La rivolta
di Shimabara (島原の乱
Shimabara
no ran) fu una rivolta
scoppiata nel 1637, durante il periodo Edo, nel Giappone
sud-occidentale, che vide i cattolici giapponesi, in gran parte
contadini, insorgere contro il governo dello shogunato Tokugawa che
aveva attuato una forte persecuzione religiosa nei confronti dei
cristiani cattolici.
Lo shogunato inviò un contingente di
oltre 125.000 uomini per sopprimere la ribellione e dopo un lungo
assedio contro i ribelli nel castello di Hara riuscì a sconfiggerli.
A seguito della rivolta, il leader dei
ribelli Shiro Amakusa fu decapitato e la persecuzione anticristiana
si fece molto più aspra terminando solo nel 1850. Fu a seguito di
questa rivolta che in Giappone si adottò una politica di isolamento
nazionale (sakoku) che andò avanti per oltre due secoli.
Contesto storico
L'evangelizzazione del Giappone ebbe
inizio il 15 agosto 1549 con lo sbarco del gesuita spagnolo Francesco
Saverio che creò la prima comunità cattolica nell'isola di Kyushu
nel sud del Giappone.
Il Cattolicesimo si diffuse abbastanza
rapidamente in Giappone grazie all'apporto di Alessandro Valignano,
un gesuita italiano che apprese il giapponese e pubblicò il
Cerimoniale per i missionari in Giappone, una sorta di "guida"
per i missionari su come evangelizzare i giapponesi rispettando la
loro cultura e le loro tradizioni, con cui si riuscì a convertire
molti giapponesi in un tempo relativamente breve. Si è stimato che
il numero di convertiti nel 1579 fosse di 130'000 persone, mentre
alla fine del XVI secolo saranno 300'000.
Inizialmente le autorità giapponesi,
soprattutto durante il governo di Oda Nobunaga, non ostacolarono
l'opera dei missionari europei, che anzi videro favorevolmente perché
gli permetteva di avere relazioni economiche con la Spagna e il
Portogallo e perché riduceva il potere dei monaci buddisti. La
situazione cambiò con la salita al potere di Toyotomi Hideyoshi,
preoccupato per il crescente numero di convertiti, soprattutto tra i
daimyo, che divenuti cattolici ebbero anche dei vantaggi nei rapporti
con gli europei.
Il 24 luglio 1587 Hideyoshi promulgò
un editto con il quale mise al bando i missionari europei, non
gradendo più che questi diffondessero la loro "perniciosa
dottrina". Nonostante ciò, i missionari non lasciarono il paese
e anzi continuarono la loro evangelizzazione; Hideyoshi decise di
attuare misure più repressive e il 5 febbraio 1597 fece crocifiggere
ventisei kirishitan, sei francescani, tre gesuiti giapponesi e
diciassette giapponesi terziari francescani.
Dopo la morte di Hideyoshi (1598), la
persecuzione dei cristiani diminuì per via delle guerre di
successione che portarono nel 1603 all'inizio dello shogunato
Tokugawa, per poi riprendere qualche anno dopo. Nel 1614 fu vietata
la professione della fede cattolica e fu redatto, dal monaco zen
Konchiin Suden (1563 – 1633), un decreto di espulsione di tutti i
missionari dal Giappone. Nel decreto si accusano i cattolici di aver:
«contravvenuto alle norme del governo, diffamato lo scintoismo,
calunniato la Vera Legge, distrutto i regolamenti e corrotto la
bontà». I cattolici dovettero praticare la loro fede in segreto, e
presero il nome di kakure kirishitan ("cristiano
nascosto"), per via del fatto che, oltre a dover amministrare i
sacramenti in stanze segrete nelle loro abitazioni private,
camuffarono i simboli cristiani seguendo i canoni dell'iconografia
buddista e le preghiere cristiane in canti buddisti.
