domenica 2 settembre 2018

Nakano Takeko




Nakano Takeko (中野 竹子; Edo, 1847 – Aizu, 10 ottobre 1868) è stata una onna-bugeisha (ovvero, una donna guerriera giapponese) del dominio Aizu, che combatté e morì durante la guerra Boshin, colpita a morte da un soldato imperiale nella battaglia di Aizu del 1868.

Biografia

I primi anni

Nata a Edo, Nakano Takeko era figlia primogenita di Nakano Heinai (1810-1878), un samurai e funzionario di Aizu, e di Nakano Kōko (1825-1872), figlia di Oinuma Kinai, samurai al servizio di Toda del dominio di Ashikaga. Aveva un fratello e una sorella minori: Nakano Toyoki e Nakano Yūko (1853-1931). La loro residenza era in Beidai Ninocho, ai quarti di Tamogami Hyogo, un lontano parente del padre. Era di bell'aspetto, ben educata e proveniva da una famiglia di samurai molto potente.
Dal 1853 al 1863, ricevette una rigida e completa formazione nelle arti marziali, nelle arti letterarie (classici cinesi confuciani) e nella calligrafia, e fu adottata dal suo stesso maestro, Akaoka Daisuke, che era anche il celebre istruttore della principessa Matsudaira Teru, sorella minore adottiva di Matsudaira Katamori, daimyō di Aizu. Insegnò a studenti più giovani di lei, come sua sorella, che a sua volta frequentava la scuola. Amava leggere le tante storie di donne guerriere, generali e imperatrici giapponesi, ma la leggenda di Tomoe Gozen la colpì profondamente. Fin dall'infanzia, recitava la Ogura Hyakunin isshu.
La sua certificazione (menkyo) era in Hasso-Shoken, un ramo della maggiore tradizione Itto-ryu. Con questo riconoscimento ufficiale della sua abilità, trovò un'occupazione presso la tenuta di Itakura, signore di Niwase, un dominio secondario nell'odierna prefettura di Okayama. Insegnò naginata alla moglie del signore e la servì come sua segretaria. Lasciò questa posizione nel 1863, quando fu adottata dal suo maestro, che era stato trasferito a Osaka per un lavoro del dominio Aizu e aveva forze schierate a Kyoto per compiti di sicurezza. Cercò di farla sposare con suo nipote, ma visto che la nazione era scossa da disordini sociali, lei rifiutò e si riunì alla sua famiglia di Edo.
Dopo aver lavorato con il padre adottivo come istruttrice di arti marziali durante gli anni sessanta dell'Ottocento, Nakano fu nella regione di Aizu per la prima volta nel febbraio 1868. Durante quei mesi primaverili ed estivi insegnò naginata a donne e bambini nel castello di Aizu-Wakamatsu, oltre a catturare anche i guardoni del bagno femminile.

La guerra civile

La sua figura marziale è legata all'epoca della guerra Boshin, le cui vicende belliche videro contrapporsi, in un conflitto civile, due avverse fazioni: i fedelissimi sostenitori dello shogunato Tokugawa e i fautori della restaurazione dell'imperatore Meiji, i cui esiti, favorevoli a quest'ultimo, avrebbero portato l'Impero giapponese all'epoca di sviluppo di fine XIX secolo.
Durante il conflitto, Nakano Takeko si adoperò in difesa dello shōgun Tokugawa Yoshinobu ed ebbe parte nella battaglia di Aizu, nella quale si distinse combattendo all'arma bianca, brandendo un naginata (un'arma inastata giapponese). Nello scontro con le soverchianti forze imperiali, fu a capo di un corpo ad hoc di donne guerriere (Hirata Kochō e la sorella minore Hirata Yoshi; Yoda Kikuko e la madre o sorella maggiore Yoda Mariko; Yamamoto Yaeko; Okamura Sakiko e la sorella maggiore Okamura Makiko; la concubina Watashi; Jinbo Yukiko; le studentesse di Monna naginata dojo Monna Rieko, Saigō Tomiko e Nagai Sadako; la sorella minore di Hara Gorō; Kawahara Asako; Koike Chiyoku), comprese sua madre e sua sorella, che, attraverso pioggia e nevischio, andava in battaglia in modo autonomo e indipendente, dal momento che gli antichi funzionari di Aizu, in particolare Kayano Gonbei, non permettevano loro di guerreggiare, in modo ufficiale, come parte dell'esercito del dominio. A questa unità fu poi dato, in modo retroattivo, il nome di esercito femminile (娘子隊 Jōshitai). Fu Furuya Sakuzaemon, il comandante delle truppe di Aizu, a designarla come leader delle donne-samurai il giorno prima della sua morte.

