Nella storia dei pesi massimi ci sono pugili che hanno incarnato stili diversi e reso immortali le proprie qualità. Alcuni hanno costruito la loro leggenda sulla tecnica, altri sulla potenza distruttiva, altri ancora sull’arte del contrattacco. Eppure, tra i vari archetipi che popolano la boxe, lo swarmer occupa un posto unico: il pugile che non smette di avanzare, che soffoca l’avversario con una pressione incessante, che rende il ring uno spazio sempre più piccolo e asfissiante. Lo swarmer è il guerriero che trasforma ogni incontro in una battaglia di resistenza e coraggio. Se questo stile avesse un volto, sarebbe quello di Joe “Smokin’” Frazier.
Nato nel 1944 a Beaufort, South Carolina, e cresciuto nella povertà, Frazier trovò nella boxe non solo una possibilità di riscatto ma una via per affermarsi come simbolo di determinazione. Trasferitosi a Filadelfia, tempio della boxe dura e concreta, forgiò il suo stile tra palestre polverose e maestri che vedevano in lui un fuoco inarrestabile. Non era il pugile elegante che danzava sul ring, né il tecnico che misurava il tempo con precisione matematica. Era il combattente che marciava in avanti con la testa bassa e il busto oscillante, il corpo pronto ad assorbire e restituire colpi, il gancio sinistro come arma definitiva.
Quell’arma, il gancio sinistro, divenne il suo marchio di fabbrica. Frazier non lo usava come colpo isolato, ma come culmine di un logorante lavoro al corpo, una sequenza che consumava lentamente i polmoni e le gambe degli avversari. Era un colpo improvviso, devastante, capace di cambiare il corso di un incontro in un istante. Per i suoi rivali rappresentava la sentenza di una strategia implacabile, per i tifosi l’incarnazione stessa dello spettacolo.
La sua scalata al titolo mondiale fu rapida e inarrestabile. Dopo aver conquistato l’oro olimpico a Tokyo nel 1964, si impose tra i professionisti fino a indossare la cintura mondiale dei pesi massimi nel 1970, approfittando della sospensione di Muhammad Ali. Ma la storia non aveva previsto per lui una gloria solitaria: il destino lo aveva scelto come antagonista eterno del più grande di tutti, l’uomo che avrebbe diviso il pubblico e trasformato ogni incontro in un evento epocale.
La trilogia tra Joe Frazier e Muhammad Ali è ancora oggi una delle più leggendarie della storia dello sport. Il primo capitolo, nel 1971 al Madison Square Garden, fu annunciato come “The Fight of the Century” e non deluse. Ali, tornato dopo anni di inattività, trovò davanti a sé un Frazier determinato, che avanzò costantemente e lo colpì con un gancio sinistro che fece storia, mandando al tappeto l’imbattuto campione. Dopo quindici round durissimi, i giudici proclamarono Frazier vincitore. Era la prima volta che Ali assaggiava la sconfitta e il mondo vide in Frazier il campione che incarnava lo spirito della pressione, del sacrificio e del fuoco.
Il secondo atto, nel 1974, restituì ad Ali la rivincita. Frazier, meno in forma, trovò un avversario più astuto, capace di controllare il ritmo e neutralizzare parte del suo assalto. Ma il vero capolavoro drammatico fu il terzo incontro, disputato nel 1975 a Manila, nelle Filippine. “The Thrilla in Manila” non fu solo un match, ma una guerra. Per quattordici round i due uomini si colpirono senza tregua, logorandosi oltre i limiti umani. Frazier, con gli occhi tumefatti e quasi ciechi, avanzava ancora, fedele al suo stile, incapace di arretrare. Fu il suo allenatore, Eddie Futch, a fermarlo prima dell’ultimo round, dichiarando che non poteva permettere al suo pugile di sacrificare la vita. Ali stesso, esausto e vicino al collasso, ammise dopo l’incontro che quella notte era stata “la più vicina esperienza all’inferno” della sua vita.
Il confronto con Ali rese Frazier immortale, ma non fu il solo a definire la sua carriera. Nel 1973 affrontò George Foreman, un puncher devastante, e lì emersero i limiti dello swarmer contro la pura potenza. Frazier fu messo al tappeto più volte e perse il titolo, ma anche quella sconfitta contribuì a costruirne la leggenda: non era l’uomo invincibile, ma il combattente che non smetteva mai di provarci, anche di fronte a un avversario più forte fisicamente.
Confrontato con altri grandi swarmer, Frazier rimane l’archetipo più puro. Rocky Marciano, con il suo record immacolato, rappresentava una versione più ruvida e meccanica dello stile. Mike Tyson, negli anni Ottanta, portò lo swarming a un livello esplosivo, unendo potenza e velocità. Ma nessuno dei due, pur nella loro grandezza, incarnò lo swarmer come filosofia di vita quanto Joe Frazier. Marciano era un bulldozer, Tyson una tempesta; Frazier era il fuoco che arde senza sosta, che avanza anche quando sembra spegnersi, che consuma l’avversario e sé stesso nella stessa fiamma.
La sua eredità va oltre le cinture vinte e le sconfitte subite. Joe Frazier rimane l’emblema della boxe come lotta esistenziale, come cammino che non conosce arretramenti. Sul ring rappresentava la pressione costante, l’uomo che trasformava ogni match in un incendio che divorava lo spazio e il tempo. Fuori dal ring, portava con sé la stessa determinazione, anche quando le difficoltà personali lo colpivano duramente.
Se lo stile dello swarmer fosse un’invenzione, Joe Frazier ne avrebbe avuto i diritti di brevetto. Nessuno, prima o dopo di lui, ha interpretato con tale purezza la filosofia dell’avanzare senza sosta, senza compromessi, senza paura. Il suo nome resta inciso nella memoria degli appassionati come il simbolo di un’epoca e di un modo di combattere che non concede tregua. Smokin’ Joe non è stato soltanto un campione, ma la personificazione di una visione della boxe che ancora oggi incendia l’immaginazione. Perché quando pensiamo allo swarmer, quando immaginiamo il pugile che marcia avanti sotto la pioggia di colpi, vediamo ancora lui, con il gancio sinistro pronto a esplodere e la volontà di fuoco che lo rese eterno.
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