L'ennesimo conflitto infuriava per
l'Europa.
La guerra vedeva questa volta schierati
da una parte l'Inghilterra, l'Impero Asburgico, il Portogallo, la
Danimarca e i Paesi Bassi, dall'altra la Francia e la Spagna, il cui
inetto re Carlo II aveva indicato nel testamento come successore il
nipote di Luigi XIV, Filippo di Borbone.
In tutto ciò Il Ducato di Savoia
si trovava tra la Francia ed il milanese, che era nelle mani della
Spagna e costituiva il naturale corridoio di collegamento tra i due
alleati, per cui Luigi XIV impose al duca Vittorio Amedeo II
l'alleanza con i franco-ispanici.
Ma Vittorio Amedeo II, sostenuto dal cugino Eugenio di Savoia-Carignano, conte di Soissons e gran condottiero delle truppe imperiali, ebbe l'intuizione che questa volta la partita principale tra la Francia e l'Impero si sarebbe giocata in Italia e non più nelle Fiandre o in Lorena. Sulla base di questa sicurezza strinse alleanza con gli Asburgo, gli unici che avrebbero potuto garantire la reale indipendenza dello Stato sabaudo.
Strette tra due fuochi, però, le terre sabaude vennero circondate e attaccate da tre eserciti: perdute Susa, Vercelli, Chivasso, Ivrea e Nizza (1704), a resistere rimaneva solo la Cittadella di Torino, fortificazione fatta erigere dal duca Emanuele Filiberto I di Savoia circa centoquarant'anni prima, ovvero intorno alla metà del XVI secolo.
Protetta da ottime gallerie di contromina, scavate al di sotto degli spalti della cittadella, nelle quali la compagnia minatori del battaglione d'artiglieria, formata da 2 ufficiali, 2 sergenti, 3 caporali e 46 minatori con, in appoggio, 350 manovali (addetti agli scavi) e 6 sorveglianti, la fortezza si garantiva il controllo del sottosuolo e la collocazione delle cariche di esplosivo destinate a frustrare i lavori degli assedianti.
All'interno della cittadella invece rivestiva particolare importanza il cisternone, un edificio circolare situato al centro della piazza d'armi. Questo pozzo assicurava una costante riserva d'acqua che prendeva rifornimento dalla falda freatica sottostante. I franco spagnoli sapevano bene, dunque, che l'unico modo per penetrare all'interno del fortilizio era ritorcere il controllo del sottosuolo contro i difensori.
Era proprio tra questi che militava il giovane Pierre Micha, conosciuto come Pietro Micca.
Si sa poco sulla sua persona, tranne che proveniva da famiglia modesta. Nacque dal matrimonio tra il muratore Giacomo Micca, nativo di Sagliano, (oggi Sagliano Micca), con Anna Martinazzo, originaria della frazione Riabella di San Paolo Cervo. Il 29 ottobre 1704 aveva sposato Maria Caterina Bonino, e ne ebbe il figlio Giacomo Antonio (1706-1803). Pietro Micca lavorava inizialmente come muratore.
Rimasto disoccupato, si arruolò nella compagnia minatori nell'esercito sabaudo, allora impegnato nel difficile conflitto contro la Francia, così da finire a lottare in quel dedalo di cunicoli così importante per la difesa di Torino.
Nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, degli incursori nemici riuscirono a entrare in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all'interno. Ciò sarebbe stato un sicuro disastro per i piemontesi: anche se fossero stati successivamente respinti, i francesi potevano raggiungere il cisternone e renderlo inutilizzabile, segnando la fine per i difensori. Pietro Micca, i cui commilitoni chiamavano Passepartout per l'abilità di infiltrarsi e "rubacchiare" era di guardia ad una delle porte insieme ad un commilitone.
I due soldati sentirono dei colpi di arma da fuoco e compresero che un gran numero di nemici stava per raggiungerli. Certi che non avrebbero resistito a lungo pensarono di far scoppiare della polvere da sparo (un barilotto da 20 chili posto in un anfratto della galleria chiamata capitale alta) allo scopo di provocare il crollo della galleria e così non consentire il passaggio alle truppe nemiche.
Tuttavia, non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Senza altro pensare, allontanò il compagno con una frase che sarebbe diventata storica: «Va via, It ses pì long che na giornà sensa pan!» («Alzati, che sei più lungo d'una giornata senza pane»).
Così, mentre il compagno fuggiva lungo le galleria, senza esitare il soldato diede fuoco alle polveri.
Micca venne travolto dall'esplosione e il corpo fu scaraventato a una decina di metri di distanza. I francesi sopravvissuti allo scoppio, ormai giunti alla porta trovarono davanti a sé un muro franato di pietra e furono costretti a desistere nell'attacco.
Pietro, con il suo sacrificio, aveva salvato Torino.
Poiché stretti nell'assedio, il soldato venne sepolto in una tomba comune, ma la sua fama già riecheggiava tra i difensori, che furono ispirati dal suo gesto disinteressato.
Quando, il 7 settembre 1706, i francesi vennero respinti, frotte di miliziani e regolari inneggiavano al nome del buon minatore, affiancandolo a quello dei nobili comandanti, dei santi e pure a Dio. In una supplica inviata al duca Vittorio Amedeo II il 26 febbraio 1707, la vedova di Pietro Micca chiese una pensione. Nella richiesta è scritto che il marito eseguì un ordine del colonnello Giuseppe Amico di Castellalfero, magari offrendosi volontario «invitato dalla generosità del suo animo a portarsi a dare il fuoco a detta mina, nonostante l'evidente pericolo di sua vita». La vedova Maria Bonino ottenne così un vitalizio di due pani al giorno e si risposò nel 1709 con un certo Lorenzo Pavanello, da cui ebbe il figlio Francesco.
