che va rispettata fino in fondo. Il pugilato non è uno sport che favorisca gli incontri impari; nella sua stessa filosofia è un combattimento con precise regole tra uomini disposti allo scontro, dello stesso peso e di similare abilità. Il “massacro di San Valentino” fu un match all’apparenza poco equilibrato ma io, personalmente, lo vedo come un confronto tra la magistrale abilità di Robinson e l’insondabile determinazione di LaMotta. A me mancavano vent’anni per nascere, alla maggioranza dei lettori di questo mio articolo parecchi di più: eppure, è un fatto che noi si sia ancora qui a parlarne e discuterne. Questa è la magia del pugilato, la più controversa disciplina sportiva, ma di gran lunga la più affascinante del pianeta.  
 

Sugar Ray Robinson e Jake LaMotta avevano entrambi trent’anni. Considerato, dai più, il miglior pugile pound for pound di tutti i tempi, Robinson è mancato ormai ventinove anni fa. La Motta, invece, dopo essere tornato a vivere nel suo vecchio quartiere, ha continuato ad essere il vecchio Jake, sempre pronto con parole pesanti per chiunque lo contraddicesse e, alla veneranda età di novantacinque anni, è sopravvissuto a tutti i suoi avversari, a molte ex mogli e, purtroppo, anche ad un paio dei suoi figli, prima di spegnersi il 19 Settembre 2017. Sulla scorta di quanto successo a Chicago, in quel lontano giorno di San Valentino, ed in molti altri frangenti della sua tumultuosa esistenza, mi pare chiaro che per mettere definitivamente al tappeto lo spirito indomabile di Giacobbe LaMotta, avrebbe dovuto scomodarsi il Signore in persona.  


domenica 3 novembre 2013

L'imbroglio dei Monaci Shaolin


Non possiamo fare a meno di evidenziare un grande imbroglio.... a cosa ci riferiamo?
Ai monaci "ufficiali" che insegnano lo shaolin in italia e nel mondo.... purtroppo nel variegato mondo delle arti marziali molti decidono che forse è meglio stare ai giochi ed accettare il compromesso... quindi si rassegnano a tecniche che non useranno mai in combattimento... a vedere la gente più interessata alle capriole che alle tecniche ed imparare cose diverse dal resto del mondo, sembra che ognuno abbia uno shaolin personale in quest'epoca moderna!
La cosa peggiore è l'informazione o è meglio chiamarla con il suo nome, disinformazione, tutti hanno la loro setta e nessuno mette niente in discussione...insomma si deve accettare la situazione attuale e portare pazienza....allora perchè questo post?
Leggiamo in giro quello che succede, non lo viviamo di persona, quindi leggiamo di mezze verità e di realtà che potrebbero dare tanto, ma che in fondo nel resto del mondo le cose non vanno meglio che nella nostra povera Italia.....
Saltuariamente balzano all'onore della cronaca notizie sui monaci shaolin o presunti tali... che i monaci o meglio l'abbate viene sorpreso dalla polizia cinese con una prostituta in macchina....che ha un figlio..che il marchio shaolin è registrato come se fosse il logo di una multinazionale... che il monaco che a roma insegna il kung fu di shaolin altro non è che una sorta di preparatore per ginnastica artistica..... in fondo per dirla volgarmente ci stanno prendendo in giro.... italiani che si spacciano per monaci shaolin, ma non si sa quale abbate li abbia autorizzati ad insegnare e a diffondere il vero shaolin..... cosa c'è di vero in tutto il movimento shaolin italiano?
Senza dare giudizi.....i commenti che si trovano su youtube circa le esibizioni non sono proprio lusinghieri....? Abbiamo visto gli esercizi che propongono e quello che vediamo da questi professionisti non ci impressiona minimamente....è questo il livello? Leggiamo pareri diamentralmente opposti, chi dice che con questi monaci si fa il salto di qualità chi dice che tanto non si imparerà mai il vero shaolin... altro punto dolente le federazioni...ma quante ce ne sono? quanti regolamenti diversi e contraddittori fra loro?
Allora cosa c'è di vero tra mito leggenda e business?
Di storie come quelle descritte più sopra se ne sentono a decine e decine, in tutte le loro varianti.
La cosa in comune in tutte le storie è che si tratta di cosidette arti marziali tradizionali, in particolare proprio quelle che sostengono di avere radici antichissime.
Per farla breve abbiamo sempre contestato queste cose:

