C’è una scena, all’inizio di The Matrix (1999), che è diventata immediatamente iconica. Neo, ancora alle prime armi con la rivelazione del mondo reale, entra in una simulazione di addestramento e si trova faccia a faccia con Morpheus. La sfida non è solo fisica: è un rito di passaggio, un confronto che serve a Neo per capire che le regole possono essere piegate, riscritte, perfino infrante. Ma mentre lo spettatore si lascia trascinare dalla tensione e dai movimenti ipnotici dei due, molti si chiedono: che arte marziale stanno usando?
La risposta, come spesso accade nel cinema, è più complessa e affascinante di quanto sembri.
Per prima cosa va chiarito un punto fondamentale: il combattimento tra Neo e Morpheus non è la rappresentazione fedele di uno stile marziale specifico, bensì un prodotto ibrido noto come film kung fu. Questa definizione non indica una scuola reale, ma piuttosto un linguaggio coreografico nato e sviluppato a Hong Kong, con radici che risalgono agli albori del cinema cinese, intorno al 1905.
Il kung fu reale nasce come disciplina di sopravvivenza e di perfezionamento personale. Ogni stile – che sia la tigre, la gru, la mantide religiosa, il serpente, il leopardo o persino il mitico drago – è un sistema coerente di tecniche offensive e difensive, modellato su principi di efficienza, equilibrio, biomeccanica e filosofia. Un praticante autentico studia anni per interiorizzare movimenti che devono essere rapidi, diretti, efficaci, spesso lontani dall’eleganza che il cinema invece privilegia.
Il kung fu da film, al contrario, prende in prestito le forme e le rielabora per finalità spettacolari. Il suo obiettivo non è neutralizzare un avversario reale, ma catturare lo sguardo dello spettatore. Da qui derivano mosse ampie, posizioni esagerate, colpi circolari e acrobazie rese possibili grazie al cosiddetto wire-fu, cioè l’uso di imbracature e cavi che permettono salti e calci impossibili per un corpo umano non allenato a livello sovrumano.
Il segreto della scena tra Neo e Morpheus ha un nome e cognome: Yuen Woo-ping. Regista e coreografo di combattimenti, Yuen è una leggenda del cinema marziale, noto per aver formato generazioni di attori e per aver trasformato film di arti marziali in vere opere d’arte coreografiche.
La sua bravura non consiste soltanto nel disegnare i movimenti, ma nel saperli adattare agli attori, rendendo credibile ciò che, in mani meno esperte, sarebbe goffo o artificioso. Keanu Reeves e Laurence Fishburne non erano maestri di kung fu: erano attori occidentali senza un background marziale significativo. Per trasformarli in combattenti credibili, Yuen Woo-ping impose quattro mesi di addestramento quotidiano, intensivo e quasi monastico.
Il risultato è un combattimento che unisce tecnica, ritmo narrativo e simbolismo: ogni mossa non è solo un colpo, ma un messaggio.
Sebbene la sequenza non possa essere attribuita a un singolo stile, gli appassionati di arti marziali riconoscono diverse influenze:
Wing Chun: nei movimenti rapidi e lineari delle mani, nelle parate dirette e nei colpi portati al centro del corpo. Non a caso, il Wing Chun è famoso per l’uso del “centrolinea”, principio che si ritrova in molti scambi tra Neo e Morpheus.
Hung Gar e Shaolin tradizionale: nelle posizioni ampie e solide, con ginocchia piegate e peso ben radicato al suolo, tipiche della tigre e della gru.
Wushu moderno: nelle torsioni, nei calci alti e spettacolari, pensati per colpire più la macchina da presa che un ipotetico avversario.
Mantide religiosa e gru: nei gesti più teatrali, con braccia che imitano ali e prese che ricordano le zampette dell’insetto guerriero.
È importante sottolineare che queste influenze non vengono applicate con rigore “accademico”. Non si tratta di un combattimento di Wing Chun puro, né di Shaolin autentico. Sono piuttosto citazioni, suggestioni stilistiche che Yuen Woo-ping mescola per creare un linguaggio visivo universale, immediatamente leggibile anche per chi non ha mai visto una lezione di arti marziali.
Un altro elemento decisivo è il lavoro dietro l’obiettivo. La coreografia, da sola, non basterebbe. È il montaggio a dare ritmo, alternando primi piani e campi lunghi per enfatizzare i colpi, i salti e le reazioni. Gli angoli di ripresa vengono scelti per amplificare l’effetto di un pugno o per esaltare un calcio in volo. Persino il suono – i celebri whoosh e colpi sordi – è parte integrante dell’illusione.
In altre parole, il combattimento non esiste solo tra Neo e Morpheus: esiste tra attori, coreografo, cameraman, montatore e pubblico. È un dialogo collettivo che prende la forma di una danza guerriera.
Ventisei anni dopo l’uscita del film, la scena mantiene intatta la sua forza evocativa. Non è solo questione di nostalgia o di estetica. Quella sequenza incarna una delle verità più profonde sulle arti marziali: al di là della tecnica, contano la disciplina, la dedizione e il coraggio di mettersi alla prova.
Keanu Reeves e Laurence Fishburne non diventarono maestri, ma riuscirono a trasmettere l’essenza del kung fu: il rispetto per l’avversario, la ricerca di equilibrio e l’idea che ogni scontro sia anche un percorso interiore.
E sebbene molte delle mosse mostrate non avrebbero senso in un combattimento reale, il cinema non chiede verità assoluta: chiede emozione. In questo, il “film kung fu” raggiunge il suo scopo meglio di qualsiasi trattato tecnico.
Alla domanda “Quale forma di arti marziali sta usando Neo contro Morpheus?” si può rispondere così: nessuna e tutte insieme. Nessuna, perché non è un’arte marziale pura, bensì un’interpretazione coreografica. Tutte, perché prende in prestito gesti e principi da diverse scuole cinesi, per amalgamarli in un linguaggio visivo universale.
Quella scena è la dimostrazione che il cinema non è mai mera riproduzione della realtà, ma sua reinvenzione. The Matrix non voleva insegnare il Wing Chun o lo Shaolin: voleva mostrare che, in un mondo in cui le regole possono essere riscritte, anche il corpo può superare i limiti della fisica.
Il kung fu di Neo è quindi il kung fu del cinema: una forma di arte marziale reinventata per raccontare storie, capace di trasformare uno scontro in un rito di passaggio e di imprimere nella memoria collettiva l’immagine di due uomini che lottano, ma soprattutto dialogano, dentro una simulazione che parla a tutti noi della libertà di scegliere chi vogliamo essere.
Il kung fu di Neo non appartiene a un dojo o a una tradizione millenaria. Appartiene allo schermo, e proprio per questo, appartiene a tutti noi.
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