domenica 15 maggio 2016

Pai Mei

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«È il legno che deve temere la tua mano, non il contrario. Per forza non ci riesci, ti arrendi prima d'iniziare.»
(Pai Mei durante gli allenamenti con la Sposa, in Kill Bill: Volume 2 di Quentin Tarantino)


Pai Mei (白眉, Bái Méi, Pai Mei, letteralmente "Sopracciglio bianco" in quanto albino; ... – ...) è stato un monaco taoista e maestro di arti marziali cinese. Pai Mei fu un monaco taoista della scuola wutang che contribuì all'incendio del tempio di Shaolin verso il 1763. Si ritiene fosse una spia del governo della dinastia Ching (1644-1901). Egli veniva anche chiamato Pak Mei e, dopo l'incendio del tempio, diffuse uno stile di kung fu, chiamato appunto Pak Mei.
I caratteri cinesi di Pai Mei possono anche essere letti in giapponese はくび (hakubi), parola che significa "buon esempio" oppure "il migliore".
La sua figura è stata d'ispirazione per una figura di malvagio in molti film di arti marziali.

Film
Le prime apparizioni avvengono in pellicole prodotte ad Hong Kong dai fratelli Shaw, come I distruttori del tempio Shaolin (1977) e Il clan del Loto Bianco (1980). In questi film, Pai Mei è interpretato da Lieh Lo, anche regista dell'ultimo.
Dopo più di vent'anni fa nuovamente la sua apparizione in Kill Bill: Volume 2 (2004) di Quentin Tarantino, dove ha il ruolo di un maestro orientale che addestra la Sposa, oltre a Bill e ad Elle Driver. In questo film Pai Mei è interpretato dall'attore Chia Hui Liu che, secondo le continue citazioni cinefile da parte di Tarantino, aveva recitato in Il clan del Loto Bianco.

Era Shaw
In I distruttori del tempio Shaolin e Il clan del Loto Bianco, Pai Mei è interpretato da Lieh Lo.


I distruttori del tempio Shaolin
Pai Mei e il governo Ching sono nemici del tempio Shaolin, decidono di distruggerlo radendolo al suolo ed uccidendo tutti i monaci all'interno. Alcuni discepoli, mascherandosi da attori di teatro, riescono però ad evadere dal tempio dove il sacerdote sta compiendo una razzia. Rifugiatosi a casa con la moglie Fang Yong-chun, Hong Xi-Quan si allena per dieci anni con sua moglie, migliorando il suo stile Tigre. Sua moglie invece impara lo stile Gru: nel frattempo nasce un figlio che si allena apprendendo sia lo stile del padre che quello della madre, creando il Tigre-Gru. Intanto il padre si va a confrontare con Pai Mei e muore nel combatterlo, apprendendo però che è vulnerabile tra l'una e le tre del pomeriggio.

Il clan del Loto Bianco
Il figlio di Hong Xi-Quan e Fang Yong-chun, insieme ad un amico, riesce a trovare Pai Mei tra le rovine di un tempio Shaolin e riescono a sconfiggere il maestro unendo i due letali stili di kung fu e riuscendo a scovare il suo unico punto debole, situato nel pene.

Kill Bill vol. 2
In Kill Bill: Volume 2, Pai Mei è interpretato da Chia Hui Liu.


La leggenda di Pai-mei
Il racconto che Bill narra alla Sposa mentre sono attorno al fuoco dice:
«Tanto tempo fa, in Cina - si trattava all'incirca dell'anno 1003 - il sommo sacerdote del Clan del Loto Bianco Pai Mei stava camminando per strada, contemplando qualsiasi cosa un uomo dal potere infinito come Pai Mei potesse contemplare - il che è un bel modo per dire "chi lo sa?" - quando un monaco Shaolin apparve nella strada, diretto dalla parte opposta. Quando il monaco e il prete si incrociarono, Pai Mei, in una pressoché inspiegabile dimostrazione di generosità, rivolse al monaco un impercettibile cenno di saluto. Il cenno non fu ricambiato. Intenzione del monaco era forse quella di insultare Pai Mei? O forse non era egli riuscito a vedere il generoso gesto sociale? Le ragioni del monaco restano ignote ma sono note le conseguenze. Il mattino seguente, Pai Mei si presentò al tempio Shaolin e pretese che il sommo abate del tempio gli offrisse il suo collo da tagliare per rimediare all'insulto. L'abate, all'inizio, cercò di consolare Pai Mei, ma ben presto si accorse che Pai Mei era inconsolabile. Così cominciò il massacro del tempio Shaolin e di tutti i 60 monaci che ospitava per mano del Loto Bianco. E così cominciò la leggenda della tecnica dell'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita.»


Da questo breve racconto si deduce:
  • L'età di Pai Mei: secondo la leggenda, ambientata nel 1003, ai tempi del flashback, Pai Mei dovrebbe all'incirca avere 1000 anni, anche se nella sceneggiatura si dice che ne abbia "solo" 150.
  • La crudeltà di Pai Mei, la sua severità e l'inflessibilità.
  • L'esistenza della tecnica dell'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita.
Beatrix Kiddo e Pai Mei
Bill, capo della D.V.A.S., pretese che Beatrix, che voleva divenire membro della squadra, fosse allenata dal crudele sacerdote del clan del Loto Bianco. La portò al tempio del maestro, dove la donna si allenò seguendo le sue terribili regole. Benché Pai Mei fosse estremamente severo e violento negli allenamenti, Beatrix si dimostrò all'altezza e riuscì a sopportarli.
Beatrix imparò a frantumare del legno con un pugno, seguendo il motto di Pai Mei:
«È il legno che deve temere la tua mano, non il contrario. Per forza non ci riesci, ti arrendi prima d'iniziare.»
Perfezionò inoltre l'arte della spada samurai, che all'inizio degli allenamenti le era stata ridicolizzata da un combattimento col maestro, che alla fine di esso era riuscito addirittura a porsi in equilibrio sulla spada. Alla fine del periodo di allenamento, tutto fa supporre che Beatrix rimanga in buoni rapporti con Pai Mei, divenendo un'esperta conoscitrice delle tecniche impartitele, nonostante importanti difficoltà di comunicazione: Pai Mei, infatti, parla un fluente dialetto cantonese del cinese, incurante del fatto che Beatrix non lo parli bene; anche quando Beatrix tenterà di comunicare in giapponese, lingua che conosce molto bene, Pai Mei si rifiuterà categoricamente di parlarlo in quanto prova un profondo disprezzo per i giapponesi. Nonostante il disprezzo di Pai Mei per gli uomini bianchi e il suo fastidio nel sopportare con fatica le donne, Beatrix è stata l'unica a cui Pai Mei abbia insegnato la tecnica definitiva del loto bianco: l'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita. Una tecnica mai insegnata a nessuno, nemmeno a Bill. Durante gli allenamenti di Beatrix, tuttavia, si può notare Pai Mei sorridere leggermente, mostrando un certo compiacimento nel vedere la sua allieva allenarsi con tanta determinazione. Un altro fattore che indichi che Pai Mei abbia una aspettativa nettamente più alta in Beatrix nei suoi altri precedenti allievi sta nel fatto di avere offerto a Beatrix la sua ciotola di riso.

Elle Driver e Pai Mei
Successivamente alla Sposa, Pai-mei addestrò Elle Driver, sempre del gruppo di Bill. Elle Driver, assai meno controllata di Beatrix, chiamò però Pai Mei con l'appellativo di
«Miserabile stupido vecchio.»

Per quest'offesa arrecatagli, Pai Mei strappò a Elle l'occhio destro. La donna, sanguinante, si accasciò per terra.

Morte di Pai Mei
A giorni di distanza da quell'episodio, Elle Driver per vendetta uccise Pai Mei avvelenando le teste di pesce del maestro.