La morte

Durante la difesa, al ponte Yanagi nella zona di Nishibata, a Fukushima, la mattina presto scagliò una carica all'arma bianca contro le armi da fuoco delle ingenti truppe dell'esercito imperiale giapponese del dominio di Ōgaki, comandate da uno shaguma. Quando gli avversari si resero conto, con sorpresa, che si trattava di donne soldato, fu impartito subito l'ordine di trattenere il fuoco per non ucciderle. Questa esitazione permise alle guerriere di avvicinarsi ai nemici e affrontarli all'arma bianca: ne caddero uccisi parecchi, prima che il fuoco riprendesse. Il nemico era impressionato dalla furia letale delle donne di Aizu. La stessa Nakano Takeko ne uccise cinque o sei a colpi di naginata prima di soccombere, colpita a morte al torace da un colpo di fucile che sarebbe stato per lei fatale.
Morente, piuttosto che lasciare che il nemico si impossessasse del suo cadavere per farne scempio, mozzandole il capo per servirsene come trofeo di guerra, chiese a sua sorella Yūko di decapitarla lei stessa per impedirne la cattura e darle onorevole sepoltura. Yūko richiese l'assistenza di un soldato di Aizu, Ueno Yoshisaburō, per la decapitazione. Hirata Kochō, la sorella minore adottiva che aveva studiato naginata e calligrafia come figlia adottiva di Daisuke, nella battaglia fu salvata da Jinbo Yukiko e, essendo la vice-comandante, assunse il comando della truppa per difendere il castello di Wakamatsu dopo che fu uccisa, mentre la vice divenne Yamamoto Yaeko.
Dopo la battaglia, staccata dal corpo, la testa di Nakano Takeko fu così traslata dalla sorella al vicino tempio Hōkai della sua famiglia (la moderna Aizubange, nella prefettura di Fukushima) e seppellita con onore dal sacerdote sotto un albero di pino. La sua arma fu donata al tempio.

Memoria storica

Nel 1938, un cenotafio in suo onore è stato costruito al tempio Hōkai, dietro il luogo di sepoltura della sua testa. Nella costruzione del monumento fu coinvolto l'ammiraglio Dewa Shigetō, della marina imperiale giapponese, nativo di Aizu.
La memoria collettiva e storica della sua figura, e delle gesta sue e delle sue guerriere, è tenuta viva e tramandata anche da manifestazioni e rievocazioni storiche, come quelle che si tengono il settembre di ogni anno durante il Festival dell'autunno di Aizu. In quell'occasione, un gruppo di giovani ragazze in costume, abbigliate con hakama e con la testa cinta da fasce bianche, prende parte a un corteo storico in cui ogni anno si ripropone l'aspetto marziale di Nakano e della sua banda di donne guerriere dello Joshigun (女子軍), l'esercito femminile, e se ne rievocano e commemorano le figure e le azioni di guerra.
La vera forza delle donne samurai di Aizu è riflessa nella loro semplicità, come scrisse Takeko nella sua poesia di morte con il nemico alle porte, per dare a quegli istanti un'impressione di bellezza e per lasciare così un ultimo messaggio qualora fosse stata uccisa in battaglia:

«Non oserei mai considerarmi / membro della cerchia dei più grandi e famosi guerrieri / anche se condivido con tutti loro / il medesimo coraggio.»