- perchè a dei monaci, ovvero dei religiosi, dovrebbe interessare tanto insegnare agli occidentali una loro pratica? Per fare soldi? Va bene, non c'è niente di male in questo, ma allora in pratica è un business, e come ogni business che si rispetti, c'è chi lo organizza, ci vive e fa in modo che il salvadanaio continui a riempirsi, saremo blasfemi, ma questa è la realtà.

- Come mai allora sapendo il punto sopra molte persone si fanno abbindolare da storie basate su sacri insegnamenti, etica morale, antiche e nobili radici, etc.? Forse dovremmo accettare a priori che è tutto falso, solo un prodotto fatto per un certo target di occidentali creduloni, che cercano chissà cosa.

- perchè 1000 maestri diversi dichiarano di fare lo stesso stile, ma poi ognuno dice di fare l'unico originale per discendenza diretta nella genealogia, e magari è proprio diverso da tutti gli altri?
Nel mondo delle arti marziali se fai muay thai fai una cosa, è quantomeno molto simile in Thailandia come in Olanda, o in Italia, se fai bjj con alcune varianti è lo stesso in tutto il mondo, se fai boxe è la stessa ovunque... Forse stanno tutti raccontando delle fandonie? O non sanno veramente cosa stiano facendo.

- perchè in ogni comune italiano o giù di lì c'è, guardacaso, un maestro di arti marziali antiche, che non importa se cinesi o vietnamite ha avuto proprio la fortuna di conoscere il tal maestro famosissimo e rispettatissimo in patria? Forse a tutti piace raccontare di "essere qualcuno", soprattutto se puoi così sentirti darti un'aura di guerriero.

- perchè in queste cose nessuno si mette in discussione dimostrandole con i fatti (tecniche che funzionano fatte così come le studi) o con documenti reali (prove che dimostrino la storia, la tradizione, la discendenza, etc)? Vedi prima!

- chi mai dovrebbero essere, nel 2013, i monaci shaolin? Forse c'è un desiderio di costruire una figura "mitica" per sentirsi più autentici e veri, poi magari vai a vivere in cina per qualche anno e passa tutta la poesia perchè non è più qualcosa di esotico.

- perchè una forma non è la stessa in tutto il mondo, visto che tutti praticano la stessa disciplina?
Persino sulle singole tecniche c'è chi è stato capace di fondare un'intero nuovo stile, per poi vedere come si scanna con gli altri perchè ritiene di avere quelle che funzionano meglio, che sono più autentiche, etc. (un caso per tutti che rasenta il ridicolo è il wing chun, si è cambiata una lettera per poterlo chiamare in modo diverso, e poi invece che a 47° si mette il braccio a 45,8°, solo per dire che una tecnica è corretta, mentre un'altra è sbagliata)

- sui "monaci shaolin italiani" non ci esprimiamo più di tanto perchè non sappiamo chi siano.

- E chi ha mai detto che persone che ingaggiavano battaglia, in nome dell' imperatore o per la difesa del proprio tempio, avessero uno spirito marziale? Forse sono tutte speculazioni mentali, romantiche e politicamente corrette, inoltre NESSUNO SPORT AGONISTICO COMPETITIVO prevede questioni morali o religiose.
Lo si dice solo per avere una facciata di civiltà...

- Solo nel kung fu problemi di federazioni? No, no, in tutte le arti marziali e sport da combattimento. E' un business. Nelle arti marziali però lo si maschera bene puntando sulla moralità, siamo una grande famiglia, non lo si fa per soldi o per le cinture, etc.