Età di Pai Mei
Nel backstage, David Carradine dichiara di aver storpiato il numero 1883, rendendolo simile alla pronuncia di 1003, a causa di come si dicono in inglese i numeri nelle date. In questo caso Pai Mei avrebbe "solo" circa 130 anni. È anche possibile che Pai Mei non sia una persona specifica, bensì un titolo che spetta al gran sacerdote del Clan del Loto Bianco. In questo modo Pai Mei potrebbe avere un'età normale e il fatto che egli muoia nei film precedenti non costituirebbe una contraddizione.


sabato 14 maggio 2016

Purāṇa

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I Purāṇa (devanāgarī: पुराण; lett. "antiche [storie]") sono un gruppo di testi sacri hindū, redatti in lingua sanscrita, di carattere principalmente mitico e cultuale, il cui scopo primario è anche quello dell'educazione religiosa di coloro che non sono considerati dvija (i "nati due volte", i componenti delle prime tre caste hindū: brāhmaṇa, kṣatriya e vaiśya), quindi gli śudra e le donne, ai quali è severamente proibito l'ascolto o la lettura dei testi detti Śruti, ovvero le raccolte dei quattro Veda. Così il commentatore dei Veda, Sāyaṇa Ācārya (XIV secolo):
«[...] alle donne e agli śudra, sebbene abbiano anch'essi bisogno della scienza sacra (jñāna), è impedito di accedere al Veda, giacché essi sono privati del vantaggio di studiarlo (adhyayana) per non aver ricevuto l'investitura del cordone sacro (upanayana); conseguono però la conoscenza del dharma e del Bráhman per mezzo dei Purāṇa e di altri libri di questo genere.»
(Sāyaṇa Ācārya (XIV secolo), Vedārthaprakāśa; citato in Giuliano Boccali, Stefano Piano, Saverio Sani. Le letterature dell'India. Torino, Utet, 2000, p. 219)
Per questa ragione i Purāṇa, che fanno parte della raccolta Smṛti, sono indicati anche come il "quinto" Veda" già a partire dalla Chāndogya Upaniṣad:

(SA)
«nāma vā ṛgvedo yajurvedaḥ sāmaveda ātharvaṇaś caturtha itihāsapurāṇaḥ pañcamo vedānāṃ vedaḥ pitryo rāśir daivo nidhir vākovākyam ekāyanaṃ devavidyā brahmavidyā bhūtavidyā kṣatravidyā nakṣatravidyā sarpadevajanavidyā
nāmaivaitat
nāmopāssveti»
(IT)
«Nomi, e cioè il Ṛgveda, lo Yajur-veda, il Sāma-veda ed infine lo Atharvaṇa come quarto, gli itihāsa ed i purāṇa come quinto, il Veda dei Veda, il rituale per i mani, il calcolo, la divinazione, la conoscenza dei tempi, la logica, le regole di condotta, l'etimologia, la conoscenza degli Dei, la conoscenza dello Spirito Supremo, la scienza delle armi, l'astronomia, la scienza dei serpenti, degli spiriti e dei geni; tutto ciò non sono che nomi. Considera però attentamente ciò che significa 'nome'.»
(Chāndogya Upaniṣad, VII,1,4: traduzione di Pio Filippani Ronconi)



Da tener presente anche che, dal punto di vista tradizionale, la letteratura degli Itihāsa-Purāṇa è una letteratura "scritta" a differenza di quella vedica che è una cultura, ancora, "orale" e che va appresa quindi solo mnemonicamente, essendo fondata soprattutto sulla sonorità (śabda). Essendo la scrittura una pratica che non dà in alcun modo accesso al "sapere" essa è affidata a persone di rango "inferiore".
Inoltre, va tenuto presente che gli appartenenti alle famiglie relative alle prime tre caste sono appena l'8,5% dell'intera società hindū (questa computata sulle quattro caste, esclusi quindi gli avarṇa) e che da questa percentuale vanno sottratte le donne, ciò dà la cifra dell'importanza religiosa per gli hindū della letteratura scritta degli Itihāsa-Purāṇa.



Origini e stile

Il termine purāṇa compare già nelle scritture vediche con il significato di "antica tradizione" finendo per indicare, col tempo, quelle raccolte di narrazioni tradizionali inerenti ai miti e alle pratiche di culto, il cui autore, secondo la tradizione, sarebbe il mitico Vyāsa (lett. "il Compilatore").
Questi testi affondano, quindi e probabilmente, le loro radici in un passato remoto, essendo un vero e proprio ricettacolo di saperi tradizionali, originariamente narrati da bardi detti sūta.
La critica moderna ritiene, tuttavia, che i Purāṇa più antichi, considerati però nella forma giunta a noi, vadano fatti risalire a redazioni compiute nei primi secoli della nostra èra.
Così Stefano Piano:
«Ritengo che sia lecito supporre che testi alternativi al Veda e adatti alla formazione religiosa delle donne e dei "non rigenerati" esistessero in India da tempi molto antichi; di tali testi continuamente arricchiti di nuovi materiali, dovettero cominciare a formarsi, attorno ai primi secoli, dell'era volgare e per iniziativa dei brahmani, le prime raccolte, probabilmente differenziate in base alle esigenze particolari delle diverse comunità e alla loro collocazione geografica.»
(in Giuliano Boccali, Stefano Piano, Saverio Sani. Le letterature dell'India. Torino, Utet, 2000, p. 219)



Essendo prevalentemente indirizzati alle caste "inferiori", il sanscrito utilizzato in questi testi è piuttosto semplice, presentando perfino delle irregolarità grammaticali e delle frasi idiomatiche popolari, nonché influenze dialettali. Per la stessa ragione, la messa per iscritto e la copiatura di tali testi è, a differenza per quelli contenuti nella Śruti, considerata opera meritoria.
Tutti i Purāṇa presentano quindi numerose stratificazioni, nonché diverse parti in comune tra loro, oltre a interpolazioni e a revisioni continue:
«I Purāṇa sono stati continuamente riveduti e aggiornati nel tempo fino all'epoca delle prime edizioni a stampa apparse attorno alla fine dell'Ottocento Di qui l'aleatorietà e temerarietà d'ogni ipotetica datazione.»
(Antonio Rigopoulos, Introduzione ai testi tradotti, in Hinduismo antico, vol.1 (a cura di Francesco Sferra). Milano, Mondadori, 2010, p. CXCVI-CXCVII)



Questo impedisce una loro precisa datazione, e cronologia, anche se il Bhāgavata-Purāṇa può essere considerato il più recente tra quelli detti "maggiori" (mahāpurāṇa).



Mahāpurāṇa e Upapurāṇa

Una iniziale canonizzazione dei testi purāṇici si avvia verso il III secolo a.C., fissandosi tra il III e il VII secolo d.C..
Tale canonizzazione procede lungo un mito eziologico presente, con leggere varianti, nel Matsya, nel Nārada e nello Skhanda Purāṇa, che vuole un originario purāṇa, composto da un miliardo di strofe, venire suddiviso e sintetizzato in 18 purāṇa per complessive 400 mila strofe. La più antica lista di diciotto testi puranici principali (detti Mahāpurāṇa) è contenuta nel Mahābhārata (per quanto resti il dubbio di un'interpolazione del testo): l'insieme formato di queste opere più l'altro grande Itihāsa indiano, il Rāmāyaņa, è stato definito come un quinto Veda, e per la portata massiva del loro insegnamento etico e religioso, e per l'importanza storica e culturale che questi testi hanno assunto attraverso i secoli. Vengono sovente indicati in letteratura con il composto Itihāsa-Purāṇa.
Accanto a questa lista di opere maggiori vennero compilate diverse liste elencanti diciotto Purāņa minori o secondari, detti Upapurāṇa, che sono in verità presenti in numero assai maggiore e trattano dei più svariati argomenti, i quali spesso non sono rintracciabili nei Mahāpurāṇa.



Argomenti trattati

Viene tradizionalmente affermato che l'argomento affrontato dai Purāṇa è il pañcalakşaņa, ossia le "cinque caratteristiche distintive" qui di seguito elencate:
  1. sarga (creazione [del cosmo]);
  2. pratisarga (ciclicità [del cosmo]);
  3. vaṃśa (genealogia [divina]);
  4. manvantara (epoche [cosmiche], lett. "altro Manu");
  5. vaṃśānucarita (genealogia dinastica).
In verità questi temi sono presenti solo in minima parte nelle opere e rappresentano più che altro un tentativo di canonizzazione teorica della letteratura puranica.
Si può dire che i Purāṇa si basano prevalentemente su testi di carattere mitologico che tendono in definitiva a sfociare nella glorificazione di una divinità piuttosto che un'altra (le più celebrate sono Vişņu, spesso sotto forma di avatara, Śiva ,la Śakti e infine Brahma), ma anche a esaltare il potere salvifico e purificatore di taluni luoghi sacri, periodi temporali, pratiche devozionali (bhakti) e qualità dello spirito. Questi testi, detti Māhātmya (contrazione di mahātman, traducibile non letteralmente con "grandezza"), costituiscono la parte prevalente di molti Purāṇa; ad essi sono poi associati altri tipi di testo, come le Gītā (canti divini che hanno come modello la celeberrima Bhagavadgītā), gli strota (inni laudativi) e varie storie di carattere edificante. Tutte queste tipologie testuali sono indipendenti l'una dall'altra ma vengono associate insieme per formare quel quadro composito che è il Purāṇa, sebbene, almeno per quanto riguarda taluni Māhātmya, si abbiano attestazioni di una loro redazione autonoma.

