sabato 31 maggio 2025

Miti, Povertà e Percezioni: perché i lottatori afroamericani non dominano l’MMA come la boxe


Nel panorama sportivo statunitense del Novecento, il pugilato professionistico è stato a lungo associato al talento afroamericano. Da Jack Johnson a Muhammad Ali, da Joe Frazier a Mike Tyson, la narrazione dominante è stata quella di una supremazia nera nei ring di tutto il mondo. Ma a ben guardare, questa supremazia non è mai stata né uniforme né eterna. E oggi, nel mondo delle arti marziali miste (MMA), si nota un quadro decisamente più variegato, dove nessun gruppo etnico domina incontrastato.

Cosa è cambiato? E perché?

Per comprendere l’evoluzione, occorre prima liberarsi da spiegazioni superficiali e scorrette, come quelle legate a presunti vantaggi genetici. Queste teorie non hanno fondamento scientifico e deviano l’attenzione da fattori storici, culturali ed economici ben più determinanti. La realtà è molto più complessa — e, come spesso accade nello sport, si intreccia profondamente con la questione della povertà.

La boxe, per gran parte del Novecento, è stata lo sport dei disperati. Come ricordava Joe Frazier, "la boxe è l’unico sport in cui puoi farti scuotere il cervello, farti rubare i soldi e finire sul libro delle pompe funebri". Con danni cerebrali a lungo termine quasi garantiti, il pugilato è rimasto per decenni un sentiero impervio, ma a volte l’unico percorribile per chi cercava una via d’uscita dalla povertà.

È in questo contesto che gli atleti afroamericani hanno trovato nella boxe un trampolino verso l’ascensione sociale, quando altre opportunità erano loro precluse. Palestre economiche, attrezzatura minima, un sistema consolidato di allenatori nelle città: bastava poco per iniziare. Molti non avevano nulla da perdere, se non la possibilità di diventare qualcuno.

Tuttavia, la boxe statunitense è anche la cronaca mutevole delle classi subalterne. Nei primi decenni del Novecento erano gli immigrati ebrei, irlandesi e italiani a popolare i ring. Quando questi gruppi si sono integrati socialmente, la loro presenza è diminuita, sostituita da altre minoranze, spesso più recenti. Gli afroamericani, discriminati e senza reale accesso alla piena cittadinanza economica, sono rimasti una costante.

Da qui è nata la falsa impressione che gli atleti neri fossero naturalmente più adatti al pugilato. Una narrativa pericolosa, che ha trasformato il talento in un fardello biologico, oscurando il contesto sociale e culturale in cui quel talento era costretto a emergere.

La percezione della “supremazia nera” nella boxe ha cominciato a sgretolarsi negli anni Novanta. Con la caduta dell’Unione Sovietica e dei regimi del blocco orientale, molti paesi un tempo comunisti hanno riversato nel professionismo pugilistico una nuova ondata di talenti. Paesi come Ucraina, Russia, Kazakistan e Polonia — che da decenni formavano pugili olimpici con metodi rigorosi — hanno prodotto atleti pronti a competere (e vincere) al massimo livello.

Questa transizione ha scardinato la narrativa razziale del pugilato. Dall’inizio del XXI secolo, tre dei più dominanti pesi massimi — Wladimir Klitschko, Vitali Klitschko e Oleksandr Usyk — provengono dall’Ucraina, mentre altri, come Tyson Fury, hanno radici irlandesi. La boxe, in sostanza, è tornata a essere un’arena globale e fluida, meno legata ai codici culturali statunitensi.

Parallelamente, l’accesso a sport meno distruttivi come il basket, il football americano o l’atletica ha permesso agli atleti afroamericani di aspirare a carriere più lunghe e remunerative, riducendo la pressione sociale a vedere nella boxe l’unico possibile riscatto.

Le arti marziali miste, nate dall’incontro di discipline diverse come il jiu-jitsu brasiliano, la lotta olimpica, il muay thai e il pugilato stesso, si sono sviluppate solo di recente come sport professionale globale. La loro popolarità è esplosa negli anni Duemila, ma le loro basi culturali e infrastrutturali sono profondamente diverse da quelle del pugilato.

Negli Stati Uniti, il wrestling — una delle basi tecniche più importanti per l’MMA — è uno sport scolastico accessibile, ma non centrale nella cultura afroamericana quanto lo è, ad esempio, tra gli americani bianchi del Midwest. Al contrario, le palestre di MMA, spesso private, sono costose e non hanno radici profonde nei quartieri popolari, dove la boxe era invece parte dell’arredo urbano.

Inoltre, l’MMA non offre ancora compensi paragonabili a quelli dei top fighter della boxe. Sebbene il guadagno medio sia più equo, mancano ancora borse multimilionarie. Per chi cerca un’uscita rapida dalla marginalità economica, l’MMA non rappresenta la scorciatoia che è stata il pugilato.

Eppure, non mancano atleti afroamericani di altissimo livello anche nelle MMA: Jon Jones, Anderson Silva (brasiliano di origine africana), Kamaru Usman (nato in Nigeria ma cresciuto negli USA), sono nomi leggendari. Ma l’MMA si presenta oggi come uno sport autenticamente multietnico, in cui la competenza tecnica, la disciplina mentale e l’accesso all’allenamento contano più del retaggio razziale.

A chi cerca ancora risposte nei cromosomi, la scienza oppone una realtà molto semplice: la variabilità genetica all’interno di una razza è immensamente superiore a quella tra razze diverse. Non esistono “razze sportive”. Esistono individui motivati, con corpi allenati, menti forti e contesti favorevoli.

In altre parole, la razza è una distrazione.

La cultura, invece, conta eccome. Se uno sport viene trasmesso, insegnato, reso economicamente accessibile, allora fiorisce. La boxe ha trovato terreno fertile nella cultura afroamericana per oltre mezzo secolo, mentre le MMA stanno crescendo in un ambiente più frammentato, meno associato a una sola comunità.

Il mondo dello sport è spesso un riflesso dei mutamenti sociali. Non è un caso se, oggi, il dominio nero nella boxe è percepito come un’epoca passata, e l’MMA come uno spazio competitivo aperto. Ma questo non significa che gli atleti afroamericani abbiano perso talento o rilevanza; significa solo che oggi possono scegliere. E la scelta, in una società ancora segnata da diseguaglianze, è una conquista non da poco.

Alla fine, è proprio la possibilità di decidere dove e come mettersi alla prova — e non il colore della pelle — a determinare chi salirà sul ring, o nella gabbia, e chi, invece, resterà ai margini.



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