Le persecuzioni divennero quindi
sistematiche: tutte le chiese che avevano edificato negli anni furono
distrutte; tutti i giapponesi che fossero risultati cattolici
sarebbero stati giustiziati. Lo shogunato incaricò il clero buddista
di vigilare che non vi fossero più giapponesi di fede cattolica. A
questo scopo si adottò il "sistema del certificato del tempio"
teraukeseido), che non era altro che una sorta di "corso"
che si doveva frequentare presso un tempio buddista, al cui termine
veniva rilasciato un certificato che attestava l'ortodossia
religiosa, l'accettabilità sociale e la fedeltà allo shogunato. Con
questo, e altri sistemi - come il "yefumi" - si
riuscivano a individuare i cattolici che o dovevano convertirsi al
buddismo o sarebbero stati condotti sul Monte Unzen a Nagasaki dove
sarebbero stati giustiziati.
La rivolta
L'inizio della rivolta
La rivolta ebbe inizio nella penisola
di Shimabara, nel sud del Giappone, la regione era stata governata da
Shigemasa Matsukura fino al 1630 e poi dal figlio Katsuie Matsukura
che dovette fronteggiare alla rivolta. I due daimyo causarono lo
scoppio della rivolta, che i vide i contadini e i rōnin cattolici
insorgere contro lo shogunato. Le cause dell'insurrezione furono
sostanzialmente due: la prima causa è la persecuzione contro i
cattolici della regione; la seconda è l'eccessiva tassazione imposta
da Matsukura che, per dar seguito alla politica dell'Ikkoku-ichijō
("un castello in ogni provincia") decisa dallo shogunato,
fece smantellare i castelli di Hara e Hino e fece costruire il
Castello di Shimabara, nonostante il suo feudo non fosse in grado di
sostenere tutte queste spese. Matsukura non si curava delle
condizioni già disperate dei contadini e anzi ripeteva che "i
contadini sono come spighe di grano. Più vengono spremute e più
danno". Molti contadini morivano di fame, ma i soldati dei
daimyo compivano qualunque crudeltà nei loro confronti: si dice che
rapissero ragazze per violentarle e "appenderle nude a testa
in giù" . Un cronista portoghese racconta della figlia di
un capovillaggio che fu legata nuda ad un palo e marchiata con ferri
roventi. Inoltre i soldati prendevano i bambini e li trattenevano
finché la tassa non fosse stata pagata. Alla rivolta si unirono
anche gli abitanti del vicino arcipelago di Amakusa, che governata da
Katataka Terasawa subirono anch'essi le stesse persecuzioni.
La rivolta scoppiò nell'autunno 1637,
con l'assassinio di Hayashi Hyōzaemon, il daikan di
Shimabara, ovvero l'esattore delle tasse. In molti villaggi di
Shimabara iniziarono le prime violenze e i contadini cominciarono con
l'attaccare i granai pubblici in cui era contenuto il riso con cui
avevano pagato le nuove tasse.
La notizia della ribellione arrivò a
Nagasaki, che inviò delle truppe per reprimere la rivolta. Nel
frattempo la rivolta scoppiò anche sull'arcipelago di Amakusa e
Terazawa spedì nove nobili alla testa di 3.000 uomini per sedare la
rivolta, ma il 27 dicembre 1637, il contingente inviato da Terazawa
viene completamente sconfitto. In una successiva battaglia combattuta
il 3 gennaio 1638, i ribelli di Amakusa furono sconfitti e i
sopravvissuti fuggirono dalla loro isola per unirsi ai ribelli di
Shimabara. Su Amakusa le rivolte terminarono poi il mese successivo.
Alla fine dell'anno, 5.000 - 6.000
uomini in armi, alcuni dei quali provenienti da Shimabara,
assediarono il castello di Tomioka di Terasawa ad Amakusa, per
difendere il suo castello inviò un suo tenente, Miyake Dschumhurij,
a Kusatsu per chiedere rinforzi. Questi riuscì a radunare 1.500
uomini, ma lungo la strada fu intercettato dagli insorti che lo
sconfissero, e solo una parte di quel contingente riuscì a
raggiungere il castello. Nonostante tutto però, l'esercito di
Terasawa riuscirà a respingere gli assedianti il 7 gennaio 1638.
Nella penisola di Shimabara, nel
frattempo, si pose a capo della rivolta il rōnin di appena 16 anni,
Shiro Amakusa. Gli insorti attraversarono il Mar Ariake e raggiunsero
la città di Shimabara, qui si accanirono contro gli ufficiali locali
che cercavano di fermarli, il 12 dicembre 1637 incendiarono parte
della città, e danneggiarono i templi. Decisero poi di assediare il
castello di Shimabara di Katsuie Matsukura, ma non ebbero successo e
furono respinti.