Classificazione dei Purāṇa maggiori

Esistono in letteratura varie classificazioni dei Purāṇa maggiori (Mahā Purāṇa): cronologiche, in base alle divinità o in base alle guṇa. Invero non esiste un accordo univoco fra gli studiosi in nessuna delle prime due classificazioni, e fra le tre quella in base alle divinità è forse la più aleatoria, dato che diversi Purāṇa contengono sezioni dedicate a più divinità (per esempio nello Śiva Purāṇa due capitoli sono dedicati a Viṣṇu).
Seguendo la classificazione in base alle tre guṇa, e cioè: rājas (generazione, passione: attributo di Brahmā); tāmas (dissolvimento, oscurità: attributo di Śiva); sāttva (mantenimento, verità: attributo di Viṣṇu), abbiamo la seguente classificazione:
  • Rājasika Purāṇa:
    • Bhaviṣya Purāṇa
    • Brahmā Purāṇa
    • Brahmavaivarta Purāṇa
    • Brahmāṇḍa Purāṇa
    • Mārkaṇḍeya Purāṇa
    • Vāmana Purāṇa
  • Tāmasika Purāṇa:
    • Agni Purāṇa
    • Kūrma Purāṇa
    • Liṅga Purāṇa
    • Matsya Purāṇa
    • Śiva Purāṇa
    • Skanda Purāṇa
  • Sāttvika Purāṇa:
    • Bhāgavata Purāṇa
    • Garuḍa Purāṇa
    • Nāradīya Purāṇa
    • Padma Purāṇa
    • Varāha Purāṇa
    • Viṣṇu Purāṇa

Il phala

Il fine ultimo posto dai Purāṇa è l'acquisizione di un phala (lett. "frutto", in questo caso traducibile con "merito spirituale"). Esso si può ottenere nei modi più vari (nelle singole opere spesso si possono trovare indicazioni specifiche): principalmente attraverso la lettura, l'ascolto del testo e rendendo devozione al dio in esso celebrato, ma anche seguendo le indicazioni date sul pellegrinaggio in luoghi sacri e addirittura semplicemente possedendolo o facendone dono a un brahmano.






venerdì 13 maggio 2016



Ascia-daga
- Gē

Testa in bronzo di una Gē della Dinastia Zhou




L'ascia-daga (in caratteri cinesi tradizionali, in pinyin e ko in Wade-Giles) era un'antica arma inastata in uso alle truppe di fanteria cinesi dal tempo della Dinastia Shang (XVI-XI secolo a.C.) a quello della Dinastia Han (II secolo a.C.-II secolo). Consisteva di una lama di daga innestata perpendicolarmente in un bastone. A volte, questa testa metallica (bronzo o ferro, gli esemplari in giada avevano valenza cerimoniale), poteva presentare una seconda lama di falce.


Storia

Apparsa durante il regno della Dinastia Shang, l'ascia-daga restò in uso alle truppe di fanteria dei regni cinesi per secoli. Al momento dell'unificazione della Cina sotto la Dinastia Qin (221 a.C.-206 a.C.), divenne arma inastata d'ordinanza della fanteria imperiale, venendo prodotta in milioni di esemplari. Dopo quasi un millennio, l'ascia daga, nata come arma in bronzo e poi riconfigurata quale arma in ferro, sparì bruscamente dagli arsenali cinesi dopo il regno della Dinastia Han, nel III secolo.
I ritrovamenti archeologici di realizzate in giada ha portato gli studiosi ad approfondire il significato simbolico attribuito dalla società della Cina antica a quest'arma. Il rinvenimento di piccoli esemplari utilizzati con buona probabilità come pendagli e la presenza delle di giada nei corredi funebri di molti aristocratici cinesi del tempo ha confermato la sicura importanza dell'arma nel complesso bagaglio simbolico dell'antichità sinica. La era, con buona probabilità, un simbolo di forza e potere, fors'anche un simbolo benaugurale.

giovedì 12 maggio 2016

Jitte

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Il Jitte (十手 jitte) o jutte, letteralmente "dieci mani", è un'arma bianca manesca del tipo manganello originaria del Giappone. Composta da una sbarra di ferro immanicata in un'impugnatura, dispone di una sorta di guardia composta da una seconda stanga metallica, di ridotte dimensioni, che diparte dal manico descrivendo un angolo retto quasi fosse una baionetta. Era arma precipua dei funzionari dell'ordine pubblico.
Il jitte è ora l'arma principale dell'arte marziale giapponese Juttejutsu.

Storia

Si ritiene che la forma originale del jitte sia stata creata dal leggendario forgiatore di spade Masamune forse nel XIII secolo, anche se taluni studiosi propendono invece per l'attribuirne l'invenzione al padre, Munsinai. È poi ancora da definirsi se si sia trattato di una evoluzione del sai, altra "daga da botta" nipponica, o se sia stato quest'ultimo a derivare dal jitte. Il dato certo è che il jitte appartiene al novero delle armi tradizionali giapponesi prive di lama sviluppate per equipaggiare le guardie ed i funzionari dello Shogun cui era fatto assoluto divieto, pena la morte, di portare spade, coltelli o quant'altro nel palazzo del loro signore. Il jitte è così divenuta l'arma tradizionale delle forze di polizia nipponiche durante il Periodo Edo (1603-1868).

Costruzione

La forma del jitte ricorda moltissimo quella del sai, dal quale si differenzia solo per il non avere la guardia ad "U":
  • Il corpo dell'arma è costituito da una solida stanga di ferro (boshin) dalla larghezza solitamente omogenea, seppur esistano modelli più rastremati in prossimità della punta. La sezione del boshin poteva essere circolare o poligonale, mentre la punta (sentan) poteva essere piatta o cuspidata. Esistevano anche jitte con il boshin in legno;
  • L'impugnatura (tsuka), ad una mano, è costituita dalla parte terminale della stanga, spesso avvolta in strati di stoffa come l'impugnatura del katana. Un rebbio di ferro (kagi), lungo circa 5 cm, diparte a mo' di guardia dal manico, salendo parallelamente alla stanga. Un anello di metallo (kan) chiude posteriormente il manico dell'arma, permettendo il passaggio di una corda.
Nell'insieme, il jitte rassomiglia quindi più una daga dalla lama non affilata, quasi uno spiedo da guerra ad una mano, più che un manganello vero e proprio. L'arma poteva presentare, occultato nell'impugnatura, un piccolo pugnale, o essere montata nell'impugnatura e nel fodero di una spada corta tipo tanto. La dimensione complessiva standard era di circa 45 cm, con esemplari che potevano variare dai 30 ai 60 cm.
Arma atta ad offendere di botta o di punta, il jitte, grazie al kagi, garantiva all'utente una scherma raffinata. Il rebbio in metallo poteva infatti essere efficacemente usato per bloccare la lama di una spada nemica, forse fin anche a spezzarla, e, pratica certo più diffusa, permetteva di agganciare le vesti o la corazza dell'avversario, oltre che di colpire precisi bersagli "eccellenti" come gli occhi, il naso o la bocca di un nemico privo di elmo.

mercoledì 11 maggio 2016

Kūrma Purāṇa

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Il Kūrma Purāṇa è uno dei diciotto Purāṇa principali, i Mahā Purāṇa. Si crede che sia stato direttamente narrato dal Signore Viṣṇu al saggio Nārada, e contiene i dettagli sulla vita dell'avatāra Kūrma. Si ritiene che Nārada ne abbia condiviso con Suta il contenuto, e che questi a sua volta lo abbia declamato a un gruppo di grandi saggi.

Contenuti

Le edizioni di questo testo sono suddivise in due parti (bhāga): il Pūrvabhāga composto da 53 capitoli, e l'Uttarabhāga con 46 capitoli.
Secondo la tradizione, il Kūrma Purāṇa originariamente era costituito da quattro raccolte: la Brāhmī Saṁhitā, la Bhāgavatī Saṁhitā, la Saurī Saṁhitā e la Vaiṣṇavī Saṁhitā. Il testo attualmente noto corrisponderebbe alla prima raccolta, la Brāhmī Saṁhitā.
Un altro testo, il Nārada Purāṇa, fornisce una breve panoramica del contenuto: la Brāhmī Saṁhitā consisteva di 6000 versi (sloka) e l'argomento è in sintonia con l'esistente Kūrma Purāṇa. La Bhāgavatī Saṁhitā consisteva di 4000 sloka ed era stata suddivisa in cinque sotto-sezioni (pāda). Quest'ultima raccolta era anche conosciuta col nome alternativo di Pañcapadī, e descriveva i doveri delle caste: i Bramini, gli Kshatriya, i Vaishya, i Sudra e le caste miste.
La Saurī Saṁhitā era composta da 2000 sloka e suddivisa in sei pāda. In questa sezione venivano descritti sei atti magici: śānti, vaśīkaraṇa, stambhana, vidveṣaṇa, uccāṭana e māraṇa.
La Vaiṣṇavī Saṁhitā era composta da 5000 sloka ed era stata suddivisa in quattro pāda; argomento principale era la mokṣa dharma.

