venerdì 14 dicembre 2018

Akihito

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Akihito (明仁 Akihito; Tokyo, 23 dicembre 1933) è il 125º imperatore (天皇 tennō) del Giappone dal 1989.
Il suo nome imperiale (nome del suo regno e che sarà usato come nome postumo) è Imperatore Heisei. Akihito è il primo figlio maschio (e quinto in totale) dell'imperatore Hirohito e dell'imperatrice Kōjun (Nagako). Secondo una delle interpretazioni della controversa Dichiarazione della natura umana dell'imperatore, promulgata dal padre Hirohito nel 1946, Akihito sarebbe il primo imperatore del Giappone a salire sul trono senza godere di prerogative divine.

Vita

Nominato principe Tsugu (継宮 Tsugu-no-miya) da bambino, venne educato da tutori privati e poi frequentò le scuole alla Gakushūin di Tokyo, scuola dedicata all'aristocrazia, dal 1940 al 1952. Venne separato dai suoi genitori all'età di 3 anni.
Durante i bombardamenti americani su Tokyo nel marzo 1945, lui e suo fratello minore, il principe Masahito (ora Principe Hitachi), furono messi al riparo in un luogo sicuro fuori Tokyo. Con l'occupazione americana del Giappone alla fine della seconda guerra mondiale, il principe venne istruito in inglese da Elizabeth Gray Vining. Studiò per poco tempo al Dipartimento di Scienze Politiche alla Università Gakushūin, senza tuttavia ricevere alcun titolo accademico. In seguito si è specializzato in ittiologia e ha pubblicato numerosi articoli sui pesci della famiglia Gobiidae.
Sebbene fosse l'erede al trono del crisantemo dalla nascita, la sua formale investitura come principe ereditario (立太子の礼 Rittaishi No Rei) si tenne al Palazzo Imperiale di Tokyo il 10 novembre del 1951.
Nel giugno 1953 il principe ereditario rappresentò il Giappone all'incoronazione di Elisabetta II d'Inghilterra. Il 10 aprile del 1959 sposò Michiko Shoda (nata il 24 ottobre 1934), la figlia maggiore di Hidesaburo Shoda, il presidente della Nisshin Flour Milling Company. Il matrimonio ruppe la tradizione precedente perché Michiko Shoda era la prima cittadina comune ad andare in sposa a un membro della famiglia imperiale.
Il Principe ascese al trono dopo la morte del padre avvenuta il 7 gennaio 1989, diventando ufficialmente il 125º monarca giapponese. La cerimonia ufficiale è poi avvenuta il 12 novembre del 1990.
L'imperatore e l'imperatrice hanno tre figli:
  • Sua Altezza Imperiale il Principe Naruhito, erede al trono del Giappone (n. 23 febbraio 1960);
  • Sua Altezza Imperiale il Principe Akishino (Fumihito, n. 11 novembre 1965, il cui titolo è Akishino-no-miya);
  • Sayako Kuroda, già Sua Altezza Imperiale la Principessa Sayako (il cui titolo era Nori-no-miya o Principessa Nori, n. 18 aprile 1969). Ha rinunciato ai titoli imperiali nel 2005, avendo sposato un non nobile.


Impegno politico

Dal momento della sua ascesa al trono l'Imperatore Akihito si è sforzato di avvicinare maggiormente la famiglia imperiale al popolo giapponese. L'Imperatore e l'Imperatrice hanno compiuto visite ufficiali in 18 paesi, così come nelle 47 prefetture del Giappone.
L'Imperatore, nei limiti della Costituzione del Giappone, si è spesso impegnato politicamente. Storiche le scuse nei confronti di Corea e Cina per i danni causati dall'occupazione giapponese o le numerose dichiarazioni di stima nei confronti della Corea. Il 23 dicembre 2001, durante il suo annuale incontro per il compleanno con i giornalisti, l'Imperatore, nel rispondere a una domanda, sottolineò d'aver provato una "certa affinità con la Corea", e spiegò questa sua sensazione come scaturente dal fatto che la madre dell'imperatore Kammu era coreana. L'imperatore chiosò che gli emigranti coreani in Giappone d'un tempo contribuirono a creare importanti aspetti della cultura e della tecnologia del paese, e fece monito ai suoi connazionali di non dimenticare mai la deplorevole circostanza per cui gli scambi con la Corea non erano mai stati molto amichevoli.
Nel giugno 2005, l'imperatore visitò il territorio statunitense di Saipan, sito di una delle più importanti battaglie della seconda guerra mondiale, che durò dal 15 giugno al 9 luglio 1944. Accompagnato dall'Imperatrice Michiko, si trattenne in preghiera e depose fiori presso molti memoriali, rendendo omaggio non solo ai caduti giapponesi, ma anche ai caduti americani, a quelli coreani costretti a combattere per il Giappone, e ai nativi dell'isola. Fu il primo viaggio di un monarca giapponese presso un campo di battaglia.
Il viaggio a Saipan fu accolto con fervore dai giapponesi, come le altre visite imperiali ai memoriali di guerra in Tokyo, Hiroshima, Nagasaki e Okinawa, nel 1995.
Nell'agosto 2016 comunicò implicitamente in un messaggio alla nazione la sua intenzione di abdicare in favore del figlio Naruhito[1], rivelando di temere che la propria età avanzata e il precario stato di salute possano pregiudicare la sua capacità di svolgere le mansioni ufficiali. Nel dicembre successivo annunciò che la data di abdicazione scelta è il 30 aprile 2019. L'ultimo imperatore giapponese che abdicò fu Kōkaku nel 1817.

Il sistema imperiale di massa

Per molti secoli e fino alla prima metà del Novecento, il sistema imperiale o tennosei (天皇制), cioè i membri della famiglia imperiale (in particolare l'imperatore), erano figure fortemente permeate di valori religiosi: la stessa persona dell'imperatore era considerata divina e posta su un livello politico-religioso altissimo, quasi ultraterreno. Molti storici hanno spesso sottolineato alcune caratteristiche dell'istituzione imperiale a partire dalla seconda parte dell'era Showa. Akihito è il sovrano che ha segnato anche da un punto di vista generazionale un netto avvicinamento dell'istituzione imperiale al popolo giapponese, partecipandone alla vita sociale e mettendo in gioco la sua figura istituzionale anche attraverso i media, da sempre interessati e attenti osservatori delle vicende della famiglia imperiale: questa nuova configurazione ha indotto molti a parlare di sistema imperiale di massa, vicino ai cittadini e partecipe della vita nazionale.

Etichetta imperiale

Akihito, come ogni imperatore del Giappone, non viene mai chiamato per nome, ma sempre come Sua Maestà Imperiale (Tennō Heika). La sua era porta il nome di Heisei (平成) (raggiungimento della pace); come di consueto, dopo la sua morte, ci si riferirà all'imperatore Akihito come imperatore Heisei (Heisei Tennō).

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giovedì 13 dicembre 2018

Shugendō

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Lo Shugendō (修験道 letteralmente "la via del potere spirituale mediante l’ascesi") è una forma di pratica religiosa che ha avuto origine durante il periodo Heian in Giappone. Si ritiene che lo Shugendō sia frutto dell'incontro tra gli antichi riti sciamanici shintoisti con le dottrine e i rituali del buddhismo esoterico, in cui è anche possibile ritrovare una componente taoista. I praticanti dello Shugendō, conosciuti come yamabushi (山伏), compiono pellegrinaggi da una vetta all’altra in sacre regioni montane.