L'assedio del castello di Hara
Riunirono le loro forze al castello di
Hara, che era il vecchio castello del clan Arima, e che si trovava in
rovina perché fu smantellato da Shigemasa Matsukura. Vista la poca
protezione offerta dal castello, costruirono una palizzata con il
legno delle imbarcazioni che utilizzarono per attraversare il mare e
si andarono poi a rifornire di armi, munizioni e provviste
saccheggiando i magazzini di Matsukura.
Gli insorti capirono che senza
artiglieria e armi d'assedio non sarebbero stati in grado di
attaccare altre fortezze, per questo motivo, Amakusa, decise di
prendere possesso del castello di Hara che, sebbene fosse in rovina,
garantiva una buona protezione. Il castello era situato su un
promontorio che dava sul mare, tre lati del castello, infatti,
terminavano con un dirupo; e per attaccarlo si doveva usare l'unico
passaggio disponibile che era protetto da due profondi fossati. Nel
castello gli insorti portarono con sé anche le loro donne e i loro
bambini e gli storici ritengono che il numero di persone presenti,
tra soldati, donne e bambini, vada dai 27.000 ai 37.000. Nel castello
tutti lavorarono per rafforzare le difese e sui merli esposero croci
di legno e vessilli crociati.
Durante l'assedio, il 14 febbraio gli
insorti invieranno un lettera agli assedianti attaccata su una
freccia, in cui riassumono le loro motivazioni:
«Per amore del nostro
popolo abbiamo ora fatto ricorso a questo castello. Senza dubbio
penserete che lo abbiamo fatto nella speranza di ottenere terre e
cavalli. Ma non è questo il motivo. È semplicemente perché il
cristianesimo non è tollerato, come ben sapete. Frequenti divieti
sono stati pubblicati dallo Shogun, che ci hanno notevolmente
angosciato. Alcuni di noi che sono qui, considerano la speranza di
vita futura la cosa più importante. Per questo non ci sarà
alcuna fuga. Dato che non rinnegheranno la loro religione,
andranno incontro a tutte le severe punizioni, saranno oggetto di
molte sofferenze inumate e vergognose, fino all'ultimo, per la
loro devozione al Signore del Cielo, saranno torturati a morte.
Altri, ugualmente uomini risoluti, mossi dalla sensibilità del
corpo e dalla paura delle torture, celando il dispiacere, hanno
rispettato la volontà dello Shogun e hanno ritrattato. Stando
così le cose, tutto il popolo si unì in una rivolta, in un modo
inspiegabile e miracoloso. Dovremmo continuare a vivere come
abbiamo fatto finora e fuori dalle leggi che non saranno abrogate,
dobbiamo subire ogni sorta di dura punizione per sopravvivere;
dobbiamo, con i nostri corpi deboli e sensibili al dolore, peccare
contro il Signore del Cielo e per l'attenzione alle nostre brevi
vite perderemmo tutto quello che per noi ha il più alto valore.
Queste cose ci riempiono di un dolore insopportabile. Per questo
siamo adesso in questa situazione. Non è il risultato di una
dottrina corrotta.»
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L'esercito che assediò il castello fu
composto dalle truppe di vari feudi locali, tra gli altri era
presente anche il famoso spadaccino Musashi Miyamoto; lo Shogun diede
il comando di tutto l'esercito al daimyo Shigemasa Itakura e chiese
l'aiuto degli alleati olandesi che presero parte all'assedio con
Nicolaes Couckebacker, il capo di una compagnia commerciale, che
rifornì l'esercito a terra di cannoni e polvere da sparo, e inviò
sul luogo dello scontro tre vascelli, uno dei quali comandato dallo
stesso Couckebacker, il de Ryp. Il castello per una quindicina
di giorni subì un pesante cannoneggiamento sia dalle truppe a terra
sia dalle navi a mare, si è stimato che furono sparati 426 colpi di
cannone, ma nonostante tutto gli insorti resistettero rifugiandosi in
alcune gallerie sotterranee che avevano creato per proteggersi dalla
cannonate.