Discendenza

Nel 1871, la sorella sposò Seiichirō Gamō (1844-1879), un ex samurai di Aizu prima chiamato Tetsushirō Yamaura, e insieme nel 1877, dopo un esilio nelle lande desolate di Tonami, si stabilirono ad Hakodate, iniziando un'industria di pesca, ma il marito morì poco dopo, l'8 novembre 1879. Rimasta vedova e dovendo crescere tre figli, si trasferì nel villaggio di Konakano, ad Hachinohe, dove gestì un negozio di dolciumi. Morì ad Hakodate il 14 aprile 1931, a 78 anni, e la sua tomba si trova ad Hachinohe. La sua naginata, che usò per decapitare la sorella, è ora posseduta dal museo Aizu Samurai House.
Il padre morì il 13 settembre 1878, a 68 anni, e la sua tomba si trova nel cimitero di Myohoji, presso Baba-honcho di Aizu-Wakamatsu. La madre era morta di malattia nel 1872, a 47 anni, e la sua tomba si trova vicino a quella del marito.
Il fratello sopravvisse alla guerra di Aizu e dopo diventò un educatore specializzato in libri di scuola elementare nella prefettura di Niigata, che sono anche raccolti nella biblioteca della Dieta nazionale del Giappone. Dal 1900 al 1906, fu il preside principale della scuola superiore Takadakitashiro a Jōetsu.
La sorella adottiva sposò Toda Emon, un ex samurai di Aizu che divenne ufficiale di polizia della prefettura di Yamagata, e morì nel distretto Asakusa di Tokyo il 6 ottobre 1885, a 35 anni, e la sua tomba si trova a Chomeji, nel quartiere Daito di Tokyo.

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sabato 1 settembre 2018

Tetsuji Murakami

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Tetsuji Murakami (Shizuoka, 31 marzo 1927 – Parigi, 24 gennaio 1987) è stato un karateka giapponese.
È stato il primo maestro giapponese di karate venuto a insegnare in Italia negli anni '50, sotto invito del Maestro Wladimiro Malatesti.
Inizia la pratica delle arti marziali con il kendo (obbligatorio nelle scuole) e nel 1946, all'età di 19 anni, inizia la pratica del karate, stile shotokan, sotto la guida del Maestro Masaji Yamaguchi (alunno del Maestro Funakoshi), con il quale studia pure il kendo, aikido e un po' di iaido.
Nel 1957, invitato dal Maestro Henry Plée si trasferisce in Francia, a Parigi. Gradualmente inizia a insegnare anche all'estero e in particolare in Germania, Inghilterra, Italia, Jugoslavia, Portogallo, Svizzera e Algeria.
Nel 1968 al suo rientro in Giappone, dopo quasi 10 anni passati in Europa, conosce il Maestro Shigeru Egami e rimane affascinato dallo stile di cui quest'ultimo è il caposcuola: lo Shotokai. Decide di passare allo Shotokai e diviene responsabile per l'Europa, sotto incarico dello stesso Maestro Egami.

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venerdì 31 agosto 2018

Viṣṇu

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Viṣṇu (devanāgarī: विष्णु; adattato in Vishnu, in italiano anche Visnù) è una divinità maschile vedica che nei secoli appena precedenti la nostra era assorbì altre figure divine come Puruṣa, Prajāpati, Nārāyaṇa e Kṛṣṇa acquisendo nel periodo epico del Mahābhārata la figura divina protettrice del mondo e del Dharma e, nella letteratura religiosa post-epica, la volontà di intervenire per proteggere i suoi devoti. Assorbendo l'antico culto di Vasudeva divenne il culto principale dell'Induismo che va sotto il nome di Viṣṇuismo o Vaiṣṇavismo (dall'aggettivo sanscrito vaiṣṇavá, "devoto a Viṣṇu").

