Muhammad Ali è rimasto per sempre nella memoria collettiva come l’uomo che danzava sul ring e che, al tempo stesso, colpiva con la rapidità e la precisione di un peso leggero pur combattendo tra i massimi. La sua parabola sportiva è fatta di gloria e cadute, di metamorfosi e reinvenzioni. Non è solo la storia di un atleta che ha perso velocità col passare degli anni, ma quella di un campione che ha saputo trasformare una limitazione in una nuova forma di dominio. Per comprendere quando e come Ali diventò più lento, bisogna osservare con attenzione le due fasi principali della sua carriera: quella fulminea degli anni Sessanta e quella più riflessiva e tattica che prese forma al suo ritorno dall’esilio nel 1970.
Negli anni Sessanta, Muhammad Ali – allora ancora Cassius Clay – incarnava un’idea di boxe mai vista prima. Non si limitava a colpire forte: era l’unico peso massimo capace di muoversi con l’agilità di un ballerino. La celebre frase “vola come una farfalla, pungi come un’ape” non era soltanto uno slogan, ma una realtà tattica. Ali danzava intorno agli avversari, li costringeva a inseguirlo, li colpiva con jab rapidi e diretti fulminei, e usciva subito dall’angolo prima che potessero reagire.
La sua vittoria contro Sonny Liston nel 1964 è il simbolo di questa prima fase. Ali si impose non tanto per la potenza dei suoi colpi, ma perché Liston, abituato a intimidire gli avversari, si ritrovò impotente contro un giovane che si muoveva troppo velocemente per essere colpito. In quel periodo, Ali sembrava intoccabile: nessuno riusciva a raggiungerlo.
La svolta arrivò nel 1967, quando Ali rifiutò di arruolarsi per la guerra in Vietnam. La decisione gli costò cara: perse il titolo mondiale e venne sospeso dalla boxe per oltre tre anni. Quando tornò, nel 1970, non era più lo stesso atleta. Il tempo lontano dal ring, la mancanza di allenamenti agonistici e l’età – aveva ormai superato i ventotto anni – segnarono un cambiamento profondo.
Ali era ancora un pugile eccezionale, ma più pesante nelle gambe, meno rapido nei riflessi. La differenza emerse chiaramente nella sua prima grande sfida post-esilio: il leggendario “Fight of the Century” contro Joe Frazier del 1971. In quell’incontro, Ali non poteva più contare sul suo vecchio gioco di gambe. Rimase spesso fermo, cercando di rispondere colpo su colpo, e fu proprio questa strategia a condurlo alla prima sconfitta della carriera.
Il rallentamento, tuttavia, non significò declino. Ali comprese che non avrebbe più potuto basarsi esclusivamente sulla velocità. Da quel momento in avanti sviluppò uno stile più maturo, in cui resistenza, intelligenza tattica e psicologia presero il posto dell’agilità assoluta.
La capacità di adattamento si vide con chiarezza negli incontri contro Ken Norton. Norton ruppe la mascella di Ali nel 1973 e lo sconfisse ai punti: un segnale inequivocabile che il vecchio Ali non sarebbe più tornato. Ma proprio grazie a quella sconfitta, Ali imparò a leggere meglio gli avversari, a usare le corde, a controllare i tempi del match.
Il capolavoro tattico arrivò nel 1974, a Kinshasa, contro George Foreman. Ali, di fronte a un pugile giovane, più potente e apparentemente imbattibile, scelse una strategia rivoluzionaria: il celebre rope-a-dope. Si appoggiò alle corde, lasciando che Foreman si stancasse sferrando colpi poderosi, e poi lo colpì quando era esausto. Quella vittoria, ribattezzata “Rumble in the Jungle”, segnò non solo il ritorno di Ali come campione, ma anche il definitivo consolidamento del “secondo Ali”: più lento, ma anche più intelligente e cinico.
Confrontare il Muhammad Ali degli anni Sessanta con quello degli anni Settanta significa osservare due pugili quasi diversi.
Ali anni ’60: leggero, sfuggente, rapidissimo. Basava tutto sul movimento costante e sulla capacità di non essere colpito. Lavorava in anticipo, prevenendo gli attacchi. Gli avversari raramente riuscivano a toccarlo.
Ali anni ’70: meno rapido, più statico, ma capace di incassare colpi che avrebbero abbattuto altri pesi massimi. Usava le corde, sapeva logorare gli avversari mentalmente e fisicamente, e trovava spiragli per colpire quando la battaglia sembrava perduta.
Un dato interessante è che, sebbene il giovane Ali fosse più spettacolare, molte delle sue vittorie più leggendarie arrivarono proprio nella fase successiva, quando aveva già perso parte della sua velocità. Questo dimostra che non fu la rapidità a renderlo “il più grande”, ma la sua capacità di trasformarsi senza perdere la fame di vittoria.
Non si può, tuttavia, ignorare il prezzo che Ali pagò per questa trasformazione. Rimanere più fermo sul ring significava subire più colpi. I match contro Frazier, soprattutto il terzo – il celebre “Thrilla in Manila” del 1975 – furono autentiche guerre di logoramento. Ali stesso dichiarò che fu “il più vicino alla morte” che avesse mai sentito. La resistenza eroica lo consacrò come leggenda, ma il suo corpo pagò un tributo altissimo.
Con il passare degli anni, il rallentamento diventò inarrestabile. Negli incontri successivi, soprattutto contro Larry Holmes nel 1980, la differenza rispetto al giovane ballerino degli anni Sessanta era drammatica. Ali non era più in grado di difendersi né di reagire con la stessa lucidità. Quello fu il triste epilogo di una carriera gloriosa, ma inevitabilmente segnata dal tempo e dai danni accumulati.
La storia del rallentamento di Muhammad Ali non è soltanto un racconto sportivo: è una lezione universale. Ali dimostrò che la grandezza non sta nell’essere perfetti, ma nella capacità di cambiare. Quando perse la velocità, trovò un’altra strada per vincere. Quando il corpo gli impose dei limiti, usò la mente. Questa trasformazione lo rese più vulnerabile ma anche più umano, più vicino ai suoi tifosi e più grande nella leggenda.
Nessun commento:
Posta un commento