Le navi olandesi lasciarono l'assedio
di lì a poco, vista la disorganizzazione dell'esercito giapponese e
per l'inefficacia della loro strategia giapponese, anche se
probabilmente il vero motivo fu che i loro alleati giapponesi non
gradivano farsi aiutare da stranieri per sedare una rivolta interna
di tali dimensioni, e infatti gli stessi insorti si fecero beffa dei
loro nemici inviandogli con una freccia un messaggio con su scritto:
«Nel Regno non ci sono soldati più coraggiosi per combatterci, e
che non abbiano avuto la vergogna di aver chiamato in aiuto degli
stranieri contro il nostro piccolo contingente?».
Itakura, lanciò due attacchi contro il
castello, ma entrambi furono respinti dagli insorti, che causarono
molte vittime tra gli assediati, mentre loro non ebbero che poche
perdite; inoltre durante il secondo assalto, avvenuto il 14 febbraio,
Itakura fu ucciso. Lo shogunato mandò nuove truppe al comando del
daimyo Nobutsuna Matsudaira, che sostituì il defunto Itakura al
comando dell'esercito che assediava il castello.
Gli insorti riuscirono a resistere per
altri due mesi e gli assedianti continuavano a perdere uomini senza
ottenere alcun risultato. Furono le condizioni climatiche e la
tenacia degli assedianti a cambiare le sorti della battaglia. Il
freddo dell'inverno infatti aveva danneggiato entrambe le fazioni, ma
le truppe dello shogunato ricevevano periodicamente dei rinforzi a
differenza dei ribelli, che, oltretutto, cominciavano ad esaurire le
munizioni e le scorte di cibo. Nell'aprile 1638, Matsudaira aveva al
suo comando 125.000 uomini mentre gli uomini di Amakusa, stanchi e
provati dalla fame, erano circa 27.000 Per approfittare della
situazione degli insorti, Matsudaira provò a indurli alla resa
inviandogli un messaggio in cui prometteva, nonostante avesse
l'ordine di ucciderli tutti, il totale perdono per tutti i non
cristiani e per coloro che avessero ritrattato la loro fede. La
lettera arrivò nelle mani di Amakusa che rispose al suo avversario,
scrivendogli che erano tutti cristiani e sarebbero morti per la loro
fede, e quindi che non si sarebbero mai arresi.
Nella notte del 4 aprile, gli insorti,
ormai privi di cibo e munizioni, tentarono un ultimo attacco, che fu
facilmente respinto dagli assedianti che fecero pure alcuni
prigionieri. L'attacco definitivo avvenne il 12 aprile quando
l'esercito di Matsudaira riuscì finalmente a fare breccia nel
castello senza troppe difficoltà. Gli insorti non erano in grado di
resistere ancora a lungo, infatti tre giorni più tardi, il 15
aprile, furono sconfitti e le truppe dello Shogun presero possesso
del castello.
Esito della
rivolta
L'esercito dello Shogun ebbe l'ordine
di sterminare tutti gli insorti, comprese le donne e i bambini che si
trovavano con loro. Tutti gli occupanti del castello di Hara, che si
è stimato fossero tra i 27.000 e i 37.000, tra soldati e civili,
furono decapitati e i loro corpi furono ammassati e sepolti tra le
rovine del castello che fu incendiato e completamente raso al suolo.
Shiro Amakusa fu anch'esso decapitato e la sua testa venne esposta in
pubblico a Nagasaki come monito.
Lo shogunato prese dei provvedimenti
anche nei confronti degli comandanti del suo stesso esercito: i
daimyo di Nagato, Arima e Shimabara furono considerati responsabili
della rivolta e vennero decapitati; Matsukura, la cui politica
tirannica fu tra le cause della rivolta, fu indotto a compiere il
seppuku e il suo feudo passò ad un altro daimyo, Kōriki
Tadafusa. I possedimenti del clan Arima e del clan Amakusa furono
spartiti tra vari signori feudali, mentre i clan che diedero il loro
contributo militare all'esercito dello shogunato furono ricompensati
venendo esentati dai periodici contribuiti che dovevano versare allo
Shogun.