La cina e i cinesi se la ridono di gusto perchè in giro per il mondo c'è gente che da più importanza alle loro tradizioni e personalità di quanto facciano loro stessi.
Già i cinesi si venderebbero la madre per farci soldi, figuriamoci da quando hanno imparato dagli americani a vendersi meglio...

sabato 2 novembre 2013

Sifu/Maestro?


Molti vanno in una palestra della propria città in cerca di un corso di arti marziali, qui vengono invitati a partecipare ad una lezione di prova, una volta lì ci si può trovare di fronte a degli insegnanti giovani (intorno ai 30 anni circa) tutti quanti maestri o sifu...?
E' credibile una cosa simile?
Da un lato ovviamente no, con i criteri ed i significati che c'erano una volta qui siamo proprio fuori da ogni contesto realistico!
Dall'altro, va compresa l'evoluzione del mondo marziale specie negli ultimi 4 decenni, che ha portato sempre più ad una personalizzazione della pratica marziale, personalizzazione che, certamente in parte ha rappresentato per molti la voglia di farsi un proprio seguito, ma in parte è anche figlia di certe esigenze, quali l'autosviluppo, una ricerca specifica, il ridimensionamento di certi grandi personaggi internazionali che spesso sono grandi solo quando c'è da incassare.
Basarsi solo sull'etá è comunque riduttivo. Molti insegnanti che abbiamo conosciuto non si fanno chiamare SiFu, nonostante pratichino da quando avevano 9 anni....
Poi, come consiglio personale, guardate di più il come e il cosa ti viene insegnato, non solo l'età...
Se poi avete l'opportunità di girare un pò il nostro consiglio è di guardare come si muovono:
con la bocca si possono raccontare un sacco di cose, ma il corpo non mente, lo si vede se uno si muove bene oppure no!
Il punto della questione è che di fronte ad un insegnante di scuola non ci si pone quasi mai la questione sul suo titolo maestro/a.
Parlando invece di arti marziali, nella nostra mente la parola maestro (shifu, sensei ecc.) si lega inevitabilmente al concetto di maestria.
E' come se l'insegnante di scuola sia lì perchè è il più abile di tutti nello scrivere i compiti alla lavagna. Oppure..è come se, nella sicurezza di imparare dal migliore, decidessi di andare da...Umberto Eco e Einstein.
Siamo sicuri che nonostante la loro preparazione siano le persone più adatte ad insegnarmi a scrivere bene nei quaderni a righe o a fare addizioni in colonna?
Si suppone (chiaramente con le dovute eccezioni) che l'insegnante sia lì non tanto per le sue eccezionali qualità personali ma per la sua attitudine all'insegnamento.
Chi si accinge ad iniziare il cammino marziale più che guardare esperti di arti marziali dovrebbe saper riconoscere un bravo insegnante e come in tutte le cose (medici, avvocati, meccanici, elettricisti ecc.) il titolo non sempre è sinonimo di qualità.
Non sempre la maestria vuole dire essere un buon insegnante e viceversa.
Una bella fortuna sarebbe trovare entrambi in una persona sola e che sia disponibile e paziente da insegnare a me povero principiante.
Non avendo criteri per valutare la preparazione dell'insegnante, vi consigliamo con molta serenità di parlare con i diretti interessati e porre loro quelle domande che vi aiuteranno a fare chiarezza.
Fate qualche lezione se potete oppure andate ad assistere.
Il buon senso e l'istinto vi dovrebbero poi guidare nella scelta.
E' la persona dell'insegnante, la sua onesta e attitudine che è importante non tanto la disciplina.





venerdì 1 novembre 2013

Guardia boxe

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Per praticare la boxe ed affrontare un incontro non basta colpire il sacco con i pugni e poi salire su di un ring.
E’ essenziale sapere come uscire vittorioso dal ring e ciò risulta possibile solo se si conosce come proteggere se stessi dagli attacchi dell'avversario.
Quindi l’apprendimento della guardia per la boxe è assolutamente indispensabile per tutti i fighter di questa disciplina.

