giovedì 15 maggio 2025

Sotto la Superficie: Il Lato Oscuro dello Sport Professionistico e l’Omertà sugli Steroidi

 

Nel grande spettacolo dello sport professionistico, dove i muscoli sono scolpiti come marmo, i corpi sembrano usciti da un laboratorio e le prestazioni sfidano i limiti dell’umano, una verità scomoda continua a celarsi sotto il tappeto rosso delle luci della ribalta: l’uso diffuso di sostanze dopanti, in particolare steroidi anabolizzanti. Nonostante i proclami pubblici, i test di routine e le squalifiche esemplari, l’industria globale dello sport si regge su un equilibrio precario fatto di prestazioni estreme e di silenzi istituzionali.

Ogni sport che premia la forza è, in qualche misura, compromesso. Questa è la realtà scomoda che molti evitano di affrontare, e non si tratta solo di sollevamento pesi o body building. L’uso di steroidi è radicato in molte discipline dove la forza esplosiva, la resistenza prolungata o il recupero accelerato sono essenziali per restare competitivi.

Nel mirino ci sono nomi e campionati insospettabili. Dalla Major League Baseball (MLB), storicamente scossa da scandali celebri, fino alle Arti Marziali Miste (MMA), dove l’agenzia antidoping statunitense (USADA) è formalmente presente ma la consistenza dei controlli è oggetto di forti dubbi. Persino icone come Brock Lesnar – con un fisico da gladiatore antico fin dalla giovinezza – sono risultate positive solo in una singola occasione, nonostante anni sotto i riflettori. È una coincidenza o un sistema?

È qui che la narrativa si fa inquietante. Gli atleti di alto profilo – le superstar – sono raramente coinvolti in scandali, mentre sono i comprimari, gli atleti meno conosciuti, a cadere vittime del sistema di controllo. Questo squilibrio solleva domande sulla reale imparzialità dei test: è possibile che le federazioni avvisino in anticipo i nomi di punta? È plausibile che si preferisca preservare l’immagine degli idoli piuttosto che smascherare la realtà?

Prendiamo la NFL come caso emblematico. Adrian Peterson, J.J. Watt, Derrick Henry: colossi atletici con prestazioni da videogioco e fisici che sfidano la genetica. Nessuno di loro è mai risultato positivo. Al contrario, molti giocatori di seconda fascia vengono regolarmente squalificati. Le conseguenze sono drammatiche: chi ha visibilità resta intoccabile, chi non ha nome diventa il capro espiatorio utile a sostenere l’illusione di pulizia.

La logica è cinica ma potente: prestazioni eccezionali vendono biglietti, gadget e diritti TV. Gli sport professionistici sono business miliardari. Ogni record battuto, ogni corsa impossibile, ogni slam devastante, ogni placcaggio fuori scala genera emozione, e l’emozione è merce.

Anche sport apparentemente meno “fisici” non sono immuni. Qualche anno fa, Serena Williams – una delle atlete più dominanti nella storia del tennis – avrebbe evitato un controllo dell’USADA barricandosi in una stanza del panico. Il fatto non ha mai avuto un seguito ufficiale, né sanzioni. Ma quell’episodio, sconcertante nella sua dinamica, ha alimentato una domanda lecita: perché un’atleta in regola dovrebbe temere un controllo antidoping?

Il tennis, come il basket, è spesso visto come esente da doping per via della natura “tecnica” del gioco. Ma la verità è che forza, resistenza e recupero sono cruciali in egual misura, soprattutto a livelli d’élite. L’assenza di casi clamorosi in questi sport non equivale a una reale assenza di uso: potrebbe essere solo il risultato di un sistema complice, che protegge le sue stelle.

Tra i costi meno visibili degli steroidi vi è la fragilità fisica che si insinua nei legamenti e nei tendini. Gli steroidi possono rafforzare i muscoli oltre le capacità naturali, ma il resto del corpo non sempre regge il passo. Nella NFL, gli infortuni al legamento crociato anteriore (ACL) sono quasi epidemici. Alcuni studiosi sospettano che il doping sia almeno in parte responsabile di questa incidenza allarmante: i corpi spinti artificialmente oltre il limite finiscono per cedere proprio dove sono più vulnerabili.

L’ipocrisia che avvolge il doping nello sport moderno non nasce solo dalla volontà di barare. È il riflesso di un sistema che ha fatto della prestazione una religione, e del corpo umano una macchina da spremere fino all’ultima goccia. Le agenzie antidoping fanno il loro lavoro, certo. Ma le regole sono applicate in modo selettivo, le tempistiche dei controlli talvolta sono negoziate, e gli eroi nazionali godono spesso di una protezione invisibile.

Lo sport professionistico, insomma, non è sempre la celebrazione della purezza fisica e dell’etica del lavoro che vorrebbe far credere. È, almeno in parte, uno spettacolo regolato da esigenze economiche, in cui la verità viene spesso sacrificata sull’altare dell’intrattenimento.

La prossima volta che guardiamo un touchdown impossibile, un KO devastante o un servizio a 210 km/h, ricordiamoci che sotto quella maglia potrebbe non esserci solo talento e sudore, ma anche il peso silenzioso di una fiala non dichiarata.



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