martedì 10 maggio 2016

Jidai-geki

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Jidai Geki (時代劇) è un termine che indica un genere storico ambientato in un contesto temporale ben preciso usato nel settore cinematografico, televisivo o teatrale in Giappone.
La parola vuole dire rappresentazione del periodo, dramma storico e di solito indica un film (o rappresentazione teatrale) ambientato nell'era cosiddetta periodo Tokugawa (1603/1867). Tuttavia alcuni film jidai-geki sono ambientati anche prima di tale periodo, come nell'epoca Sengoku.
Il genere Jidai Geki narra le vicende di samurai, contadini, fabbri, mercanti ed il termine è spesso accostato al genere Chambara (chambara significa combattimento con le spade).
Tra i film più rappresentativi conosciuti in Italia, ci sono quelli di Akira Kurosawa (I sette Samurai, La sfida del Samurai, Sanjuro, Kagemusha), la saga dello spadaccino cieco Zatoichi e il recente Twilight Samurai (Tasogare Seibei, tradotto in Italia col nome di Crepuscolo, il Samurai o più correttamente "Il samurai del crepuscolo"); quest'ultimo, come molto spesso negli ultimi anni, è ambientato proprio negli anni finali del periodo Tokugawa. Fra i registi molto conosciuti in Giappone che hanno lasciato opere memorabili, quasi tutte disponibili su internet, ci sono Masaki Kobayashi, Kazuko Kuroki, Masahiro Makino, Masahiro Shinoda e Eiichi Kudo il cui "Jûsan-nin no shikaku" (I tredici assassini) del 1963 è stato ripreso in un remake da Takashi Miike e presentato al festival di Cannes 2011.

Storia

“Cinema giapponese per eccellenza”, il jidaigeki ha segnato per più di sessant'anni la storia del cinema nipponico, sino al dissolversi dello studio system negli anni settanta, ad eccezione di una parentesi tra il 1945 e il 1950, il periodo dell'occupazione americana, in cui la loro produzione era stata bandita perché ritenuti portatori di valori feudali poco consoni al processo di democratizzazione. Nel corso della sua storia il jidaigeki ha conosciuto tante anime, dalla dimensione epica a quella nichilista, da quella quotidiana e minimalista a quella crepuscolare, da quella antifeudale a quella segnata dalle riletture del Nuovo Cinema degli anni sessanta, sino ad assumere, recentemente, una dimensione postmoderna. Il jidaigeki si è imposto nell'ambito sia della produzione di genere-per lungo tempo in Giappone uno su due è stato un film in costume- sia di quello d'autore. Esso ha fatto la fortuna di diversi registi di primo piano della storia del cinema del suo paese, sia di prima (Daisuke Ito, Sadao Yamanaka, Mansaku Itami, Masahiro Makino) che degli anni successivi alla guerra (Hiroshi Inagaki, Kenji Mizoguchi, Akira Kurosawa, Masaki Kobayashi, Hideo Gosha, Kihachi Okamoto, Kenji Misumi). Ha influenzato ed è stato a sua volta influenzato da altri generi, dando vita a particolari commistioni –soprattutto con il western, lo spaghetti western e il wuxia. Il jidaigeki non ha però retto alla generale crisi cinematografica giapponese degli anni settanta, così come dai mutati gusti del pubblico, spinto da nuove sollecitazioni.
Se il genere tenta di adattarsi al dinamismo dei tempi assorbendo gli eccessi spettacolari e ad effetto del wuxia, di fatto viene soppiantato dallo Yakuza film, che ne rappresenta un ideale proseguimento in un contesto più adatto al Giappone dell'epoca. Vistisi ridotti i suoi sbocchi sul mercato cinematografico, il jidaigeki emigra sul piccolo schermo dove continua a sopravvivere, seppur con discreto successo.
Gli anni ottanta e novanta sono probabilmente i più bui del genere, ma proprio alla fine del decennio Nagisa Oshima gli ridà lustro con il suo ultimo film, Tabú - Gohatto, e altri registi vi fanno ritorno, da veterani come Yoji Yamada, da esponenti della nuova generazione come Sogo Ishii, Takeshi Kitano, Takashi Miike, Hirokazu Koreeda, Hideo Nakata, Ryuhei Kitamura e Hiroyuki Nakano.

lunedì 9 maggio 2016

Hoang Ngan Nguyen

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Nguyen Hoang Ngan (Hanoi, 21 ottobre 1984) è una karateka vietnamita.
Sorella del Ministero della Pubblica Sicurezza squadra di karate, che è stata soprannominata la "Regina del Kata". Lei è una studente di Gran Maestro Doan Dinh lungo (Karate-do Suzucho setta). È nata a Dong Da, Hanoi, poi viene reclutata in Vietnam nel team di karate e spesso i padroni stranieri la hanno addestrata nel kata. È un boxer femmina Vietnamita del karate, vincendo la medaglia d'oro nei Campionati del Mondo di Karate a Tokyo (Giappone) nel 2008, Medaglia d'oro per i singoli (Kata) delle donne ai Giochi Mondiali di Kaohsiung, Taiwan nel 2009, il campionato di karate mondiale tenutasi in Grecia nel 2006 e il mondo della Coppa Karatedo Kobe-Osaka Cup in Bulgaria nel 2007. Inoltre ha vinto la medaglia d'argento per il singolare femminile e la squadra medaglia di bronzo femminile a SEA Games 24. Hoang Ngan Nguyen è stata ufficialmente riconosciuta nel World Games produttività 9 ° posto dal 25/7 al 2013/04/08 nella città di Cali, in Colombia.
Nei giochi mondiali del 2013 dispone di 32 discipline sportive e 4 partite spettacoli ufficiali. Combattimenti di gruppo nel programma della competizione ufficiale del congresso comprendono Sumo, Karate e Ju -Jitsu. Come i pugili eseguiti (kata) di primo piano, Hoang Ngan Nguyen è idoneo a partecipare al congresso che il Karatedo Federazione mondo coniato. Lei è in procinto di recuperare un infortunio al ginocchio, dopo aver vinto la medaglia d'oro al German Open nel settembre dello scorso anno. Dopo questo torneo, ebbe un intervento chirurgico. Prima di allora, aveva trascorso un lungo periodo feriti e di azione per due anni prima di tornare al German Open nel 2012. Hoang Ngan Nguyen pratica lo stile Shito-ryu.

domenica 8 maggio 2016

Bodhisattva

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Bodhisattva (devanāgarī बोधिसत्त्व) è un sostantivo maschile sanscrito che significa "Essere (sattva) 'illuminazione' (bodhi)". È un termine proprio del Buddhismo.
Nelle altre lingue asiatiche il termine bodhisattva è così reso:
  • pāli: bodhisatta;
  • cinese púsà (菩薩);
  • giapponese bosatsu (菩薩);
  • coreano bosal (보살);
  • tibetano changchub sempa (byang-chub sems-dpa');
  • vietnamita: bồ tát.




Interpretazioni del termine

  • Secondo Nakamura Hajime il termine bodhisattva indica nel Buddhismo un essere la cui intima natura corrisponde al "Risveglio" oppure "colui che cerca di conseguire il 'Risveglio'" o ancora "colui la cui mente (sattva) è fissa sulla bodhi".
  • Paul Williams offre una definizione precisa, ovvero "colui che sta percorrendo la via per diventare un buddha". Williams nota tuttavia che, mentre non ci sono dubbi sul termine bodhi, proveniente dalla radice indoaria budh (da cui Buddha), che indica il Risveglio spirituale, il termine sanscrito sattva offre diverse interpretazioni: "essere senziente", "essenza", "coraggio" e in questo senso può indicare l'"essere che si incammina verso la bodhi", oppure colui che è di "essenza-bodhi", o ancora colui che è un "eroe del Risveglio".



Il bodhisattva nel Buddhismo dei Nikāya e nel Buddhismo Theravāda










Il bodhisattva Maitreya seduto su un trono in stile greco, risalente all'epoca Kushan, Gandhara, II secolo (Tokyo, Museo Nazionale).