Origine e sviluppo del culto di Viṣṇu nelle religioni vedica e brahmanica

Viṣṇu è un deva poco menzionato nel più antico dei Veda, il Ṛgveda, ciononostante tale divinità fu considerata fin dall'inizio più importante di quanto non appaia.
Nel Ṛgveda Viṣṇu è il deva che compie i tre passi per delimitare l'intero universo dove si collocano tutti gli esseri:
(SA)
«viṣṇornu kaṃ vīryāṇi pra vocaṃ yaḥ pārthivāni vimamerajāṃsi yo askabhāyaduttaraṃ sadhasthaṃ vicakramāṇastredhorughāyaḥ pra tad viṣṇu stavate vīryeṇa mṛgho na bhīmaḥ kucaro ghiriṣṭhāḥ yasyoruṣu triṣu vikramaṇeṣvadhikṣiyanti bhuvanāni viśvā pra viṣṇave śūṣametu manma ghirikṣita urughāyāya vṛṣṇe ya idaṃ dīrghaṃ prayataṃ sadhasthameko vimame tribhirit padebhiḥ»
(IT)
«Io celebro le gesta eroiche di Viṣṇu , che misurò le regioni terrene e ha reso stabile la regione di sopra compiendo lui, dal vasto incedere, tre passi. Per questa impresa eroica Viṣṇu è lodato, lui che abita sulla montagna come una bestia selvaggia, aggirandosi ovunque, nei suoi tre grandi passi abitano tutti gli esseri, che la mia invocazione possa raggiungere Viṣṇu il toro che abita la montagna e che da solo ha misurato con i tre passi queste ampie sfere»
(Ṛgveda, I,154,1-3)
Tale caratteristica risiede anche nel suo nome, Viṣṇu, che indica la "pervasività". Il passo più alto di Viṣṇu è nel cielo, luogo non comprensibile da ciò che è mortale. La sua natura celestiale, e quindi non mondana, è resa dal caratteristico colore della pelle azzurro intenso con cui, successivamente, questa divinità verrà raffigurata e che indica lo spazio etereo.
Nei Brāhmaṇa con Viṣṇu si indica lo stesso sacrificio e nel Śatapatha Brāhmaṇa viene descritto il rito del viṣṇukramá (Il passo di Viṣṇu).
(SA)
«atha viṣṇukramān kramate devānvā eṣa prīṇāti yo yajata [...] sa devānprītvā teṣvapitvī bhavati teṣvapitvī bhūtvā tānevābhiprakrāmati [...] lokastadevamimāṃl lokāntsamāruhyāthaitāṃ gatimetāṃ pratiṣṭhāṃ gacati parastāttvevārvāṅ krameta [...] iṣa etadapasaraṇata evāgre jayañjayati divamevāgre 'thedamantarikṣamatheto 'napasaraṇātsapatnānnudata »
(IT)
«Si compiono dunque i passi di Viṣṇu chi offre i sacrifici gratifica i Deva con questo sacrificio [...] avendo gratificato i Deva con tale sacrificio puà accompagnarsi con loro, accettato alla loro presenza procede a raggiungerli [...] si innalza a questo modo fino ai mondi dei Deva e vi risiede trovandovi uno stabile posto, ma poi necessita di ridiscendere per ritornare [...] in questo modo inizialmente conquista il cielo in modo vittorioso ma lascia aperta l'uscita, poi allo stesso modo per l'aria, e per ultimo non lasciando alcuna apertura per uscire quaggiù egli rigetta finalmente i suoi nemici»
(Śatapatha Brāhmaṇa, I,9,3, 8-10)
Tre passi deve fare infatti l'adhvaryu tra lo spazio della vedi e lo āhavanīya per compiere lo yajña vedico, così come fece Viṣṇu quando generò lo "spazio" cosmico.
Viṣṇu è quindi localizzato nello stesso palo collocato al centro dello spazio sacrificale come asse cosmico che unisce il cielo dei Deva con la terra degli uomini consentendo loro di comunicare: i primi elargendo beatitudini, i secondi inviando doni e suppliche.
Egli è anche amico di Indra, il dio guerriero che durante la conquista dell'India da parte degli Arii diviene di massima importanza per queste popolazioni di nomadi invasori.