Origini

L'origine dello Shugendō è incerta, ma pare che questa tradizione ascetica tragga origine dall’antico culto giapponese della montagna, luogo considerato sacro in quanto dimora di divinità agresti e di spiriti ancestrali. Era infatti credenza comune che gli eremiti e gli asceti acquisissero parte del potere sovrannaturale, attraverso rigorose pratiche di meditazione condotte in luoghi selvaggi.
Tra i precursori di queste pratiche meditative rientrano gli hijiri (), eremiti che praticavano l'ascesi in regioni montane, gli sciamani, figure capaci di mettersi in contatto con il mondo dei morti attraverso tecniche estatiche, e in generale tutti coloro che si ritiravano in solitudine in luoghi remoti per una ricerca del sacro.
Durante il periodo Heian, era comune che gli asceti si ritirassero in solitudine in zone di montagna. Tuttavia a partire dal X secolo, influenzati dallo spirito di compassione buddhista, gli yamabushi iniziarono ad organizzarsi in piccoli gruppi, e nei secoli successivi nacquero le prime comunità, ognuna delle quali aveva un proprio corpus di pratiche religiose e meditative.
Lo Shugendō non ha un fondatore, anche se una serie di leggende attribuiscono le origini di questa pratica religiosa alla figura semi-mitica dell’asceta En-no-gyōja (役行者), attivo nell'area di Nara fra il VII e l’VIII secolo. Nonostante sia citato in numerosi racconti, le informazioni storiche sul suo conto restano poco chiare. I testi letterari che ne fanno menzione sono vari e le informazioni riportate non sono fra loro coerenti. Prodotti in diverse epoche, probabilmente risentono delle diverse interpretazioni e dei cambiamenti storici e religiosi che hanno accompagnato lo Shugendō. Alcuni testi antichi dell'VIII secolo, come il Shoku Nihongi (続日本紀) e il Nihon Ryoiki (日本霊異 記), descrivono En-no-gyōja come un asceta dai poteri miracolosi che incarna al contempo gli aspetti mistici del taoismo e le pratiche ascetiche buddhiste; nel En no Gyōja honji (役行者本記), testo del XIV secolo, l'asceta viene invece presentato come un grande maestro del buddhismo esoterico e la sua figura risente di una forte divinizzazione.
Considerato infine che gli insegnamenti erano tramandati oralmente da maestro a discepolo, in un contesto di assoluta segretezza, resta difficile ricostruire le origini storiche e le pratiche ascetiche dei primi eremiti. Le informazioni finora disponibili, provenienti da frammenti contenuti negli engi (縁起), antichi testi che riportavano avvenimenti storici e riti di templi famosi, riguardano solo alcune comunità di yamabushi.

Sviluppo

L'evoluzione dello Shugendō fu strettamente legata all'assimilazione delle credenze religiose autoctone giapponesi agli insegnamenti buddhisti, resa possibile dalla presenza di praticanti seguaci sia dello Shingon che del Tendai, che permisero di incorporare nei rituali dello Shugendō alcuni elementi propri del Mikkyō. Con il termine Mikkyō ci si riferisce all'insieme degli insegnamenti del buddhismo esoterico introdotto in Giappone dalla Cina agli inizi del IX secolo. Già durante il periodo Nara, anche tra i praticanti del Mikkyō le aree di montagna erano viste come dei luoghi di meditazione: a ciò si può ricondurre una prima interazione tra le diverse tradizioni religiose.
Verso la fine del XII secolo, su montagne sacre già note, i seguaci dello Shugendō cominciarono ad organizzarsi spontaneamente in gruppi, dando così origine ad un movimento religioso più strutturato. Questi gruppi prevedevano la presenza di un maestro, attorno al quale si riunivano diversi discepoli che, attraverso un percorso iniziatico, entravano a conoscenza delle regole e delle pratiche ascetiche professate da quel particolare gruppo.
Il consolidamento della dottrina dello Shugendō e il suo incontro con quella buddhista indusse gli yamabushi a non cercare la propria salvezza individuale solo attraverso pellegrinaggi solitari, ma a volgere le loro conoscenze e pratiche rituali al servizio della gente, soprattutto per la salvezza dei contadini poveri. Le pratiche ascetiche degli yamabushi si diffusero così tra i villaggi giapponesi, e i loro poteri spirituali divennero particolarmente richiesti per l’allontanamento di influenze maligne, per la predizione del futuro e per la cura delle malattie. Vennero resi accessibili altri luoghi sacri, e la popolarità dello Shugendō divenne sempre maggiore.
Fin dalle sue origine lo Shugendō è sempre stato suddiviso in centri di culto minori distribuiti nei diversi templi locali, indipendenti e dotati di proprie tradizioni rituali. Le comunità più antiche e famose, tuttora esistenti, si trovano sulle montagne di Yoshino, Kumano, Fuji e Haguro.
Tuttavia in seguito alla sempre maggiore influenza del buddhismo esoterico, lo Shugendō diede avvio a un processo di divisione e ordinamento dei suoi rituali e delle sue istituzioni. Si possono distinguere due scuole principali dello Shugendō, formatesi già nel primo periodo Kamakura: la Honzanha (本山派), incentrata sulle montagne sacre di Kumano, associata al Tendai; la Tōzanha (東山派), sulle vette dell’area del monte Kinpu, associata allo Shingon.
Fino a quel momento le dottrine e i riti degli yamabushi erano rigorosamente segreti e venivano trasmessi oralmente da maestro a discepolo, a seconda del suo grado di iniziazione. Tuttavia a partire dal XVI secolo, influenzato dalla tradizione esoterica, lo Shugendō perse parte del suo rigore ascetico, abbandonando la sua immagine di credo inaccessibile e permettendo così una maggiore diffusione delle sue dottrine.
Durante il periodo Tokugawa gli yamabushi svolgevano un ruolo sempre più attivo nei villaggi, mettendosi al servizio della comunità: ricoprivano le funzioni di esorcisti e di guaritori, predicavano e officiavano i riti comunitari.
La fusione tra diverse pratiche religiose all'interno dello Shugendō rimase tale fino all'inizio del periodo Meiji, quando nel 1868 il nuovo governo, nel tentativo di ripristinare il culto autoctono shintoista come religione di Stato, ordinò una separazione degli elementi propriamente shintoisti da quelli buddhisti e, di conseguenza, bandì lo Shugendō. Solo al termine della Seconda guerra mondiale lo Shugendō riconquistò il suo stato di culto indipendente e riprese un ruolo attivo nella vita religiosa giapponese.
Ciò nonostante molti studiosi sottolineano come lo Shugendō moderno mantenga solo una minima somiglianza con la sua forma antica. La sua fase di massimo splendore fu durante il periodo Heian e Kamakura, quando i pellegrinaggi presso i monti sacri erano frequenti; a partire dal periodo Edo, lo Shugendō raggiunse una posizione di stallo e non mostrò grandi segni di crescita. È comunque certo che lo Shugendō contribuì fortemente allo sviluppo di diversi riti, ancora oggi praticati presso varie scuole e luoghi di culto.