L'idea centrale del Buddhismo dei Nikāya e del Buddhismo Theravāda è che ci sia un solo buddha per ogni Era.
Nel quadro di queste dottrine, per divenire un buddha occorreva che il Buddha storico, Gautama Buddha, avesse precedentemente pronunciato un voto (praṇidhāna) all'epoca del Buddha Dīpaṃkara il quale predisse la venuta di Gautama Buddha nella nostra Era e nel nostro mondo.
Il futuro buddha Gautama, quando era il brahmano Sumedha, pronunciò il "voto" di bodhisattva davanti al Buddha Dīpaṃkara, avviando quindi un percorso di "perfezioni" (pāramitā), con particolare riguardo alla generosità (dāna) e alla saggezza (prajña), al fine di raggiungere la bodhi. Questo percorso di perfezionamente spirituale progressivo nelle varie Ere è concepito, per questo tipo di Buddhismo, come 'raro' (raro come il fiorire dell'Udumbara) e riguarda un ristrettissimo numero di esseri (tra gli otto e i venticinque), tutti umani (mānuṣibuddha).
Coloro che ascoltano e seguono gli insegnamenti di un "buddha", ovvero gli śrāvaka (ascoltatori della voce [di un buddha]), possono realizzare la bodhi divenendo degli arhat e raggiungere il nirvāṇa, ma non possono realizzare la buddhità (l'illuminazione dei Buddha, anuttarā-samyak-saṃbodhi), essendo la "buddhità" riservata solo e unicamente ai buddha.
Gli śrāvaka non hanno mai potuto realizzare lo stato di buddha in quanto il loro "Risveglio" è determinato dall'ascolto degli insegnamenti altrui e non provocato da quello che Nakamura Hajime definisce un "dramma cosmico" che porta all'apparizione di un buddha.
Il bodhisattva, per queste scuole, è dunque quel 'raro' essere che numerosi eoni prima ha pronunciato un "voto" per raggiungere la bodhi e salvare gli altri esseri senzienti grazie all'esperienza della suprema conoscenza (sarvajñāna).
Gautama Buddha, il fondatore del Buddhismo, nella sua vita precedente a quella in cui raggiunse lo stato di buddha era per questo un bodhisattva, e bodhisattva può essere solo colui che in futuro diverrà un buddha, i suoi discepoli possono solo ambire allo stato di arhat conseguendo il nirvāṇa.
Le gesta da bodhisattva compiute da Gautama Buddha nelle sue precedenti esistenze sono raccontate nei Jātakamāla, in cui i fedeli cercano ispirazione, leggendo di come Gautama Buddha abbia raggiunto il "Risveglio" nel prosieguo delle sue precedenti vite. Lo stesso Gautama, quando riferisce della sua esistenza prima di divenire un buddha, si esprime "quando ero ancora un Bodhisattva".
In questa tradizione quando un bodhisattva raggiunge lo stato di buddha, dopo la morte entra nel parinirvāṇa e cessa di rinascere per predicare il Dharma, ciò che resta di lui è il Dharmakāya, ovvero il "corpo" dei suoi insegnamenti raccolti e tramandati dai suoi discepoli. L'unico altro bodhisattva menzionato nel Canone Pāli è il prossimo Buddha, Maitreya. Nella tradizione Theravāda, perciò, non esistono altri bodhisattva.




Il bodhisattva nel Buddhismo Mahāyāna

Nāgārjuna (II secolo d.C.) considerato il padre del Buddhismo Mahāyāna e Vajrayāna in una stampa cinese.


Ritratto del monaco giapponese zen Dōgen (1200-1253) conservato presso il tempio Hōkyō-ji (宝慶寺) in Giappone, Prefettura di Fukui.


Guàndǐng (灌頂, 561-632) fu uno dei patriarchi del Buddhismo Tiāntái.




Nichiren (日蓮,, 1222-1282), maestro buddhista giapponese.




Gampopa, maestro buddhista tibetano dell'XI secolo.












Secondo le dottrine del Buddhismo Mahāyāna, invece, lo stato di buddha può essere conseguito da qualsiasi "essere senziente", possedendo ogni "essere senziente" la "natura di buddha" (tathāgatagarbha).
Ne consegue che chiunque pronunci con sincerità il voto di bodhisattva (praṇidhāna) è un bodhisattva e col prosieguo del tempo, e grazie alla costante pratica delle pāramitā, può realizzare la piena "buddhità" (anuttarā-samyak-saṃbodhi) e divenire esso stesso un buddha perfettamente illuminato (samyaksaṃbuddha).
Il voto del bodhisattva (praṇidhāna) nella letteratura religiosa Mahāyāna richiama inequivocabilmente il desiderio di condividere la bodhi con tutti gli esseri senzienti, così il Prajñāpāramitāsūtra più antico (composto a cavallo della nostra Era), l'Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā:

«Collocherò me stesso nella "talità" (tathātā) e, in modo che tutto il mondo possa essere soccorso, collocherò tutti gli esseri nella "talità", e condurrò al nirvāṇa il mondo innumerevole degli esseri senzienti»
(Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā)




Da tener presente che l'intera letteratura Mahāyāna insiste sulla vacuità di tutto il Reale e quindi sull'inesistenza di qualsiasi "essere" dal salvare:
«Per quanto innumerevoli siano gli esseri in tal modo guidati verso il Nirvana proprio nessun essere è stato guidato verso il Nirvana. Perché? Se in un bodhisattva dovesse intervenire la nozione di un essere, egli non potrebbe venire chiamato bodhisattva. E perché? Non si dovrà chiamare bodhisattva colui nel quale interviene la nozione di un essere, o la nozione di un'anima vivente o di una persona»
(Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra, 3)



Per questa ragione, ricorda Paul Williams, per il Mahāyāna tutti alla fine dovranno pronunciare il "voto" del bodhisattva per acquisire lo stato di buddha a beneficio di tutti gli esseri.
Sempre per questa ragione Paul Williams evidenzia che:
«Si noti, ed è un punto importante, che alla luce di tutto ciò è troppo semplicistico parlare semplicemente di nirvāṇa nel contesto del buddhismo mahāyāna. [...] È usuale nei testi mahāyāna contrapporre il nirvāṇa al saṃsāra, salvo poi dire che il bodhisattva, e quindi un Buddha, ottenendo la libertà dalla sofferenza ma non abbandonando gli esseri che sono ancora nel saṃsāra oltrepassa la dualità nirvāṇa-saṃsāra. Lo stato di illuminazione ottenuto da un Buddha viene perciò chiamato "nirvāṇa non dimorante" o "non determinato" (apratiṣṭhitanirvāṇa
(Paul Williams. Op.cit.)



Ma anche:
«Diventa allora molto difficile dire, come fanno molti libri diffusi in Occidente, che il bodhisattva pospone il nirvāṇa. Quale nirvāṇa si suppone posponga?»
(Paul Williams. Op.cit.)





Philippe Cornu, nel ricordare la suddivisione di bodhisattva d'"intelligenza graduale" (ovvero il seguace dello Hinayāna che pur avendo superato gli oscuramenti passionali deve ancora superare quelli cognitivi), da quello di "intelligenza immediata" (che prende i voti da bodhisattva fin dall'inizio del suo cammino di perfezionamento), evidenzia che quest'ultimo non "entra nella corrente" (śrota āpanna) poiché la corrente che consente il nirvāṇa è imperfetta dal punto di vista dei bodhisattva. Non solo il bodhisattva:
«Non diventa quindi nemmeno un sakṛdāgāmin, "colui che torna una sola volta", perché accetta di attraversare innumerevoli rinascite. A maggior ragione non diventa un "senza ritorno" (sans. anāgāmin) perché esce dai dhyāna per rinascere nel regno del desiderio (sans. kāmadhātu). Ma quando raggiunge la perfetta Illuminazione abbandona non soltanto gli oscuramenti delle passioni diventando così un arhat, ma anche quelli della conoscenza diventando un tathāgata onnisciente.»
(Philippe Cornu. Op.cit.)

In ultima analisi:
«I testi del Mahāyāna propongono che il fine della pratica religiosa propriamente concepita non sia nulla di meno che l'intuizione universale ottenuta dal Buddha, ossia che l'obiettivo della pratica religiosa sia la buddhità stessa. [...] E per di più, secondo alcuni testi mahāyānici è, di fatto, l'unica via reale predicata dal Buddha. Tutte le altre soteriologie, asseriscono tali testi, non sono che semplici strategie impiegate dal Buddha contro coloro la cui comprensione non era sufficiente sviluppata per gli insegnamenti del Mahāyāna»
(Nakamura Hajime. Op. cit.)