Viṣṇu nello hindūismo

Gli avatāra di Viṣṇu

Iconografia

Nelle rappresentazioni artistiche e devozionali dello hindūismo Viṣṇu indossa spesso una corona (kirīṭa mukuṭa, corona regale che lo individua come Cakravartin, "Signore dei mondi"); con le quattro braccia regge i suoi attributi: il disco o ruota (chakra) nel duplice significato di "ruota" solare o del carro celeste che trasporta la divinità solare e di "disco" inteso come arma da lancio e quindi con il significato di potere e protezione, esso ha il nome di Sudarśana (Bello da vedere); la mazza (gadā) che ha il nome di Kaumodakī, l'arma con cui Viṣṇu uccise il demone Gada, essa simboleggia anche il potere del tempo che tutto distrugge; la conchiglia (śaṅka, la Charonia tritonis) è anch'essa un'arma in quanto soffiandoci dentro procura un suono che atterrisce i demoni e li fa fuggire, il nome della śaṅka di Viṣṇu è Pāñcajanya dal demone a cui la strappò Pāñcajana (Cinque elementi); il fiore di loto (padma) simbolo della divinità solare.

I nomi di Viṣṇu

Come altre divinità hindu, Viṣṇu conserva diversi altri nomi e appellativi tradizionalmente elencati nel Viṣṇusahasranāma ("I mille nomi di Viṣṇu "), contenuto all'interno del Mahābhārata. In questo elenco Viṣṇu è celebrato come il Dio Supremo.

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giovedì 30 agosto 2018

Rāmāyaṇa

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Il Rāmāyaṇa (devanāgarī रामायण; lett. il "Cammino - ayana- di Rāma"), insieme al Mahābhārata è uno dei più grandi poemi epici dell'induismo, oltre a risultare uno dei testi sacri più importanti di questa tradizione religiosa e filosofica.
Il poema, attribuito tradizionalmente al cantore (ādivaki), e protagonista dello stesso, Vālmīki, narra le avventure del principe Rāma, avatāra di Viṣṇu, ingiustamente esiliato e privato della sua sposa, che tuttavia riconquista dopo furiosi combattimenti, unitamente al trono negato.

Datazione e recensioni

Il nucleo originario del poema è databile tra il VI e il III secolo a.C., il completamento della sua redazione va invece ascritto ai primi secoli della nostra era.
L'epos rāmaico consta di 24.000 śloka (versi), 70.000 in meno rispetto al più complesso Mahābhārata, suddivisi in oltre 645 sarga ("canti"), distribuiti in sette kāṇḍa ("libri"), di cui il primo (Bālakāṇḍa) e il settimo (Uttarakāṇḍa) sono considerati, a giudizio unanime della critica, delle addizioni posteriori.
Il nucleo originario dell'intera opera è costituito dai kāṇḍa II-VI dove Rāma appare nella sua veste eroica, acquisendo, nei due kāṇḍa recenziori, il I e il VII evidenti caratteristiche divine, anche se vi sono tracce di aspetti divini dello stesso Rāma anche nelle parti più antiche del poema.
Il Rāmāyana, proprio come i poemi omerici, può essere considerato come un serbatoio o una raccolta dell'insieme delle conoscenze e dei modelli culturali di un'intera civiltà. L'epos rāmaico pertanto svolge una funzione educativa adempiendo in pieno, essendo depositario del sapere collettivo, al suo compito didattico-paradigmatico. Eppure questo deposito o "sedimento ereditario", trasmesso dalla tradizione orale, non va inteso come patrimonio onnicomprensivo, ma piuttosto come stratificazione e sovrapposizione progressiva di un materiale storico, mitico, aneddotico e geografico che nel corso dei secoli è stato ricucito in una raccolta organica divenuta sintesi e simbolo dei contenuti culturali, religiosi e filosofici di un'intera civiltà.
In questo senso Rāma, non è solo il protagonista dell'epos narrato, bensì il nome dato ad un codice di comportamento morale, religioso, politico, e sociale che appartiene ad una fase precisa della civiltà indiana. Ciò significa che il poema rāmaico non solo “descrive", ma "prescrive", attraverso il fulgido esempio di Rāma e Sītā come archetipi di perfezione e di adesione al dharma, un modello di condotta morale ed etica da imitare e interiorizzare.
La narrazione di questi eventi mitici ci è giunta grazie alle eleganti strofe di Vālmīki che, con il suo stile raffinato ed erudito, sembra anticipare gli elaborati componimenti di epoca classica (Kāvya), ossia un particolare tipo di letteratura caratterizzata da lunghissime descrizioni, sorprendenti paragoni e metafore, giochi di parole e ostentazioni di dottrina, rime interne e tutto un repertorio di ricercatezze formali e ornamenti stilistici (alamkāra) che inducono gli studiosi ad ipotizzare una matrice di natura aristocratica e a individuare nelle corti e nelle cerchie di intellettuali il luogo privilegiato di irradiazione di questo nuova e sapiente produzione letteraria. Anche gli indologi sono unanimi nell'accettare il dato della tradizione che assegna a un cantore (ādivaki ) la composizione del poema o, almeno, di quello che è ritenuto il suo nucleo originario, nonostante il nome di questi, Vālmīki, venga citato solo esclusivamente nelle due sezioni, la prima e la settima, notoriamente considerate spurie.
In ogni caso il celebre ādivaki non avrebbe fatto altro che rielaborare e ricucire gli antichi materiali relativi all'eroe Rāma, tramandati dai bardi o cantori itineranti (cārana, kuśīlava), dei quali abbiamo traccia anche in tradizioni esterne alla cultura brahmanica, come quella buddhista e quella jaina.
Il Rāmāyana è giunto a noi in tre recensioni:
  • l'edizione "meridionale" detta di Bombay o vulgata (in 24.049 strofe; 24.272 nella versione di Kumbakhonam; 645 sarga, "canti"), probabilmente la più antica; l'ultima ristampa di questa versione è in 7 volumi (4 di commenti) editi dalla Nag di Delhi 1990-1991;
  • l'edizione "nordoccidentale" (24.202 strofe; 666 sarga); la pubblicazione di questa edizione è in 7 voll. curati da R. Labhāya, Bh. e V. Śāstrī, D.A.V. College Research Dept. Lahore 1928-1947.
  • l'edizione "orientale", detta "bengalese" o gauḍa (23.930 strofe; 672 sarga).
Tutte e tre le recensioni, seppure differiscano per intere sezioni e persino per discrepanze di contenuto, sono suddivise in sette kāṇḍa e offrono ad ogni modo una visione omogenea e coerente dello svolgimento dell'azione principale. Ogni kāṇḍa origina il proprio nome dalla natura della materia trattata.
A queste tre recensioni se ne aggiunge un'altra detta "critica", in 18.766 strofe (606 sarga), la quale ha suscitato non poche opposizioni. Tale edizione "critica" è stata pubblicata in 7 volumi da G.H. Bhatt, L.P. Vaidya, P.C. Divanji, D.R. Mankad, G.C. Jhala e U. P. Shah, Oriental Institute, Baroda, 1970-1985.