Ruolo della montagna

Una delle caratteristiche peculiari dello Shugendō è la relazione instaurata tra uomo, divinità e natura, quest'ultima rappresentata dallo spazio sacro della montagna. Lo Shugendō può essere definito come una tradizione ascetica che ha fatto della montagna il fulcro della propria visione religiosa. La montagna viene solitamente chiamata con il termine di shide no yama (死出の山 letteralmente "il monte che conduce all’altro mondo"). Da sempre la tradizione giapponese ritiene questo spazio selvatico e inesplorato il luogo in cui dimorano le divinità, gli spiriti dei morti e dei mostri, una zona di confine tra i due mondi, quello terreno e quello ultraterreno. Mettendosi in cammino l'asceta lascia alle sue spalle il mondo degli uomini, giudicato corrotto e confuso, e compie un itinerario mistico di ascesa fisica della montagna, che simboleggia una progressione spirituale verso la conoscenza ultima.
Il viaggio dello yamabushi diventa una conversione, una morte cui segue una rinascita, ed è scandito in dieci fasi, dette i Dieci Regni dell'esistenza jikkaishugyō (十界修行), una dottrina di origine buddhista. Alle diverse fasi vengono associati diversi stati di esistenza. Partendo dal basso si attraversano in successione: gli stati infernali, il Regno degli spiriti famelici, il Regno degli animali, il Regno degli ashura (demoni), il Regno degli uomini, il Regno delle divinità, il mondo degli shōmon (coloro che hanno raggiunto l’illuminazione ascoltando direttamente le parole di Buddha), il mondo degli engaku (coloro che hanno raggiunto l’illuminazione con le proprie forze), il Regno dei bodhisattva, e infine il nirvāna.
Il termine Yama non definisce solo uno spazio fisico, ma diventa anche un simbolo di salvezza, in quanto il raggiungimento della cima coincide con l’ottenimento dell’illuminazione da parte dell’asceta che si è liberato dal mondo materiale e ha acquisito nuova coscienza e saggezza. È tuttavia compito dell'asceta rivelare la sacralità della montagna e trarne il potere spirituale: durante il periodo della sua iniziazione lo yamabushi si ritira in solitudine e, solo dopo aver intuito la sacralità di questo spazio, potrà uscire dalla montagna come uomo rinato a nuova vita.
Nel corso del tempo all'interno del Shugendō il concetto di sacralità della montagna subì un'evoluzione: la montagna venne considerata la proiezione concreta e terrena di un mandala, uno spazio sacro rappresentante simbolicamente l’universo. Allo yamabushi venivano trasmessi oralmente da un maestro alcuni insegnamenti iniziatici segreti che gli consentivano di interpretare il mandala: a mano a mano che risale le pendici della montagna, l’asceta compie pratiche meditative che lo portano ad identificarsi con le diverse figure del mandala e, ripercorrendo le dieci fasi della mente, può giungere alla conoscenza ultima.
Le scarse informazioni che si conoscono riguardo a questi insegnamenti segreti si devono ad alcuni testi scritti posteriori al XII secolo, conservati in segreto nelle diverse comunità di yamabushi. Per esempio nello Shozan engi (諸山縁起) di fine XII secolo viene affermato che i monti sacri di Yoshino e di Kumano erano proiezioni terrene dei mandala dello Shingon, rispettivamente il Taizōkai e il Kongōkai.

Monte Fuji e Shugendō

Il monte Fuji è forse una delle montagne sacre più importanti e più rappresentative del Giappone. Esso ha una sua tradizione mistica molto antica che precede la nascita dello Shugendō, con cui è entrato in contatto durante il periodo Heian. Da questo incontro ebbe avvio un processo di organizzazione dei diversi centri allora presenti all'interno della montagna, che diede origine a nuove pratiche ascetiche e meditative.
A partire dal X secolo erano aumentati gli asceti che compivano pellegrinaggi su numerose cime sacre, nelle quali venivano compiuti riti segreti e ardue pratiche ascetiche. Interessi di questi asceti erano anche quelli di diffondere i propri insegnamenti e fondare dei nuovi centri di culto. Nei testi antichi compare la figura di Matsudai, descritto come un asceta buddhista che scalò il monte Fuji e fondò i primi centri del Fuji Shugendō in vari templi ubicati nella zona di Murayama, nella parte inferiore del monte.
I centri dello Shugendō presso il monte Fuji, ma anche in altre aree sacre, si occupavano della costruzione di edifici monastici, dell'organizzazione interna delle istituzioni ecclesiastiche, della definizione di un sistema organico di riti, e della creazione di relazioni con i laici.
Lo Shugendō ebbe un ruolo importante nel diffondere le pratiche ascetiche sul monte Fuji; promosse inoltre una serie di riti di purificazione per coloro che non potevano compiere pellegrinaggi sul monte.

Honzanha

Lo Shugendō era praticato in diverse zone sacre del Giappone, ma la forma che ebbe maggiore influenza nel paese fu quella che si era sviluppata nella regione di Kumano, nell'attuale prefettura di Wakayama. Kumano è formato dai tre monti di Hongū (本宮), Shingū (新宮) e Nachi (那智), e per questo viene spesso chiamato con il nome di Kumano Sanzan (熊野三山 "le tre montagne di Kumano").
I centri di culto sorti nella regione di Kumano si espansero e, intorno al XIV secolo, il Kumano Shugendō passò sotto il controllo del tempio buddista di Kyōto Shōgo-in, associato al Tendai, prendendo così il nome di Honzanha.
La scuola Hozan considera l'asceta En-no-Gyoja il fondatore della setta, e il monaco Zōyo colui che diede nuovo impulso allo Shugendō.

Tōzanha

Durante il periodo Nara e Heian, tra le aree di Yoshino e di Kinpu era presente un complesso di trentasei templi e santuari, in cui gli yamabushi erano soliti recarsi in pellegrinaggio. La maggior parte di questi templi erano associati al buddhismo esoterico Shingon, e col tempo alcuni di questi templi raggiunsero una certa notorietà, diventando dei punti di riferimento per molti asceti. Questo permise allo Shugendō di entrare in contatto con gli insegnamenti Shingon, portando a una sua evoluzione e alla nascita della scuola Tōzan.
La scuola Tōzan, che raggiunse il suo apice durante il periodo Tokugawa, considera il monaco Shōbō colui che restaurò lo Shugendō con la fondazione del Daigo-ji nel IX secolo.

Haguro Shugendō

In prossimità del monte sacro di Haguro (羽黒山), situato nella parte nord-orientale del Giappone, si sviluppò un altro centro di culto dello Shugendō. In esso veniva praticata una serie di rituali divisi in quattro fasi, uno per stagione, chiamati mine ( "picco, cima di una montagna"), in riferimento a quei periodi dell'anno di attività religiosa in cui vengono compiute pratiche di meditazione, pellegrinaggio e isolamento. Essendo stati divisi in base alle stagioni, sono stati chiamati fuyu no mine (冬峰 "picco d'inverno"), haru no mine (春峰 "picco di primavera"), natsu no mine (夏峰 "picco d'estate") e aki no mine (秋峰 "picco d'autunno"). Durante il periodo Meiji questi rituali vennero aboliti; solo dopo la Seconda guerra mondiale venne ripristinato l'aki no mine, anche se in una forma semplificata rispetto alla sua struttura originaria.

Pratiche ascetiche

Ancora oggi le informazioni sui rituali e sulle pratiche ascetiche dello Shugendō sono scarse e imprecise, soprattutto a causa della loro trasmissione orale e della segretezza con cui le diverse comunità monastiche hanno conservato i loro culti. I rituali professati sono vari: possono includere pratiche divinatorie, esorcismi, formule magiche e preghiere, amuleti, e altro ancora. Solitamente il loro utilizzo è condizionato dalle necessità e dalle richieste della popolazione, confermando come lo Shugendō mantenga un forte legame con la gente comune, e sia stato soggetto a un continuo mutamento e rinnovamento nel corso della sua storia.
Dallo studio dei pochi documenti scritti a noi pervenuti e dall’osservazione di diverse importanti comunità di yamabushi si possono delineare una serie di pratiche e rituali tipiche.