Lo stato di buddha è quindi l'obiettivo da conseguire per i mahāyānisti. Il percorso per raggiungere tale stato si avvia con la scelta di divenire un bodhisattva, adoperandosi per la liberazione di tutti gli esseri senzienti. Siccome la dottrina della vacuità (dottrina centrale per i mahāyānisti) insegna che non c'è alcun fenomeno separato dall'altro, allora non vi può essere alcuna "liberazione" individuale, tutti realizzeranno la bodhi.
La "inconciliabilità" tra illuminazione realizzata da un Buddha e la sofferenza di un "essere senziente" (e quindi la necessità di intervento di buddha e bodhisattva nel mondo) viene nelle scuole risolta secondo la dialettica madhyamaka: la verità assoluta (paramārtha-satya o śūnyatā-satya) richiama costantemente la vacuità (śūnyatā) e in questo senso non c'è alcuna differenza tra gli esseri senzienti e i Buddha, anzi non ci sono "esseri senzienti"; sul piano della "verità convenzionale" (o "relativa", sans. saṃvṛti-satya) tali differenze esistono. La sintesi di queste due verità o "verità della Via di mezzo" (mādhya-satya) rende conto di ambedue e della loro inconciliabilità:



(SA)
«yaḥ pratītyasamutpādaḥ śunyātāṃ tāṃ pracakṣmahe sā prajñaptirupādāya pratipat saiva madhyamā»
(IT)
« La coproduzione condizionata, questa e non altra noi chiamiamo la vacuità. La vacuità è una designazione metaforica. Questa e non altro il Cammino di mezzo»
(Nāgārjuna. Mūlamadhyamakakārikā, XXIV, 18)



In questo modo come il nirvāṇa è il saṃsāra, e quindi la stessa vita quotidiana, l'azione del buddha corrisponde all'azione del bodhisattva tesa a realizzare l'"illuminazione", essa stessa è illuminazione. Per il mahāyānista quindi è la vita quotidiana a rappresentare la "Realtà ultima" e il Nirvāṇa stesso e le azioni tese a realizzare questa consapevolezza ovvero la "vita pratica" sono esse stesse illuminazione.

«Il saṃsara è in nulla differente dal nirvāna. Il nirvāna è in nulla differente dal saṃsara. I confini del nirvāna sono i confini del saṃsara.»
(Nāgārjuna. Mūlamadhyamakakārikā)

«Nel Buddhismo non c'è nessun nirvāna separato dal ciclo di vita morte [...]; non c'è nessun Dharma buddhista al di fuori della vita quotidiana»
(Dōgen, Shōbōgenzō)

«Dunque, la concezione per cui pratica e illuminazione non sono la stessa cosa è un punto di vista non buddhista. Dal punto di vista del buddhismo, pratica e illuminazione sono una cosa sola. Poiché in qualsiasi momento si tratta di pratica nell'illuminazione, la pratica del principiante è il vero corpo dell'illuminazione»
(Dōgen. Bendōwa in Aldo Tollini Pratica e illuminazione nello Shōbōgenzō. Roma, Ubaldini, 2001, pagg. 137-8)

«Mente, Buddha, esseri senzienti sono, parimenti, [la Via di mezzo]. Poiché tutti gli aggregati e le forme di sensibilità sono la realtà così come è, non c'è alcuna sofferenza da cui liberarsi. Poiché la nescienza e le afflizioni sono identiche al corpo illuminato, non c'è alcuna origine della sofferenza da sradicare. Poiché i due punti di vista estremi sono il Mezzo e le visioni erronee sono la Verità, non c'è alcun percorso da praticare. Poiché il samsara è identico al nirvana, non c'è alcuna estinzione [della sofferenza] da realizzare. Non essendoci né sofferenza né origine della sofferenza, nulla vi è di mondano; non essendoci né sentiero né estinzione, nulla vi è di sopramondano. C'è una sola, pura Realtà; non c'è nessuna entità al di fuori di essa. La tranquillità della natura ultima di tutte le entità è detta "calma"; il suo perenne splendore è detta "consapevolezza".»
(Guàndǐng, 灌頂, Yuándùn Zhǐguān 圓頓止觀)


«Questo è l'insegnamento più importante. È l'insegnamento che 'i desideri terreni sono Illuminazione' e 'le sofferenze di vita e morte sono Nirvana' ... Le sofferenze diventano Nirvana quando si comprende che l'entità della vita umana non viene né generata né distrutta nel suo ciclo di nascita e di morte.»
(Nichiren, Gosho)


«La consapevolezza che vede la Realtà come è,
È priva di smarrimento, è concentrazione e non lavorio mentale.
La consapevolezza della Realtà come si manifesta
è smarrimento, successiva conoscenza e lavorio mentale.»
(Gampopa. Il prezioso ornamento di Liberazione)


Gli appellativi del bodhisattva

La letteratura Mahāyāna offre diversi sinonimi o appellativi del termine bodhisattva. Una lista piuttosto completa la si riscontra nel Mahāyānasūtrālaṃkāra (L'ornamento del discorso del Veicolo Universale) dove, nel XIX capitolo ai versi 73-4 viene riportato questo elenco di quindici appellativi:
  1. mahāsattva: grande essere;
  2. dhīmat: saggio;
  3. uttamadyut: luminosissimo
  4. jinaputra: figlio del Vittorioso (del Buddha)
  5. jinādhāra: legato al Vittorioso (al Buddha)
  6. vietṛ: conquistatore;
  7. jināṅkura: discendenza del Vittorioso (del Buddha);
  8. īśvara: signore;
  9. vikrānta: audace;
  10. mahāyaśas vasta gloria;
  11. paramāścarya: il meraviglioso;
  12. kṛpālu: compassionevole;
  13. dhārmika: giusto;
  14. mahāpuṇya: grandemente meritevole;
  15. sārthavāha: guida delle carovane.

La Via del bodhisattva (bodhisattvayāna)

Il percorso di perfezionamento spirituale caratteristico del Buddhismo Mahāyāna è indicato come "Via del bodhisattva" (o Veicolo del bodhisattva, sanscrito bodhisattvayāna).
L'ingresso in questa "Via" si intraprende nel momento in cui il praticante mahāyāna realizza per la prima volta l'"aspirazione a conseguire l'Illuminazione" (bodhicitta), pronuncia il voto del Bodhisattva (praṇidhāna) a favore di tutti gli esseri senzienti e si impegna a praticare le "perfezioni" (pāramitā) e a rispettare i "precetti" (bodhisattvasaṃvara).
Da quel momento il bodhisattva si incammina lungo un percorso spirituale descritto in differenti modi dalle varie scuole Mahāyāna. Nelle scuole di origine Yogacara (dette anche Vijñānavāda o Cittamātra) ad esempio egli si avvia a percorrere i "cinque sentieri" (pañca-mārga).
Con l'inizio del terzo di questi "cinque sentieri", il bodhisattva diviene un āryabodhisattva avviandosi quindi ad entrare nelle "terre" (bhūmi) dei bodhisattva, indicate come dieci (daśa bhūmi). Anche queste terre vengono denominate e descritte in differenti modi dalle diverse scuole.
Raggiunta e completata l'ultima delle "dieci terre", denominata come Dharmameghabhūmi (Terra delle nuvole del Dharma, in alcune scuole indicata come Buddhabhūmi o anche Tāthāgatabhūmi) il bodhisattva acquisisce lo stato di Samyaksaṃbuddha (Buddha perfetto) potendo far "piovere" il Dharma su tutti gli esseri senzienti.



Il bodhisattva e l'aspirazione a conseguire l'Illuminazione" (bodhicitta)





Avalokiteśvara (tib. sPyan-ras-gzigs dbang-phyug) nella tradizione tibetana. Questo Avalokiteśvara è dipinto come Ṣaḍakṣarin (Signore delle sei sillabe: Ṣaḍ-akṣara) ovvero del mantra Oṃ Maṇi Padme Hūṃ. In qualità di Ṣaḍakṣarin, Avalokiteśvara sta seduto a gambe incrociate (padmāsana). Con le quattro mani regge: con la destra un rosario (Akṣamālā, in genere composto da 108 grani, ma in questo dipinto è composto dal sottomultiplo di 54) dove per ogni grano recita il mantra; con la sinistra regge un fiore di loto (padma) simbolo della purezza; con la coppia delle mani centrali, Avalokiteśvara regge una pietra preziosa denominata cintāmaṇi (pietra preziosa del pensiero) pronta ad esaudire ogni desiderio e qui rappresentata da un cristallo ovale di colore azzurro.






Il bodhisattva mahāsattva Mañjuśrī in una rappresentazione giapponese del XVI secolo conservata al British Museum. Mañjuśrī (giapp. 文殊 Monju) viene qui rappresentato come Siṃhāsana Mañjuśrī (Mañjuśrī a dorso di un leone ruggente). Tale raffigurazione ricorda la leggenda asiatica di un leone che aveva fatto resuscitare con un ruggito i propri cuccioli nati morti. La rappresentazione del "leone ruggente" richiama in Asia la capacità di provocare la rinascita spirituale. Mañjuśrī impugna con la mano destra la "spada" (khaḍga) ad indicare la distruzione dell'ignoranza (avidyā), mentre con la mano sinistra regge un rotolo dei Prajñāpāramitāsūtra con cui infonde la "sapienza" (prajñā).