Il tema centrale

Il tema centrale del poema consiste nella storia di Rāma, settimo avatāra di Viṣṇu, sovrano ideale e guerriero valoroso, e della sua sposa, Sītā.
Gli eventi sono ambientati nel momento di passaggio tra la fine del Tretā-yuga e l'inizio dello Dvāpara-yuga.
Rāma, principe ereditario del regno dei Kosala viene privato ingiustamente del diritto al trono ed esiliato dalla capitale Ayodhyā (collocata nei pressi dell'odierna Faizābād).
Rāma trascorrerà quattordici anni in esilio, insieme alla moglie Sītā e al fratello Lakṣmaṇa, dapprima nei pressi della collina di Citrakūṭa, dove si trovava l'eremo di Vālmīki e di altri ṛṣi, in seguito nella foresta Daṇḍaka, popolata da molti demoni (rākṣasa).
Lì Sītā viene rapita dal crudele re dei demoni, Rāvaṇa, che la conduce nell'isola di Laṅkā.
Rāma e Lakṣmaṇa si alleano quindi con i vānara, potente popolo di scimmie divine, e insieme ai guerrieri scimmia, tra i quali c'è il valoroso e fedele Hanumat, costruiscono un ponte che collega l'estremità meridionale dell'India con Laṅkā.
L'esercito affronta l'armata dei demoni, e Rāvaṇa viene ucciso in duello da Rāma, che torna vittorioso nella capitale Ayodhyā, e viene incoronato re.
Rāma, per rispettare il dharma, è costretto a ripudiare Sītā, a causa del sospetto che abbia ceduto alle molestie di Ravana. Per dare prova della sua purezza, Sītā accetta di sottoporsi alla prova del fuoco uscendo indenne dalle fiamme.