Pratiche nella montagna

Tra le pratiche più note ci sono quelle che hanno come luogo di meditazione la montagna, conosciute con il nome di nyūbu shugyō (入峰修行 "entrare nella montagna"). Questa pratica può essere distinta in tre tipologie, che variano in base alla difficoltà e alla capacità di concentrazione richiesta all'asceta.
La prima è la più facile e accessibile; consiste nel compiere un pellegrinaggio presso una montagna sacra e lì officiare riti in onore di Buddha o di divinità che si ritiene dimorino in quei luoghi, offrendo fiori, leggendo o seppellendo sutra. Esempi di questa tipologia sono ancora oggi praticati presso le montagne sacre di Kumano dalla scuola Hozan e sul monte Haguro durante il natsu no mine.
A un livello più alto troviamo la seconda tipologia. Anche qui è previsto il ritiro su una montagna sacra, ma per un periodo di tempo più lungo. Durante questo periodo l'asceta, guidato da un maestro, coltiva diverse pratiche ascetiche e rituali, fino a ricevere il corpus degli insegnamenti segreti. In seguito a questa trasmissione, il discepolo può ricevere dal maestro lo shōkanjō (正灌頂), uno dei riti di consacrazione più importanti dello Shugendō. Si celebra così la rinascita del discepolo, che durante l'ascesi è riuscito a passare attraverso i Dieci regni dell'esistenza e raggiungere lo stato di bodhisattva. A questa seconda tipologia appartiene l'aki no mine, praticato presso la scuola Tōzan, Hozan e sul monte Haguro.
Vi era poi una terza tipologia che consiste in shugyō più ardui, sia per quanto riguarda la complessità delle pratiche, che la preparazione richiesta all'asceta. Solitamente l'asceta compiva il suo periodo di meditazione durante la stagione invernale. Fa parte di questa tipologia il fuyumine, pratica ascetica che richiede forte determinazione e concentrazione, in quanto prevede una serie di digiuni e di sessioni di purificazione sotto cascate di acqua gelata. Lo scopo principale di questa pratica meditativa era l'ottenimento di poteri spirituali.
Nel Giappone contemporaneo le pratiche del nyūbu si stanno via via riducendo e sono ormai quasi del tutto scomparsi i rituali ascetici più estremi.

Lo Shugendō oggi

Sul finire della Seconda guerra mondiale presso alcune importanti montagne sacre vennero riabilitati rituali dello Shugendō in precedenza vietati. Molti dei nuovi centri cambiarono i nomi assunti prima della Restaurazione Meiji e poterono essere registrati come gruppi religiosi riconosciuti. Tra questi si annoverano Shugenshū (修験宗), chiamato precedentemente Honzan-ha, Hagurosan e Ōminesan Shugenshū (大峰山修験宗) (presso il monte Ōmine, Nara).
Molti studiosi sottolineano come l'attuale Shugendō non sia che un’ombra di quello passato, sia per il calo dei praticanti e dei pellegrini che si recano presso i monti sacri, sia per la perdita e semplificazione di molti dei rituali. Attualmente nei diversi centri dello Shugendō sono in via di progressiva diminuzione gli insegnamenti segreti trasmessi ai discepoli e le iniziazioni praticate durante il nyūbu. Inoltre negli ultimi decenni si è assistito a un aumento della partecipazione di laici che compiono pellegrinaggi per i motivi più diversi.
Tuttavia ancora oggi sopravvivono alcune pratiche ascetiche, anche se con qualche differenza rispetto a quelle originali del periodo pre Meiji. Tra questi i più conosciuti sono l’Ōmine shugyō (大峰修行) e l’Aki no mine (秋峰), che si svolgono entrambi durante il mese di agosto. Il primo è un pellegrinaggio compiuto dagli yamabushi della Scuola Shōgoin di Kyōto, con partenza dal monte Yoshino e arrivo sul monte Kumano (passando attraverso il monte Ōmine). Questo tragitto è noto come pellegrinaggio di Yoshino-Kumano, che si snoda lungo la penisola di Kii e attraversa le settantacinque stazioni in cui, secondo le leggende, si ritirò l'asceta En-no-Gyoja, che sottomise alla sua volontà numerosi kami. Viaggiando attraverso questi luoghi compì riti esoterici, acquisendo poteri sovrannaturali e raggiungendo l'illuminazione.
Il secondo, l’aki no mine, viene praticato dagli yamabushi dell’Haguro Shugendō e rappresenta il rituale più importante di questa scuola. Consiste in un periodo di ritiro ascetico e nella salita rituale del monte Haguro. Anticamente durava 75 giorni, ma col passare del tempo il periodo di ritiro venne gradualmente ridotto andando verso una semplificazione e ha una durata di 10 giorni.


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martedì 11 dicembre 2018

Jōruri

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Jōruri è il teatro delle marionette giapponese. Insieme al Kyōgen, al Nō e al Kabuki è una delle quattro forme di teatro tradizionale giapponese. Gli spettacoli interpretati da marionette e accompagnati dal suono dello shamisen rappresentavano drammi classici come il Chushingura. Soppiantato per un certo periodo dal Kabuki, mantenne in seguito una sua autonomia come le altre forme teatrali giapponesi. Il Jōruri venne in seguito designato Bunraku dal nome di Uemura Bunrakuken (1737-1810) che rilanciò questa forma di rappresentazione ad Osaka, nell'ultimo decennio del XVIII secolo.


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lunedì 10 dicembre 2018

Gua sha

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Gua sha (in cinese 刮痧 e in pinyin guā shā; letteralmente in italiano: graffiare via la febbre) è una pratica appartenente alla medicina tradizionale cinese diffusa principalmente in Asia.
Il nome vietnamita di questa pratica è cạo gió, coniato da Shang Han Lun.
Consiste nella stimolazione cutanea di zone specifiche, eseguendo dei raschiamenti sull'epidermide, provocando la presenza di petecchie ("Sha" in cinese), che si disgregano nell'arco di alcuni giorni. Esistono anche alcune varianti di questa terapia.
A questa pratica è ispirato il film del 2001 The Treatment, con protagonista Tony Leung Ka-Fai e il cui titolo originale è appunto Gua sha. Sulla tecnica Arya Nielsen ha pubblicato il volume Gua Sha: A Traditional Technique for Modern Practice. Inoltre è stato fatto un video che mostra la messa in pratica del trattamento in un ospedale di Koetzting, in Germania.

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domenica 9 dicembre 2018

Kotoamatsukami

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Nello shintoismo giapponese, Kotoamatsukami (別天津神, che letteralmente significa "kami ultraterreno differenziato"), è il nome collettivo indicante i primi poteri che iniziarono ad esistere al tempo della creazione dell'universo. I Kotoamatsukami nacquero in Takamagahara, il mondo del "Paradiso" all'epoca della creazione; alcuni di questi Kotoamatsukami sono Amenominakanushi (Cielo), Takamimusubi (Alto Creatore), Kamimusubi (Divino Creatore), e di poco successivo Amenotokotachi (Paradiso).
Queste forze divennero in seguito dei e dee, i tenzai shoshin (kami ultraterreni):
  • Ame no minakanushi no kami;
  • Takami-musubi no ōkami;
  • Kamimusubi no ōkami;
  • Umashiashikabihikoji no kami;
  • Ame no Tokotachi no kami;
  • Kuni no Tokotachi no kami;
  • Toyokumono no kami;
  • Uhijini no mikoto;
  • Suhijini no kami;
  • Tsunokuhi no kami;
  • Ikukuhi no kami;
  • Ōtonoji no kami;
  • Ōtonobe no kami;
  • Omodaru no kami;
  • Kashikone no kami;
  • Izanagi no kami;
  • Izanami no kami;
  • Amaterasu ōmikami.