La bodhisattva mahāsattva Prajñāpāramitā (Giava). Le mani sono poste nell'attivazione della Ruota del Dharma (dharmacakrapravartanamudrā). Pollice e indice della mano destra si toccano a formare al Ruota del Dharma, mentre quelle della sinistra la mettono in movimento. In quanto bodhisattva mahāsattva indossa una corona a "cinque foglie" (o "punte") che la indicano come una entità non soggetta alle leggi naturali.
L'avvio del percorso spirituale del bodhisattva consiste nello sviluppare la "mente del Risveglio" ovvero il pensiero di ottenere l'"Illuminazione" per il bene di tutti gli esseri senzienti:

«Sono il protettore dei non protetti, il capocarovana dei viaggiatori. Sono diventato la barca, la strada e il ponte di coloro che desiderano raggiungere l'altra riva. Possa io essere una luce per coloro che hanno bisogno di luce. Possa io essere un letto per coloro che hanno bisogno di riposo. Possa io essere un servo per coloro che hanno bisogno di servigi, per tutti gli esseri incarnati. [...] Così possa io essere di sostentamento in molti modi per il regno degli esseri innumerevoli che dimorano in ogni parte dello spazio, finché tutti non abbiano ottenuto la liberazione. Nello stesso modo in cui i Sugata passati assunsero la mente del risveglio, nello stesso modo in cui essi progredirono nell'addestramento del bodhisattva. Così ecco io stesso genererò la mente del risveglio per il benessere del mondo, e proprio così mi addestrerò in quei precetti secondo l'ordine dovuto.»
(Śāntideva. Bodhicaryāvatāra, cap. II "Adozione della mente del risveglio". Roma, Ubaldini, 1998 pag.59)


Il voto del Bodhisattva (praṇidhāna)

L'ingresso nella "Via del bodhisattva" (bodhisattvayāna, Veicolo dei bodhisattva) è preceduto da un voto pronunciato da un monaco o da un laico di fronte al proprio maestro e, idealmente, di fronte all'assemblea dei buddha.
Esistono diverse forme di voto del bodhisattva ma tutte si fondano sulla ferma decisione di raggiungere la bodhi al fine di salvare tutti gli esseri senzienti.

Le perfezioni del Bodhisattva (pāramitā)

Le pāramitā sono le "perfezioni" o "virtù" che il bodhisattva deve seguire e conseguire lungo il suo cammino di perfezionamento spirituale. Esse consistono in vissuti illuminati dalla saggezza superiore e che trascendono dalla discriminazione tra sé stessi e gli altri. Esistono due elenchi di pāramitā, uno composto da sei pāramitā (ṣaṣ pāramitā), ed è il più frequente, ed un secondo che aggiunge altre quattro pāramitā alle prime sei denominandosi daśa pāramitā (Dieci pāramitā). Questa ultima elencazione di dieci pāramitā è presente nel XXXI capitolo dell'Avataṃsakasūtra, il Daśabhūmika-sūtra (十住經, Shízhù jīng, giapp. Jūjū kyō, Sutra delle dieci terre) conservato al T.D. 286 dello Huāyánbù.
Le sei pāramitā:
  1. Dāna pāramitā: generosità, disponibilità;
  2. Śīla pāramitā: virtù, moralità, condotta appropriata;
  3. Kṣanti pāramitā: pazienza, tolleranza, sopportazione, accettazione;
  4. Vīrya pāramitā: energia, diligenza, vigore, sforzo;
  5. Dhyāna pāramitā: concentrazione, contemplazione;
  6. Prajña pāramitā: saggezza, comprensione;
I quattro aggiuntivi secondo il Daśabhūmika-sūtra sono:
7. Upāya pāramitā: abili mezzi;
8. Praṇidhāna pāramitā: voto, risoluzione, aspirazione, determinazione;
9. Bala pāramitā: forza spirituale;
10. Jñāna pāramitā: conoscenza.

I precetti del Bodhisattva (bodhisattvasaṃvara)

L'ingresso nella Via del bodhisattva e quindi il pronunciamente del voto di bodhisattva implica il rispetto di una serie di precetti.
Questi precetti mahāyāna sono elencati nei Canoni buddhisti cinese e tibetano conservando alcune differenze tra loro.
Nel Buddhismo afferente al Canone cinese i precetti del bodhisattva vengono elencati in dieci principali e quarantotto secondari.
Nel Buddhismo afferente al Canone tibetano i precetti del bodhisattva vengono elencati in diciotto principali e quarantasei secondari.



I "Cinque sentieri" del Bodhisattva (pañca-mārga)

Il Buddhismo Mahāyāna riprende la descrizione dei "Cinque sentieri" pañca-mārga di perfezionamento spirituale indicate dal Buddhismo dei Nikāya, segnatamente dalle scuole Sarvāstivāda e Sautrāntika. Tale approccio prevede che il bodhisattva proceda lungo cinque itinerari spirituali che, tuttavia, a differenza di quelli suggeriti dalle scuole hīnayāniche sono centrati al fine di far raggiungere la bodhi a tutti gli esseri senzienti piuttosto che la salvezza personale. I cinque sentieri del Mahāyāna conservano dunque gli stessi nomi di quelli delle scuole hīnayāniche e sono:
  1. Saṃbhāramārga (sentiero dell'accumulazione): inizia con il Voto del Bodhisattva (praṇidhāna) e finisce con l'accoglimento della dottrina della vacuità (śūnyatā); qui il bodhisattva procede "accumulando" 'meriti' indispensabili per il prosieguo del cammino.
  2. Prayogamārga (Sentiero dell'impegno): il bodhisttava abbandona le passioni ma può conservare ancora punti di vista erronei, riesce ad assumere su di sé le sofferenze degli esseri senzienti e quindi bruciare le proprie tendenze karmiche negative. L'ultima fase di questo sentiero, denominata Laukikāgradharma (Supremo Dharma mondano) può essere conseguito solo dagli esseri umani, in quanto questa forma di esistenza consente l'esperienza del dolore, esperienza indispensabile per il progresso spirituale. I deva, ovvero le divinità che vivono una condizione di felicità, non possono superare questo sentiero.
  3. Darśanamārga (Sentiero della visione): questo sentiero corrisponde all'ingresso nella prima "terra" (bhūmi) dei bodhisattva (Pramuditābhūmi, "Molto felice"). Il bodhisattva è ora un Āryabodhisattva (nobile bodhisattva), ha superato le passioni più grossolane, ha compreso in fondo la dottrina della vacuità, ha superato le nozioni erronee di esistenza inerente ai singoli elementi della Realtà, nasce quindi in lui un forte vissuto di felicità grazie alla consapevolezza di essere utile agli esseri senzienti e di poter raggiungere la bodhi definitiva.
  4. Bhāvanāmārga (Sentiero della pratica meditativa): questo sentiero corrisponde al procedere del bodhisattva tra la seconda terra Vimalābhūmi ("Terra della Purezza") e la decima terra Dharmameghabhūmi ("Terra delle Nuvola del Dharma"). Il suo progredire costante per mezzo del Nobile Ottuplice Sentiero (ārya aṣṭāṅgika mārga) gli fa abbandonare le condizioni negative latenti. Il tragitto lungo le dieci terre è lunghissimo, secondo le fonti tradizionali occorrono due asaṃkhyeya kalpa (due eoni incalcolabili)
  5. Aśaikṣamārga (Sentiero che va oltre gli apprendimenti): il bodhisattva è ora un buddha completo, un samyaksaṃbuddha.

Le "Dieci terre" del Bodhisattva (daśa bhūmi)