I sette kāṇḍa del Rāmāyaṇa

  1. Bālakāṇḍa (बालकाण्ड; "La sezione [di Rāma] giovane")
  2. Ayodhyākāṇḍa (अयोध्याकण्ड; "La sezione di Ayodhyā")
  3. Āraṇyakāṇḍa (आरण्यकाण्ड; "La sezione della foresta")
  4. Kiṣkindhākāṇḍa (किष्किन्धाकाण्ड; "La sezione di Kiṣkindhā")
  5. Sundarakāṇḍa (सुन्दरकाण्ड; "La sezione bella")
  6. Yuddhakāṇḍa (युद्धकाण्ड; "La sezione della battaglia")
  7. Uttarakāṇḍa (उत्तरकाण्ड; "La sezione ulteriore")

Opere derivate

  • Dal 25 gennaio 1987 al 31 luglio 1988 la rete televisiva pubblica hindū Doordarshan ha trasmesso, ogni domenica, ottanta puntate di una riduzione cinematografica dell'opera. La serie, la cui regia è di Rāmānand Sāgar, è stata la più seguita nella storia delle televisioni indiane con una media di ottanta milioni di spettatori. I tradizionalisti hindū hanno per l'occasione incorniciato il video con corone di fiori a mo' di altare per predisporsi in modo corretto alla visione del sacro racconto.
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mercoledì 29 agosto 2018

Airavata

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Airavata (ऐरावत) è un elefante bianco mitologico che trasporta il dio hindu Indra. Viene chiamato anche 'Ardha-Matanga', che significa "elefante delle nuvole", 'Naga-malla', ovvero "l'elefante combattente" e 'Arkasodara', ovvero "fratello del sole". 'Abharamu' è l'elefantessa moglie di Airavata. Airavata ha quattro zanne e sette proboscidi, ed è di un bianco immacolato. È noto come Airavatam in lingua tamil ed Erawan in lingua thai.

Nelle tradizioni hindu

Secondo il Ramayana, la madre dell'elefante era Iravati. Secondo il Matangalila, Airavata nacque quando Brahma cantò i sacri inni sopra le metà dei gusci d'uovo che Garuda aveva covato, seguito da altri sette maschi e e da otto femmine. Prithu rese Airavata re di tutti gli elefanti. Uno dei suoi nomi significa "colui che tesse le nuvole", dato che secondo il mito sarebbe in grado di produrre le nuvole. Il legame di Airavata con acqua e pioggia è enfatizzato nella mitologia di Indra, che lo cavalca quando sconfigge Vritra. Questo potente elefante immerge la propria proboscide nel mondo sotterraneo, ne succhia l'acqua e la vaporizza creando le nuvole, che poi Indra usa per causare le piogge, unendo così le acque del cielo a quelle del sottosuolo.
Airavata si trova anche all'entrata di Svarga, il palazzo di Indra. Inoltre le otto divinità guardiane che presiedono i punti cardinali della rosa dei venti, siedono ognuna su un elefante, che prende parte alla difesa ed alla protezione della relativa zona. Il loro capo è l'Airavata di Indra. C'è un riferimento ad Airavata nel Bhagavadgita.
A Dharasuram, vicino a Thanjavur, si trova il tempio di Airavatesvara, in cui si crede che Airavata venerasse il Linga. Il tempio, il cui nome significa Linga di Airavata, abbonda di rare sculture ed opere architettoniche e fu costruito da Rajaraja Chola II, sovrano dell'Impero Chola nel sud dell'India tra il 1146 ed il 1173 d.C..

Erawan

Erawan (thai: เอราวัณ) è il nome in thai ed in lao di Airavata. È descritto come un elefante enorme con tre (o a volte 33) teste, spesso raffigurate con più di due proboscidi. Alcune statue mostrano il dio hindu Indra mentre cavalca Erawan. Viene a volte associato al vecchio regno lao di Lan Xang (lett.: un milione di elefanti) ed al defunto Regno del Laos, i cui emblemi reali raffiguravano Erawan, più comunemente noto come "L'elefante a tre teste".

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