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sabato 8 dicembre 2018

Arteterapia

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L'arteterapia è un percorso di appoggio e/o cura di indirizzo psichico. Questo tipo di tecnica con risvolti terapeutici è nata attorno agli anni quaranta, e discende da esperienze di psicoterapia dinamica e da pratiche dedotte dall'applicazione della Psicoanalisi.
«L'esperienza estetica affonda dunque le sue radici nel vissuto primario, quando è la madre che dà forma e trasforma - seguendo Bollas - l'esperienza interna ed esterna del neonato, prendendosi cura di lui in modi specifici (lo sfama, lo lava, ecc.). Con la crescita questo potenziale trasformativo viene poi riposto in altri oggetti (oggetti-soggettivati) concreti o concettuali, investiti della capacità di promuovere un profondo cambiamento del Sé; l'esperienza artistica occupa in questo contesto un posto di primo piano.»

L'arteterapia ieri e oggi

Per la musicoterapia e la teatroterapia vi sono origini che risalgono all'antichità. All'epoca, le suddette arti o le loro espressioni più coinvolgenti trovavano applicazione nella cosiddetta "normalità". Un esempio fra i tanti è la struttura del teatro greco che con i suoi rituali, ritmi e coro costituiva un "appoggio arteterapeutico" di massa senza esser stato studiato a tavolino per questo scopo, così come certi canti militari strutturati in determinato modo servivano a togliere, o meglio lenire, la paura dei combattenti allorquando si lanciavano contro l'avversario. Fra i metodi utilizzati, quelli seguiti tramite il travisamento dei partecipanti, presso la nazione delle 5 tribù, erano correlati ad una "situazione teatralizzata". Di questi parla diffusamente Sigmund Freud nella prefazione delle prime edizioni del libro Totem e tabù. Il saggio infatti risente dell'influenza dei lavori dell'antropologo James George Frazer, il cui studio è una delle basi su cui si basa la ricerca riportata nel libro stesso. La tecnica citata di tipo "teatrale", considerata come anticipazione della metodica psicoanalitica, permetteva, anzi, invitava il combattente a convocare un "consiglio degli uomini", nel caso fosse turbato da ansie anche "incomprensibili". Tale consiglio ascoltava timori, fantasie e quant'altro il "guerriero" potesse pensare fossero per lui causa di turbamento e di stati angosciosi che avrebbero, oltretutto, messo a rischio, a causa della sua scarsa o nulla efficienza in determinate circostanze, la vita sociale. Tutti i membri del Consiglio erano tenuti al silenzio, in caso contrario sarebbero incorsi in un perpetuo ostracismo cioè all'allontanamento dalla comunità di colui che avesse infranto tale norma. Si tramanda che il guerriero dopo avere aperto il proprio animo al consesso, ne provasse gran giovamento.
Nei manicomi arabi sembra fossero applicate sedute di musicoterapia, mentre nel XIX secolo il dottor Philippe Pinel (1745-1826) e discepoli introdussero tale tecnica negli Istituti di cura europei per malattie psichiche. Ma è solo dal 1950 che l'arteterapia iniziò ad avere un suo peso nell'appoggio/cura di stati psichici disturbati divenendo terapia individuale per poi espandersi, laddove possibile, al gruppo, e orientandosi con maggior vigore verso metodi di espressione non verbale.
È utile ricordare che fino ad oggi l'arteterapia, in Italia, è stata utilizzata come tecnica riabilitativa e/o di sostegno con il fine di ridurre gli handicap psicofisici di miglioramento delle capacità relazionali e di inserimento di gruppo per personalità affette da patologia che va al di là della nevrosi: è stata applicata da professionisti esperti nei più diversi campi, che vanno dalla musica alla letteratura, non arrivando mai alla psicoterapia in senso stretto, per mancanza di istituzioni che selezionassero e formassero un arteterapeuta professionalmente, con specifiche ed istituzionalizzate nozioni di psicoterapia correlate alla loro applicazione col metodo dell'Arte. Attualmente cominciano a sorgere scuole di questo tipo.
È necessario sottolineare la mancanza di una figura che sappia riunire in modo coerente una solida formazione psichiatrica-psicoanalitica con spiccate ed affermate, anche se relative, si intende, qualità artistiche. In Gran Bretagna tali interventi sono impostati da uno psicoanalista e/o psichiatra, che oltre a possedere rilevanti attitudini artistiche, corredate con bagaglio teorico necessario alla sua cosiddetta "spersonalizzazione artistica", ha la capacità di elaborare in forma terapeutica quanto può assorbire dalla seduta di arteterapia di gruppo e/o di singolo. In tal modo si viene a riunire in un unico soggetto sia lo psicoanalista che il "maestro" artista. Va anche detto che la figura dell'arteterapeuta in Inghilterra si configura come specializzazione autonoma dopo gli studi in psichiatria e psicoanalisi. In Italia la situazione è profondamente differente.
Il luogo preposto all'applicazione della metodica arteterapeutica è generalmente un laboratorio avente in dotazione materiali a basso costo e possibilmente di vario tipo e provenienza. In casi particolari però l'applicazione nella scultura richiede un particolare settore del laboratorio con attrezzi e materiale ben specifici e talvolta costosi nonché misure di protezione e sicurezza. Per le espressioni corporee come gli esercizi ginnici e la danza, lo spazio a disposizione deve esser sicuro ed adeguato alla libertà di movimenti.
In ambito localistico genovese, l'azione iniziata da Claudio Costa con lo psichiatra Antonio Slavich, ex-collaboratore[5] di Franco Basaglia, coinvolse, con gli anni, un sempre maggior numero di artisti e professionisti, Miriam Cristaldi, critico d'arte, Gianfranco Vendemiati, attuale presidente dell'associazione IMFI e l'artista, psichiatra, Margherita Levo Rosenberg, che, a partire dal 1990, conduce i laboratori di arte terapia, coadiuvata da altri artisti che si sono succeduti nel tempo. Tra questi Cea Boggiano, Serena Olivari e Alfonso Gialdini. La terapia col mezzo pittorico ha dunque una lunga storia a Quarto mentre, col mezzo scultoreo, prese avvio solo successivamente. Dopo la morte di Costa, che a Quarto aveva soprattutto portato avanti un'azione di rottura culturale con l'istituzione stessa dell'Ospedale psichiatrico - non aveva infatti competenze specifiche per occuparsi di arteterapia in senso stretto - Margherita Levo Rosenberg, cui competeva già da anni la responsabilità operativa degli atelier di arte terapia, ha assunto anche il ruolo di riferimento culturale nell'ambito dell'IMFI.