Tutt'ora, oltre a tantissimi luoghi rinominati con il nome Micca, la statua del soldato minatore svetta davanti alle mura di Torino, una sentinella di pietra a testimoniare l'importanza del suo glorioso sacrificio.
Ma Vittorio Amedeo II, sostenuto dal cugino Eugenio di Savoia-Carignano, conte di Soissons e gran condottiero delle truppe imperiali, ebbe l'intuizione che questa volta la partita principale tra la Francia e l'Impero si sarebbe giocata in Italia e non più nelle Fiandre o in Lorena. Sulla base di questa sicurezza strinse alleanza con gli Asburgo, gli unici che avrebbero potuto garantire la reale indipendenza dello Stato sabaudo.
Strette tra due fuochi, però, le terre sabaude vennero circondate e attaccate da tre eserciti: perdute Susa, Vercelli, Chivasso, Ivrea e Nizza (1704), a resistere rimaneva solo la Cittadella di Torino, fortificazione fatta erigere dal duca Emanuele Filiberto I di Savoia circa centoquarant'anni prima, ovvero intorno alla metà del XVI secolo.
Protetta da ottime gallerie di contromina, scavate al di sotto degli spalti della cittadella, nelle quali la compagnia minatori del battaglione d'artiglieria, formata da 2 ufficiali, 2 sergenti, 3 caporali e 46 minatori con, in appoggio, 350 manovali (addetti agli scavi) e 6 sorveglianti, la fortezza si garantiva il controllo del sottosuolo e la collocazione delle cariche di esplosivo destinate a frustrare i lavori degli assedianti.
All'interno della cittadella invece rivestiva particolare importanza il cisternone, un edificio circolare situato al centro della piazza d'armi. Questo pozzo assicurava una costante riserva d'acqua che prendeva rifornimento dalla falda freatica sottostante. I franco spagnoli sapevano bene, dunque, che l'unico modo per penetrare all'interno del fortilizio era ritorcere il controllo del sottosuolo contro i difensori.
Era proprio tra questi che militava il giovane Pierre Micha, conosciuto come Pietro Micca.
Si sa poco sulla sua persona, tranne che proveniva da famiglia modesta. Nacque dal matrimonio tra il muratore Giacomo Micca, nativo di Sagliano, (oggi Sagliano Micca), con Anna Martinazzo, originaria della frazione Riabella di San Paolo Cervo. Il 29 ottobre 1704 aveva sposato Maria Caterina Bonino, e ne ebbe il figlio Giacomo Antonio (1706-1803). Pietro Micca lavorava inizialmente come muratore.
Rimasto disoccupato, si arruolò nella compagnia minatori nell'esercito sabaudo, allora impegnato nel difficile conflitto contro la Francia, così da finire a lottare in quel dedalo di cunicoli così importante per la difesa di Torino.
Nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, degli incursori nemici riuscirono a entrare in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all'interno. Ciò sarebbe stato un sicuro disastro per i piemontesi: anche se fossero stati successivamente respinti, i francesi potevano raggiungere il cisternone e renderlo inutilizzabile, segnando la fine per i difensori. Pietro Micca, i cui commilitoni chiamavano Passepartout per l'abilità di infiltrarsi e "rubacchiare" era di guardia ad una delle porte insieme ad un commilitone.
I due soldati sentirono dei colpi di arma da fuoco e compresero che un gran numero di nemici stava per raggiungerli. Certi che non avrebbero resistito a lungo pensarono di far scoppiare della polvere da sparo (un barilotto da 20 chili posto in un anfratto della galleria chiamata capitale alta) allo scopo di provocare il crollo della galleria e così non consentire il passaggio alle truppe nemiche.
Tuttavia, non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Senza altro pensare, allontanò il compagno con una frase che sarebbe diventata storica: «Va via, It ses pì long che na giornà sensa pan!» («Alzati, che sei più lungo d'una giornata senza pane»).
Così, mentre il compagno fuggiva lungo le galleria, senza esitare il soldato diede fuoco alle polveri.
Micca venne travolto dall'esplosione e il corpo fu scaraventato a una decina di metri di distanza. I francesi sopravvissuti allo scoppio, ormai giunti alla porta trovarono davanti a sé un muro franato di pietra e furono costretti a desistere nell'attacco.
Pietro, con il suo sacrificio, aveva salvato Torino.
Poiché stretti nell'assedio, il soldato venne sepolto in una tomba comune, ma la sua fama già riecheggiava tra i difensori, che furono ispirati dal suo gesto disinteressato.
Quando, il 7 settembre 1706, i francesi vennero respinti, frotte di miliziani e regolari inneggiavano al nome del buon minatore, affiancandolo a quello dei nobili comandanti, dei santi e pure a Dio. In una supplica inviata al duca Vittorio Amedeo II il 26 febbraio 1707, la vedova di Pietro Micca chiese una pensione. Nella richiesta è scritto che il marito eseguì un ordine del colonnello Giuseppe Amico di Castellalfero, magari offrendosi volontario «invitato dalla generosità del suo animo a portarsi a dare il fuoco a detta mina, nonostante l'evidente pericolo di sua vita». La vedova Maria Bonino ottenne così un vitalizio di due pani al giorno e si risposò nel 1709 con un certo Lorenzo Pavanello, da cui ebbe il figlio Francesco.
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