Tra fumo, stelle da lancio e tute nere, i ninja hanno colonizzato per decenni l’immaginario collettivo globale. Ma dietro la maschera del guerriero silenzioso si nasconde una verità scomoda: il "ninjutsu" come arte marziale strutturata e tramandata nei secoli non è mai esistito. Non nei termini in cui lo si racconta oggi, almeno. Il termine stesso è un costrutto moderno, alimentato da un connubio di marketing, nostalgia cinematografica e falsificazioni storiche.
Né arte, né marziale: un’invenzione degli anni ’80
Contrariamente a quanto sostenuto da molte scuole contemporanee, il ninjutsu non è un sistema codificato nato nel XIV secolo e trasmesso fino a oggi da una casta segreta di guerrieri ombra. Il termine “ninjutsu” – spesso tradotto come “tecnica del ninja” – è una costruzione linguistica e concettuale che non compare nei documenti storici con le connotazioni attuali fino alla seconda metà del XX secolo. L’impennata della sua popolarità è legata all’ondata di film sugli “assassini vestiti di nero” negli anni ’70 e ’80, e al fiorire improvviso di scuole e istruttori autoproclamatisi eredi di una tradizione inesistente.
Tra i principali responsabili della legittimazione contemporanea del ninjutsu figura Masaaki Hatsumi, fondatore della Bujinkan, un’organizzazione che afferma di tramandare nove scuole tradizionali di arti marziali giapponesi, tre delle quali “ninja”. Ma nessuna di queste ha radici verificabili nelle pratiche clandestine del Giappone feudale. Hatsumi stesso si è formato negli anni ’50 sotto Toshitsugu Takamatsu, personaggio dai contorni già di per sé mitici, e la sua autorità è stata spesso messa in discussione dagli storici.
L’idea che esistessero tecniche codificate trasmesse di generazione in generazione da “ninja” professionisti è una finzione moderna. Non esistono archivi autentici, manuali coerenti, né una continuità scolastica simile a quella delle arti marziali documentate come il judo, il kendo o il karate. A differenza del samurai, figura ufficiale e ben registrata, il cosiddetto ninja – o meglio, shinobi – era più spesso un contadino arruolato occasionalmente come esploratore, incendiario o sabotatore, il cui addestramento non seguiva una dottrina codificata.
Il vocabolo "ninja" (忍者), letto in modo sino-giapponese, è un’interpretazione moderna e cinematografica. L’equivalente giapponese classico è shinobi-no-mono, ovvero “colui che agisce furtivamente”. Questi individui non formavano una casta a sé stante, ma erano operativi occasionali, talvolta assoldati da signori feudali per missioni di spionaggio o sabotaggio. Non erano combattenti in senso stretto e non portavano divise nere da teatro Kabuki: quella dell'abito nero è una trovata visiva ripresa proprio dal teatro giapponese per indicare l’invisibilità.
Lo shinobi non era dunque un guerriero mistico o una sorta di James Bond medievale, ma un ruolo flessibile, affidato a chiunque fosse disposto a correre rischi. Le tecniche impiegate erano pratiche, spesso improvvisate, non certo tramandate come “arti marziali segrete”. L’associazione di queste pratiche con una scuola chiamata “ninjutsu” è frutto della reinvenzione del passato.
Negli anni ’80, grazie a film cult come Enter the Ninja, American Ninja e Ninja Scroll, la figura del ninja esplose in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti. In questo clima di entusiasmo, molti individui si proclamarono maestri di ninjutsu, costruendo curricula immaginari, lignaggi artefatti e – nel caso più eclatante – intere biografie fittizie.
Un esempio emblematico è Frank Dux, che dichiarò di aver appreso il ninjutsu da un misterioso maestro giapponese chiamato Senzo “Tiger” Tanaka – lo stesso nome usato da Ian Fleming per un personaggio di James Bond. Dux sostenne di aver partecipato a tornei segreti e missioni per conto della CIA. Nessuna di queste affermazioni ha mai trovato riscontro nei registri ufficiali o nelle testimonianze indipendenti.
Nel tempo, il ninjutsu è diventato un’etichetta utile per vendere corsi, manuali, documentari e abbigliamento, capitalizzando sul fascino del mistero orientale. In sostanza, si tratta di una narrazione vendibile, non di un’eredità storica verificabile.
Dire che il ninjutsu è un’invenzione non significa negare il valore dell’immaginazione o della creatività che ha ispirato milioni di appassionati. Tuttavia, la differenza tra ispirazione e truffa risiede nell’onestà intellettuale. Non c’è nulla di male nel praticare tecniche ispirate ai ninja cinematografici, ma spacciarle per antiche verità storiche rappresenta un abuso della cultura giapponese e della buona fede di chi cerca autenticità.
Il ninjutsu moderno, così come viene insegnato in molte scuole, è una coreografia di miti, una disciplina costruita più sul desiderio di evasione che sulla base della realtà storica. E in un’epoca in cui la verifica dei fatti è alla portata di tutti, forse è giunto il momento di lasciare che i ninja tornino da dove sono venuti: dalla penombra affascinante della leggenda.
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