Il gruppo di lavoro

L'artista

Figura centrale, anche se non indispensabile, dell'arteterapia. Può infatti bastare un buon terapeuta con competenze artistiche indirette a curare con il medium artistico. La premessa affinché l'artista possa garantire un solido contributo in interventi di tale genere è "l'annullamento" di parte della "personalità artistica" del "maestro", o per meglio dire di quei dati caratteriali spesso legati alla cosiddetta capacità artistica che non solo possono essere di peso, ma deleteri ed invalidanti (e in primis la tendenza egocentrica dell'artista).
Gli interventi, in tal caso potrebbero essere inutili o addirittura peggiorare la situazione psichica dei discenti (malati), quindi deve esser ben chiaro al "maestro" sia il perché vuole interagire con gruppi di persone che spesso la gente "normale" tende ad evitare, sia il modo con cui intenderà impostare tale interazione.
A questo scopo sono indispensabili una serie di colloqui propedeutici prima dell'inizio del corso con uno o più professionisti, ovvero psichiatri e psicoanalisti, anche a livello personale, se possibile.
Il maestro deve fare in modo che l'allievo possa autocorreggersi limitando al massimo gli interventi diretti su di lui e lasciandogli piena libertà di affrancarsi dai propri tormenti. Lo stesso discente, con l'aiuto discreto, non invadente, del maestro, dovrà col tempo trovare un suo equilibrio applicando a sé stesso una forma di autodisciplina, indotta discretamente, non imposta, dal maestro.
«..... ma nel contempo non investe il fruitore della sua opera con un fluire caotico di manifestazioni (quasi) dirette del proprio inconscio - il processo primario allo stato puro non è dato di percepirlo.....»
(– dice Luca Trabucco, psichiatra psicoanalista)
Importante è anche il momento del consenso, da parte del fruitore, dell'opera svolta e prodotta da questo particolare tipo di rapporto fra discente e maestro. Il momento della comprensione del lavoro svolto e la gratificazione che ne deriva per il discente generano in tal modo o potenziano la sua autostima.
Trabucco prosegue:
«Tendere al contenimento del sentimento rappresenta propriamente a mio avviso il nucleo dell'esperienza del "bello", dell'esperienza estetica. Il sentimento contenuto apre alla creazione in quanto non si ha a che fare solo con l'esperienza rimossa, cioè già in qualche modo vissuta, ma con la rivelazione di aree della mente che devono essere ancora simbolizzate (v. anche Magherini, 1992, 1997), che hanno a che fare con esperienze mentali che devono trovare ancora la loro pensabilità (Tagliacozzo, 1982).»
Quindi è necessario, sotto la guida dello psichiatra-artista, che il "maestro" organizzi (o collabori quantomeno con la sua assidua presenza), incontri e/o mostre dei lavori svolti. Compito specifico dello psichiatra-artista è fare in modo che l'autostima non sfoci nella megalomania da parte dei "discenti". Dovrà altresì prendere, nel contempo, visione per l'utilizzo terapeutico, del caos fuoriuscito dal lavoro del "discente". Compito comune fra "maestro" e psichiatra-artista è dimostrare al gruppo la sussistenza, fra di loro, di rapporti di amicizia e collaborazione nella fase organizzativa degli incontri col pubblico. È questa una dimostrazione ovvia ed indispensabile che deve aver luogo durante lo svolgimento del corso scultoreo.
Uno o due incontri col futuro gruppo di discenti, presente lo psichiatra-artista, che deve osservare e aver funzione di moderatore-mediatore, sono consigliabili prima dell'articolazione della struttura operativa del corso stesso onde poter raggiungere un grado di familiarizzazione soddisfacente all'interno del gruppo. Il "maestro" deve cimentarsi senza preparazione di soggetto, anche a richiesta dei futuri possibili discenti, su un blocco di gesso o cemento che ha preparato prima, tentando di attrarre l'attenzione sul futuro lavoro scultoreo in persone che la lunga degenza nell'ospedale psichiatrico può aver reso "spente" agli stimoli. Tale situazione con i relativi "rischi" di non riuscita (qui interverrà lo psichiatra-artista nella sua funzione di mediatore-moderatore), è molto importante per la formazione del futuro gruppo e per diffondere la credenza sulle possibilità terapeutiche di tali metodi di intervento poggiandosi sull'ambiente della comunità. È inoltre di grande utilità che il "maestro" in prima persona si occupi della preparazione, rinvenimento, aggiustamento, recupero, revisione degli attrezzi necessari per i quali è fondamentale la messa a punto e posizione idonea per poter interagire col gruppo di discenti. È necessaria anche la presenza di pesanti e robusti "cavaletti" ovvero di banconi da lavoro. In tale azione è coinvolta la comunità presente, non solo i futuri discenti, con l'aiuto fattivo e relazionale della comunità degli ausiliari più adeguati e pazienti verso un tipo di lavoro inusuale.
  • Ovvero il "maestro" deve mettere a disposizione la sua capacità tecnica empatica e di immaginazione, ponendosi sempre in secondo piano rispetto allo scopo preposto, che è l'appoggio terapeutico, ed alle indicazioni dello psichiatra-artista conduttore del gruppo, non escludendo il fatto che all'interno di esso vi possano essere dei veri artisti "in nuce". A questo proposito il cui caso più significativo fu quello di Davide Mansueto Raggio seguito personalmente da Claudio Costa, per riferirci solo all'ambito genovese. Certo non può esser fatta l'equivalenza "disturbato" = artista in nuce. Il "maestro" non opportunamente preparato rischia infatti un'oscillazione estremizzante fra i due aspetti suddetti a tutto discapito della riuscita degli obbiettivi del corso.