La guardia della boxe destra

Importante nella posizione iniziale che deve essere perfetta, è avere i piedi paralleli gli uni agli altri in modo da essere in grado di spostarsi sia con la gamba destra che con la gamba sinistra durante gli attacchi dell’avversario.
Principio base è che il braccio alzato per la guardia deve coincidere con la gamba in avanti del fighter.
Da ricordare sempre, che le gambe devono essere leggermente piegate in modo da facilitare la difesa dagli attacchi dell'avversario.
E’ importante che il corpo non si trovi perfettamente in linea retta con quello dell’avversario ma che sia spostato di circa 2/3 dalla posizione frontale.
Per eseguire correttamente una guardia di boxe è bene conoscere anche quali sono i punti deboli che la guardia è in grado di proteggere.
La posizione corretta della guardia di boxe è la seguente: un braccio alzato con il pugno di fronte al livello del viso.
L’altro pugno indietro a metà del braccio che si trova in avanti in modo da proteggere le costole e gli addominali.
I gomiti devono essere in posizione di allerta, pronti per sferrare un eventuale attacco.
La sopra menzionata posizione è la normale guardia di boxe adottata da quasi tutti i fighter per difendersi dal proprio avversario.
Il perchè del braccio spostato verso il torace, è presto spiegato, è per proteggere una parte fondamentale e molto fragile del nostro corpo le costole, le quali formano la cassa toracica che proteggono l’organo vitale fondamentale del nostro corpo: il cuore.
Al livello dello stomaco non ci sono le costole a proteggere altri importanti organi quali il fegato ed i reni, l’unica loro protezione sono i muscoli che quindi devono essere allenati al massimo.
Ci sono numerosi attacchi che possono provocare dei seri danni al torace con la conseguenza della rottura di costole e nel peggiore dei casi con il danneggiamento degli organi interni.
E’ per questo che è assolutamente essenziale conoscere e saper eseguire correttamente la guardia della boxe, per prevenire questi seri danni fisici provocati dagli attacchi dell’avversario.
Quando venite sorpresi dall’altro fighter con un clinch ricordate che la guardia della boxe potrebbe esservi di grandissimo aiuto: con il braccio che si trova in avanti colpite l’avversario tenendo le braccia chiuse per proteggere il fegato ed i reni.

I giusti movimenti per la guardia della boxe

Nella boxe ogni parte del corpo del fighter deve essere in sincronia durante i movimenti.
  • Il busto inteso fino allo stomaco, è la parte del corpo che si trova in diretta competizione con l’avversario. Il fighter deve essere in grado di torcerlo in maniera da evitare i colpi dell’avversario o almeno da ridurli.



  • I piedi devono rimanere in armonia con il resto del corpo. Le punte devono essere posizionate leggermente verso l’interno. Anche le gambe devono essere parallele per l’equilibrio del fighter.



  • Le braccia devono essere sempre reattive e pronte a qualsiasi attacco.



  • Il mento è la parte più vulnerabile di un fighter di boxe. Quando attaccate il vostro avversario ricordatevi di abbassare la testa in modo da proteggere questo delicato punto.

Per un boxer gli spostamenti durante un contro possono essere suddivisi in 4 tipologie: spostamento frontale, laterale destro, laterale sinistro e spostamento all’indietro in base all’opportunità di attacco che si presenta in quel momento.
Ricordate sempre che in base agli spostamenti del vostro avversario dovrete essere in grado di spostare la vostra guardia nella maniera corretta in modo da contrastare i suoi attacchi.
La guardia deve proteggere tutti i vostri punti deboli, non lasciateli mai scoperti o perderete di certo l’incontro.
L’ultima cosa fondamentale da sapere è che ogni fighter, con l’aiuto del proprio maestro, deve avere piena fiducia nel suo stile di combattimento: salire sul ring con l’incertezza è la peggior cosa da fare.
Siate consapevoli delle vostre conoscenze, mettetele in pratica nel migliore dei modi e vincete il vostro incontro.