Forze
presenti a Shimabara
La rivolta di Shimabara rappresentò il
primo massiccio impiego militare dopo l'assedio di Osaka, nel quale
lo shogunato Tokugawa dovette mettere insieme un contingente formato
da truppe provenienti da varie province del Giappone.
Il primo comandante supremo delle forze
dello shogunato fu Shigemasa Itakura, al comando diretto di 800
uomini. Alla sua morte, il comando supremo passò a Nobutsuna
Matsudaira al comando di 1.500 uomini. Il vicecomandante fu Ujikane
Toda che comandava 2.500 uomini.
Il grosso dell'esercito dello shogunato
era composto da truppe provenienti dai feudi limitrofi a Shimabara.
Il contingente più grande, oltre 35.000 uomini, proveniva dall'han
(feudo) di Saga ed era al comando di Katsushige Nabeshima. Il secondo
più grande era costituito dalle truppe degli han di Kumamoto e
Fukuoka, che rispettivamente schierarono 23.500 uomini, al comando di
Tadatoshi Hosokawa; e 18.000 uomini al comando di Tadayuki Kuroda.
Dal feudo di Kurume provenivano 8.300 uomini al comando di Toyouji
Arima; dal feudo di Yanagawa, 5.500 uomini al comando di Muneshige
Tachibana; dal feudo di Karatsu, 7.570 uomini al comando di Katataka
Terasawa; da Nobeoka, 3.300 uomini al comando di Arima Hayama; da
Kokura, 6.000 uomini al comando di Ogasawara Tadazane; da Nakatsu,
2.500 uomini al comando di Nagatsugu Ogasawara; da Bungo-Takada,
1.500 uomini al comando di Shigenao Matsudaira e da Kagoshima, 1.000
uomini al comando di Arinaga Yamada.
Le forze non provenienti dai
feudi dell'isola di Kyushu erano costituite dai 5.600 uomini dal
feudo di Fukuyama, sotto il comando di Katsunari Mizuno, Katsutoshi
Mizuno e Katsusada Mizuno; e da circa 800 uomini provenienti da altre
zone del Giappone. Infine erano presenti circa 2.500 samurai, tra cui
lo spadaccino Musashi Miyamoto.
In totale, l'esercito dello
shogunato ammontava a oltre 125.800 uomini.
Le forze dei ribelli invece non si
conoscono con certezza, si stima che i soldati erano più di 14.000
uomini, e con loro erano presenti più di 13.000 non combattenti, tra
donne, bambini e anziani. Secondo altre fonti, come quella costituita
da una lettera che il gesuita portoghese Duarte Correa scrisse
durante la sua prigionia (che va dal 1637 al 1639, anno della sua
morte), riporta che dopo l'assedio furono decapitate tra le 35.000 e
le 37.000 persone.
Conseguenze
La rivolta di Shimabara fu l'ultimo
grande conflitto che svolse in Giappone durante lo shogunato
Tokugawa, che fu in generale un periodo abbastanza pacifico per il
paese.
Dopo la rivolta, lo shogunato sospettò
che i cattolici occidentali avessero favorito l'insurrezione e per
questo motivo decise di interrompere anche le relazioni commerciali
con i portoghesi, che dopo la cacciata dei missionari e degli
spagnoli, era l'ultimo rapporto che il Giappone avesse mantenuto con
dei cattolici europei. Nella primavera del 1639, alle navi portoghesi
fu impedito di sbarcare in Giappone e tutti i portoghesi furono
espulsi dal paese.
Le politiche anticattoliche che
mettevano al bando la pratica religiosa, si fecero più dure e i
cristiani furono costretti a professare la propria fede in segreto
per altri 250 anni.
Sulla penisola di Shimabara, dopo aver represso la rivolta, la
maggior parte delle città si ritrovarono con la popolazione
decimata. Al fine di non perdere i raccolti e per riprendere la
produzione di riso e delle altre colture, gli immigrati che
giungevano in Giappone furono fatti stabilire su tutto il territorio
della regione. Tutti gli abitanti furono affiliati ai templi buddisti
locali e ottennero il certificato che garantiva la loro appartenenza
alla religione buddista e la loro fedeltà allo shogunato, secondo
quanto previsto dal sistema
terauke.
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