La figura dello psichiatra-artista

Pianta del Museattivo Claudio Costa, le parti colorate sono i giardini che circondano l'edificio. I cerchietti piccoli son numerati e son serviti indicativa di dove i lavori. I due tondi blu indicano il tavolo delle riunioni (quello più grande) nella "sala Musica", l'altro più in basso il portone interno di passaggio per il corridoio che portava al bar gestito dai pazienti, e, andando avanti, alla sala mostre utilizzata sia per i degenti sia per gli artisti professionisti) posizionata sulla sinistra, dalle quale sempre sulla sinistra si usciva nel "Giardino delle Sculture". Il secondo giardino più piccolo in basso è quello nel quale si tenevano i corsi di scultura mentre il "Giardino delle Sculture" con le opere permanentemente in mostra è rappresentato dalla fascia colorata al di sopra della mappa di interno uscendo dalla sala mostre. Adesso tutto il museo è spostato in uno degli edifici prospicienti al complesso terapeutico casa Michelini mentre il Giardino delle Sculture è stato riposizionato nei diversi giardini di tale complesso; nell'ampio spazio dentro l'edificio fra i primi due corridoi, visualizzati in basso nella mappa, era sistemato il laboratorio arterapeutico della psichiatra-artista Margherita Levo Rosenberg
Il coconduttore del gruppo assieme al "maestro" scultore deve essere inevitabilmente uno psichiatra, ovvero un esperto dei rapporti che dovranno instaurarsi con i vari discenti e che ne conosca la singolare storia. Lo psichiatra si occuperà della scelta del gruppo assieme al "maestro" dopo aver vagliato le capacità del "maestro scultore" che a sua volta vaglia il rapporto empatico che ha con lo psichiatra. Non vi possono essere disaccordi di fondo sulla gestione del gruppo, e la priorità di decisione l'ha lo psichiatra, ovviamente.
Molto spesso si occupa di questo settore uno psichiatra con forti tendenze artistiche, se non artista lui stesso, e non è escluso uno specialista assolutamente al di fuori sia delle problematiche che degli aspetti estetici. In tal caso potrebbe però essere meno agevole il già complesso rapporto empatico fra psichiatra e "maestro" scultore perché verrebbe a mancare una linea di interesse comune al di là del lavoro sul gruppo. Anche se gli stili prediletti da psichiatra e "maestro" possono essere diversi, la loro sensibilità ed esperienza devono comunque guidarli nella scelta ritenuta migliore per i discenti.
«Lo spazio, il luogo in cui viviamo o fantastichiamo di vivere, le strade, gli alberi, i giardini coi quali conserviamo una relazione, assumono nei nostri pensieri una tonalità affettiva, legata alle esperienze ed ai ricordi che in qualche modo vi sono legati.
Così come altri luoghi, anche i giardini dell'ex ospedale psichiatrico di Quarto, legati com'erano, nell'immaginario collettivo, alla realtà storica di emarginazione, circondati da un alone di mistificazione rispetto alla realtà del disagio psichico, vissuti come topoi [Τόποι] della follia e del degrado, abitati da gatti e scarafaggi, contaminati da malattie e malati, non hanno goduto di buona reputazione fino a pochi mesi or sono.»
lo spazio reinventato di Margherita Levo Rosenberg, conduttrice degli interventi con metodo scultoreo, e prosegue
«Ora, da qualche giorno, il "manicomio" è chiuso. Chiuso per sempre con le sue torri che sembravano inespugnabili, chiuse anche le ultime roccaforti della resistenza strenua di chi ha creduto, fino alla fine, nella cura della malattia come nella custodia di un segreto.»
È altresì indispensabile, durante il ciclo di incontri, tenere più o meno brevi riunioni con lo psichiatra-artista, che conduce il corso assieme al "maestro", subito prima e subito dopo ogni incontro. Subito prima, sia affinché lo/la psichiatra renda edotto il maestro delle sue deduzioni sull'incontro precedente sia per la tattica da seguire nell'imminente incontro che può variare a seconda dell'umore anche momentaneo dei "discenti" e della dinamica del gruppo. È anche utile, se non indispensabile, un corso comune fra maestro e psichiatra-artista supervisionato da un terzo psicologo, "direttore" del corso, ma non partecipante al corso. Quest'ultimo può al massimo effettuare rapide visite senza alcun intervento sul gruppo. Ovvero il tipico osservatore esterno, parafrasando il gergo usato nelle scienze fisico-matematiche. Il colloquio personale fra psichiatra-artista e maestro è necessario non solo per analizzare quanto fatto per progettare un successivo incontro ma anche per il "maestro" che se fortemente empatico (cosa utilissima per lo svolgimento del corso a condizione che non faccia trasparire in modo disturbante le emozioni), ha bisogno del supporto della Psichiatra-artista per elaborare il dolore "assorbito" dal gruppo dei malati e dall'ambiente. Più il corso va avanti, più questa fase diventa meno pesante per motivi di adeguamento da parte del "maestro" sia al gruppo che all'ambiente.

Gli ausiliari

Nelle prime fasi la presenza di ausiliari è dovuta a motivi di sicurezza e di intervento immediato vista la pericolosità degli attrezzi utilizzati nello specifico della scultura. L'esperienza dimostra comunque che pur con tensioni non ci son stati mai episodi che richiedessero un intervento diretto degli ausiliari, la cui presenza può essere sempre meno indispensabile e anche sparire del tutto se il corso ottiene buoni risultati. Da questo si deduce che anche il personale ausiliario dovrà avere un ottimo rapporto con i malati in questi tipi di interventi. Gli ausiliari possono "sparire" del tutto, ma la loro presenza è generalmente gradita e utile per aumentare il peso del rapporto empatico positivo di gruppo.
Le prime azioni che misero in contatto diretto i malati con strumenti utilizzabili come armi sotto il controllo di ausiliari specializzati in tale tipo di terapie di gruppo furono poste in atto dagli operatori psichiatrici di Pratozanino (ospedale psichiatrico di Cogoleto) che diedero vita con i malati a una comunità agricola. Tale intervento, pur non essendo "arteterapico" ha avuto un'importanza storica proprio perché, come si è già accennato, si avvaleva di tecniche scultoree, ponendo i malati a contatto diretto con attrezzi usabili come armi: l'intervento ebbe pieno successo e permise alla comunità stessa di prosperare per lungo tempo.
Bisogna mettere in evidenza che tale intervento, fra i più efficaci del settore, non è stato sottolineato mediaticamente in maniera proporzionale al suo peso, forse perché (ricordando Sigmund Freud col suo detto sulla Saggezza della Balia, che dopo tanti anni di studio si rese conto quanto capisse una buona balia per istinto ed intuizione) partì in maniera pratica, di intuito, da "subalterni", anche se successivamente fu poi supportato anche da una parte dei medici dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto.

Il gruppo dei discenti

Il gruppo formato dai discenti non può andare oltre le cinque unità, visto che il "maestro" dovrà tendere a seguirli in modo equo (in considerazione anche della complessità e della particolarità dell'intervento nel senso tecnico della parola), ovviamente con le dovute eccezioni per le quali è instradato dallo psichiatra-artista.