Il Daśabhūmikasūtra è il sūtra principale che enuncia la dottrina delle bhūmi, indicando nella bodhicitta (Mente del Risveglio, ovvero l'aspirazione ad ottenere il Risveglio) il primo passo per entrarvi. Di seguito l'elencazione e la illustrazione delle daśa bhūmi così come presentata nel Daśabhūmikasūtra:
  1. Pramuditābhūmi ("Terra della Grande gioia")
    • Così indicata in quanto il bodhisattva si sente prossimo all'"illuminazione" e comprendendo il beneficio che questa reca a tutti gli esseri senzienti prova un sentimento di "grande gioia"; in questa bhūmi si perfeziona ogni virtù, ma in particolare la pāramitā della "generosità" (dāna).
  2. Vimalābhūmi ("Terra della Purezza")
    • Attraversando la seconda bhūmi, ci si libera dall'immoralità, conquistando la purezza; in questa bhūmi si pratica la pāramitā della "disciplina morale" (śīla).
  3. Prabhākarībhūmi ("Terra che illumina")
    • Quando si raggiunge questa bhūmi il bodhisattva illumina con la luce (della sua comprensione del Dharma) tutto il mondo che lo circonda; la pāramitā prediletta è la "pazienza" (kṣānti).
  4. Arciṣmatibhūmi ("Terra Radiante")
    • Questa bhūmi è detta 'radiante' perché qui il bodhisattva con la pratica della pāramitā della vīrya e dei saptatriṃśad-bodhi-pakṣikādharmāḥ (Trentasette fattori della illuminazione) è come una forte luce che brucia tutto ciò che si oppone all'illuminazione stessa.
  5. Sudurjayābhūmi ("Terra impegnativa da superare")
    • Quando ottiene questa bhūmi il bodhisattva cerca di aiutare gli esseri senzienti a ottenere la maturità, ma non si lascia coinvolgere emotivamente quando tali esseri rispondono negativamente impedendo così a Māra, il tentatore dello stesso Gautama Buddha, di avere la meglio, e ciò è molto difficile; la pāramitā praticata è la concentrazione meditativa (dhyāna).
  6. Abhimukhībhūmi ("Terra in vista della Realtà", o "Terra faccia a faccia")
    • Dipendendo dalla perfezione della coscienza della sapienza, il bodhisattva non è più vincolato al saṃsāra ma non ha ancora raggiunto il nirvāṇa anche se lo vede "faccia a fiaccia"; la pāramitā enfatizzata è la saggezza (prajña).
  7. Dūraṃgamābhūmi ("Terra che procede lontano")
    • Il bodhisattva giunto a questo punto è in grado di vedere la Realtà per come essa è (Tathātā). Comprende la base di ogni esistente (bhūtakoṭivihāra) ed è in grado di utilizzare gli "abili mezzi" (upāya), per aiutare il prossimo.
  8. Acalābhūmi ("Terra immutabile")
    • Il bodhisattva ora non è più spinto dai pensieri inerenti alla vacuità (śūnyatā) o quelli inerenti ai fenomeni (dharma). Coltivando la pāramitā del "voto risoluto" (pranidhana) egli è in grado di attraversare liberamente i diversi piani di esistenza.
  9. Sādhumatībhūmi ("Terra del Buon discernimento")
    • Qui il bodhisattva acquisisce le quattro conoscenze analitiche (pratisaṃvid) e si perfeziona nella pāramitā della "forza spirituale" (bala) .
  10. Dharmameghabhūmi ("Terra delle Nuvola del Dharma")
    • Il corpo del bodhisattva è ora luminoso, costituito da pietre preziose ed egli è in grado di operare miracoli al di fuori delle leggi della natura a favore di tutti gli esseri senzienti. Egli in questa terra si perfeziona nella conoscenza trascendentale (jñāna).
Con il superamento delle dieci bhūmi, secondo il Buddhismo Mahāyāna, il bodhisattva consegue l'Illuminazione completa (l'anuttarā-samyak-saṃbodhi) e diviene un buddha.
Da tener presente, come nota Nakamura Hajime, che in alcune tradizioni buddhiste afferenti al Canone cinese, come le scuole Chán e Zen, il percorso del bodhisattva viene inteso attraverso non un procedere graduale ma immediato ovvero per tramite una "illuminazione" (, giapp, satori) raggiunta subitaneamente. Allo stesso modo alcune tradizioni afferenti al Canone tibetano nonché al Buddhismo esoterico estremo-orientale, ritengono che per mezzo di alcune pratiche dette "tantriche" l'obiettivo dell'anuttarā-samyak-saṃbodhi possa essere conseguito "in questo corpo e in questa vita".



I Bodhisattva cosmici (Mahāsattva) del Buddhismo Mahāyāna

Nei testi religiosi del Buddhismo Mahāyāna e del Mahāyāna-Vajrayāna compaiono spesso dei bodhisattva pienamente illuminati che hanno raggiunto l'apratiṣṭhita-nirvāṇa (nirvāṇa non statico o non dimorante), il nirvāṇa completo del Mahāyāna ma che, tuttavia, rinunciano all'estinzione completa (parinirvāṇa) propria dei buddha scegliendo quindi di rinascere per aiutare gli esseri senzienti. Questi esseri vivono quindi nel saṃsāra ma non ne sono coinvolti.
Tali bodhisattva sono indicati come bodhisattva mahāsattva (grandi esseri) e sono dotati dei completi poteri (bāla) e perfezioni (pāramitā) complete acquisite con il raggiungimento di tutte le "Dieci terre" (daśa-bhūmi) dei bodhisattva. Tali bodhisattva mahāsattva non sono soggetti alle "leggi naturali", possono acquisire differenti forme fenomeniche e apparire contemporaneamente in più luoghi, grazie ai meriti karmici (puṇya) acquisiti possono trasferire tali meriti a quegli esseri senzienti con un karman negativo per alleggerire lo stesso.
Nei paesi di cultura Mahāyāna e Mahāyāna-Vajrayāna questi bodhisattva mahāsattva hanno dei propri culti che li accostano alle divinità (deva) protettrici del Buddhismo, ma non devono essere confusi con queste ultime in quanto le "divinità" sono di rango assolutamente inferiore non avendo realizzato alcun tipo di nirvāṇa e nemmeno avviato il percorso delle bhūmi dei bodhisattva e quindi sono collocate a pieno titolo nel saṃsāra soffrendone le conseguenze.
Tra i bodhisattva mahāsattva presenti nella letteratura Mahāyāna e Mahāyāna-Vajrayāna e nei relativi culti religiosi, ricordiamo:
  • Ākāśagarbha (Colui che ha origine nell'etere): nella letteratura non gli viene attribuita alcuna funzione precisa se non una generica "protezione della saggezza".
  • Avalokiteśvara (Colui che ascolta i dolori del mondo): è considerato il bodhisattva della compassione.
  • Kṣitigarbha (Colui che origina dalla Terra): è il bodhisattva protettore dei monaci buddhisti e dei defunti, in particolare ha cura degli esseri senzienti dal parinirvāṇa del Buddha Śākyamuni fino all'avvento del prossimo buddha Maitreya.
  • Mahāsthāmaprāpta: è inteso come la "saggezza" del Buddha Amitbāha. Rappresenta anche uno degli otto grandi bodhisattva del Buddhismo esoterico sino-giapponese.
  • Maitreya (il Buono): è l'unico bodhisattva menzionato nel Canone pāli (Metteya), secondo alcune tradizioni si manifesterà come buddha trascorsi cinquemila anni dal parinirvāṇa del Buddha Śākyamuni. Attualmente risiede nel paradiso di Tuṣita con il nome di bodhisattva Nātha.
  • Mañjuśrī (Bellezza amabile): insieme ad Avalokiteśvara è considerato il bodhisattva mahāsattva più importante. Rappresenta, tutela e infonde la "saggezza" e la "sapienza" (prajñā). Protegge coloro che studiano la dottrina buddhista offrendo loro le capacità di comprensione, memoria e intelligenza.
  • Prajñā o Prajñāpāramitā (Saggezza): è una bodhisattva mahāsattva femminile, legata alla "saggezza" e come tale "madre" di tutti i buddha. Nel tempo è stata associata a Tārā.
  • Samantabhadra (Pieno di benedizioni): nel Buddhismo indiano è inteso come il protettore di coloro che diffondono il Dharma buddhista; nel Buddhismo tibetano è inteso come colui che esprime la karuṇā; nel Buddhismo di riferimento del Canone cinese è inteso come colui che protegge i praticanti la meditazione.
  • Tārā (Stella): è una bodhisattva mahāsattva femminile. Originariamente considerata emanazione di Avalokiteśvara, essendo nata da un fiore di loto sorto da un lago in cui si erano raccolte le lacrime di questo bodhisattva cosmico, versate alla vista delle sofferenze degli esseri senzienti, Tārā acquisirà nei secoli una propria fisionomia legata al ruolo di "madre" degli esseri senzienti e loro salvatrice. Molte entità bodhisattviche femminili sono associate a Tārā assumendone la fisionomia e differenziadosi per i differenti colori.
  • Vajrapāni (Colui che impugna il vajra): è inteso come colui che accompagna e protegge il Buddha Śākyamuni.

Galleria di rappresentazioni figurative di bodhisattva cosmici

  • Siddhartha Gautama rappresentato come un bodhisattva. Gandhāra, II-III secolo.
  • Bodhisattva. Gandhāra, II-III secolo.
  • Assemblea di bodhisattva. Cina, VI secolo.
  • Murale di bodhisattva. Cina, Dinastia Tang.
  • Ākāśagarbha. Giappone, IX secolo.
  • Murale di un bodhisattva. Cina, X secolo.
  • Avalokiteśvara. India, XI-XII secolo.
  • Mahāsthāmaprāpta. Cina, XIII secolo.
  • Mañjuśrī attraversa il mare. Giappone, XIV secolo.
  • Kṣitigarbha. Giappone, XV secolo.
  • Samantabhadra. Giappone.
  • Maitreya. Tibet.