Il problema del vandalismo nel suo risvolto originale dell'aggressività

Una chiarezza su questa problematica è indispensabile sia per la scelta e la strutturazione del gruppo sia per il buon rendimento del gruppo stesso. Ciò è diretta conseguenza della metodica usata, in quanto gli attrezzi vengono impiegati per colpire ovvero "offendere" il materiale duro, che pur sicuri che non è niente di vivo, per alcuni degenti rappresenta un atto collegato ad aspetti del loro carattere che ha bisogno di esser tenuto sotto controllo in modo ferreo. Accade infatti che, per coloro che possiedono un'aggessività superiore alla media nel gruppo discente, ci siano difficoltà a colpire il sasso in quanto hanno paura loro stessi della propria potenziale aggressività e di usare gli attrezzi non solamente per lavorare il sasso.
Ricapitolando, nel corso preparatorio per un intervento di tipo scultoreo, e durante il suo sviluppo, assume fondamentale importanza, il problema dell'aggressivisità. Non tanto per il banale motivo che si utilizzano attrezzi che potrebbero anche essere mezzi di offesa, ma piuttosto per il correlato psichico che invece permette di sfruttare, opportunamente guidato e controllato, il moto aggressivo. La relazione fra vandalo ed artista ha radici molto antiche nel vissuto personale, ed il vandalismo è strettamente legato all'aggressività, per cui è indispensabile aver nozioni sull'argomento inerenti aspetti psichici della scultura e nello specifico in riferimento al correlato aggressivo prima di poter intervenire mediante una tecnica scultorea come mezzo di appoggio terapeutico.
Si sono occupati di questi aspetti numerosi studiosi della mente e un buon numero di scultori. Dal relativo saggio di Simona Argentieri, studiato nella sua estensione, si traggono utilissime indicazioni, visto anche che come soggetto di studio è considerato fondamentalmente Michelangelo:
«Creatività artistica e creatività del sé. La scultura - secondo il detto leonardesco che tanto piaceva a Sigmund Freud - è un'arte "per via di togliere", nella quale è più evidente il contrappunto tra il "creare" ed il necessario parallelo "distruggere" la forma precedente della pietra: a colpi violenti di scalpello il marmo si infrange e si frantuma per lasciare emergere la nuova immagine [...] Ogni creazione (lo dice anche Giulio Carlo Argan) è un atto distruttivo.»
(Simona Argentieri, membro dell'International Psychoanalytical Association; analista didatta dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi SPI)
Ovvero l'opera attaccata dal vandalo o creata dall'artista, oltre ad aver basi comuni a livello di azione fisica può essere anche una sintesi fra azione di distruttività e creatività nel caso dell'artista. Simona Argentieri spiega tali concetti focalizzando l'attenzione sulla Pietà Rondanini.
Secondo la studiosa vi sono collegamenti simbolici a ricordi molto più antichi della mente, difficilmente recuperabili in modo cosciente, sia in senso distruttivo, che riparatorio, che in entrambi i sensi. Tali collegamenti, essendo indissolubilmente legati fra di loro, sono talvolta difficilmente recuperabili verbalmente anche con tecniche psicoanalitiche del profondo.
L'impulso "vandalico", quindi, è utilizzabile se guidato ed instradato verso la creatività, in senso lato non strettamente artistico, ovvero la costruzione di un oggetto che soddisfi l'autore e permetta di esser mostrato e quindi entrare in relazione col fruitore: tale elaborazione dell'impulso vandalico, ovvero aggressivo, per tornare alla sua radice, ricorda il verso:
«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori»
(Fabrizio De André - Via del campo)
La definizione di atto distruttivo data da Giulio Carlo Argan, per indicare sinteticamente il processo creativo, è da prendere nel contesto del discorso di Argan e non nel senso letterale del termine, ovviamente, e viene espresso con forza per sottolinearlo; Simona Argentieri analizza poi nel dettaglio le evoluzioni della pietà di Michelangelo fino alla Rondanini.
D'altro canto Sir Herbert Read, poliedrico scrittore, critico e poeta, parla della possibilità di trasformare un impulso aggressivo in maniera creativa e la sua intuizione è stata rielaborata e sviluppata in modo da poter essere utilizzata come parte del sostrato teorico per gli interventi con la tecnica scultorea su materiale duro. Secondo Herbert Read l'impulso aggressivo-distruttivo può essere trasformato in qualcosa di creativo. Un'evoluzione della sua intuizione prende atto che l'impulso di per sé stesso non si può, in generale, trasformare ma si può utilizzare in modo diverso, così come un'ascia può servire per spaccar teste come facevano i Frisoni o si può usare per far legna da ardere per cuocere i cibi.
Quando il malato psichico con tendenze aggressive spezza un blocco di materiale duro, certo che c'è il piacere distruttivo, così come c'è nel "maestro" scultore, ma vedendo che quel gesto se instradato può fare "cose belle", nel senso anche soggettivo del termine, (ovvero sculture nello specifico in questione), il piacere distruttivo viene soppiantato, in parte, ma mai azzerato, dal piacere della riuscita dell'opera e quindi vi è come logica conseguenza una forma di controllo e finalizzazione creativa della distruttività stessa, ed in prima istanza dell'aggressività generatrice della distruttività: il piacere di spezzare il sasso, in quanto gesto distruttivo, rimane, ma è subordinato alla costruzione del lavoro scultoreo.
La comprensione, ovvero il prender atto della realtà, cioè che l'impulso aggressivo non è trasformabile interamente e/o tout court è fondamentale per il buon fine dell'intervento di appoggio terapeutico. Questa conclusione può infastidire il "maestro" stesso, perché può essere vista sminuente della "purezza" e "l'importanza", soprattutto, del "risultato" dell'intervento "artistico" sui particolari discenti. Torniamo quindi alla necessità della preparazione sul retroterra psichico, nel campo specifico della scultura, ma non solo, che deve possedere il "maestro", d'altro canto in generale è sempre meglio prendere atto dei limiti che la realtà impone e l'intervento di appoggio terapeutico, proprio per i suoi fini, deve esser ben radicato nella realtà.
A prescindere dal problema dell'aggressività, ma comunque correlato, in quanto riguarda problemi di vissuto personale del discente specifico o dell'artista in genere, hanno altresì importanza fondamentale gli scritti di Henry Moore sulla figura guida, che, a suo dire, confermato da Sir Herbert Read, è la figura di donna, il breve scritto di Émile-Antoine Bourdelle sul problema del rapporto fra lo scultore ed il "Dio" (o "Dei", volendo), la "confessione" di Arturo Martini inerente alla fonte fondamentale della plastica della sua opera, il lavoro (sulla Sindrome di Stendhal) di Graziella Magherini Psicoanalisi e arte tra emozione e ricerca Michelangelo e il linguaggio degli affetti, il lavoro di Luca Trabucco Edvard Munch. Arte e trasformazione della sofferenza mentale. Riflessioni psicoanalitiche su un percorso artistico, per citarne solo alcuni.


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venerdì 7 dicembre 2018

Raijin

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Raijin (雷神 raijin) nella mitologia giapponese è il nome che indica il dio del tuono e dei fulmini. Il nome deriva dalla parola giapponese rai ( tuono) e shin ( dio). Viene rappresentato spesso con sembianze di demone e con dei tamburi con i quali crea i tuoni.
Raijin è conosciuto anche con i nomi seguenti:
  • Kaminari-sama: kaminari (, tuono) e -sama (, una forma onorifica giapponese)
  • Raiden-sama: rai (, tuono), den (, luce), e -sama
  • Narukami: naru (, Tonante) e kami (, dio)
Nell'iconografia giapponese viene ritratto anche assieme a Fūjin, il dio del vento.


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giovedì 6 dicembre 2018

Ankō

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Ankō (安康天皇, Ankō Tennō; ... – ...) è stato il 20º imperatore del Giappone secondo la lista tradizionale di successione.
Nessuna data certa può essere assegnata al suo regno, ma si ritiene che abbia governato nella metà del V secolo.
Secondo il Kojiki e il Nihonshoki fu il secondo figlio dell'imperatore Ingyō. Il suo fratello maggiore Kinashikaru no Miko (principe Kinashikaru) era il primo in linea di successione, ma a causa della sua relazione incestuosa con la sua mezza sorella perse il favore della corte. Dopo un tentativo abortito di sollevare delle truppe contro Ankō, Kinashikaru si suicidò insieme alla sorella.
Ankō fu assassinato nel suo terzo anno di regno da Mayowa no Ōkimi (principe Mayowa) come vendetta per l'esecuzione del padre di Mayowa.

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mercoledì 5 dicembre 2018

Religione delle Ryūkyū

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La religione delle Ryūkyū è il sistema di credenze indigeno delle Isole Ryukyu. Mentre le tradizioni e le leggende locali variano da luogo in luogo e da isola in isola, la religione delle Ryukyu è in genere caratterizzata dall'adorazione degli antenati e al rispetto dei rapporti tra i vivi, i morti e gli dei e gli spiriti del mondo naturale. Alcune delle loro credenze, come la presenza di spiriti genius loci e molti altri esseri classificati a metà strada tra divinità e uomini, sono indicative delle antiche radici animistiche, come il loro interesse nel mabui (マブイ), o essenza della vita.
Con il tempo le pratiche della religione di Ryukyu è stata influenzata dalle religioni cinesi (Taoismo, confucianesimo, e dalle credenze popolari), dal Buddismo, dallo Scintoismo e dal cristianesimo. Una delle loro più antiche credenze è l'onarigami (オナリガミ), la superiorità spirituale della donna, che permette la crescita di una cultura noro (priora, prete donna) e un seguito significativo per le yuta (medium femminili).

Famiglia

La religione delle Ryūkyū con la sua attenzione all'adorazione degli antenati, è naturalmente basata sul concetto di famiglia. La donna più anziana della famiglia agisce come celebrante principale, officiando rituali che riguardano gli antenati, le divinità della casa e quei familiari che vivono dentro e fuori casa. Viene offerto incenso quotidianamente e le preghiere sono fatte ad alta voce. La donna più anziana è anche responsabile per la pulizia e la manutenzione della buchidan (altare degli antenati), dell'hinukan (focolare di Dio) e del furugan (bagno di Dio).

PREMURE Mark

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