mercoledì 5 ottobre 2016

Yoseikan budo

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Lo Yoseikan Budo (養正館武道) è un'arte marziale giapponese che nasce dalla sintesi delle esperienze di Hiroo Mochizuki, figlio del maestro Minoru Mochizuki, allievo a sua volta dei maestri Jigoro Kano (Jūdō) e Morihei Ueshiba (aikido).

Nome

La disciplina prende il nome dall'edificio Yoseikan (trad. YO=Insegnare SEI=Rettitudine KAN=Casa BU=Guerra DO=Via quindi complessivamente "La casa che insegna con rettitudine la via del guerriero"), il dojo personale di Mochizuki padre, in cui le varie discipline erano insegnate separatamente, sebbene la ricerca di Mochizuki avesse portato ad evidenziarne i tratti comuni e la creazione di alcune forme, tra l'altro erano preservati i sutemi waza di Gyokushin Ryu disciplina non insegnata nella sua interezza allo Yoseikan.

Caratteristiche

Il figlio Hiroo iniziato in giovane età alle arti marziali dal padre, con un'accurata opera di sincretismo fonde le varie discipline in un'unica arte a cui dà il nome del dojo paterno seguito dalla parola Budo per indicare la completezza dell'arte.
Lo Yoseikan Budo è un'arte marziale dalle forti connotazioni tradizionali: propone infatti un ritorno alla multidisciplinarità delle scuole di combattimento classiche del medioevo giapponese, dove il giovane guerriero veniva addestrato in tutte le tecniche necessarie al combattimento sul campo di battaglia: dal combattimento con armi lunghe, quali lo yari o la naginata, alla scherma, al combattimento corpo a corpo a mani nude o con armi corte, dall'equitazione al tiro con l'arco.
Contemporaneamente a questa sua attenzione per la formazione di un guerriero come era inteso dalla tradizione classica giapponese, lo Yoseikan Budo accetta il tempo ed il contesto in cui si colloca attualmente, fornendo a coloro che lo praticano -e soprattutto agli istruttori ed ai maestri- stimoli per un continuo arricchimento psicofisico e culturale, invitandoli continuamente mediante corsi specifici, seminari e stage a mantenere sempre viva e desta l'attenzione verso il mondo che li circonda, promuovendo l'arricchimento personale ed il miglioramento della salute fisica e mentale.
La pratica dello Yoseikan Budo contempla sia il combattimento a mani nude che quello armato. Il combattimento a mani nude è sviluppato mediante l'insegnamento di tecniche su tutte le distanze (lunga, media e lotta a terra) comprendenti: colpi (atemi) portati con tutto l'arsenale del corpo (calci, pugni, colpi di mano, gomito, ginocchio e testa), proiezioni (tipiche delle scuole di Jūdō e jujutsu), leve articolari (tipiche delle scuole aiki), immobilizzazioni e strangolamenti sia in piedi sia al suolo. Il combattimento con le armi trae le proprie origini dalle scuole classiche di scherma giapponese (katori shinto ryu) e prevede l'uso di armi lunghe (yari, naginata, bō) della spada (katana) e di armi corte (tanbō sia singolo che doppio, coltello, nunchaku, tonfa, sai).
Inoltre per permettere di esercitarsi nel combattimento oltre all'uso delle protezioni (caschetto con visiera, guantoni, conchiglia, paraseno per le ragazze, paratibie e parapiedi), è stato introdotto l'uso di armi sportive, quali il tschobo (katana), tanbo (bastone medio) e konbo (tantò), che ripropongono le dimensioni dei corrispettivi reali ma sono rivestite da una leggera imbottitura che le rende pressoché innocue.
Nel suo percorso di formazione lo Yoseikan, tenendo conto delle nuove metodologie didattiche, contempla l'uso di forme miste con uso di tecniche a corpo libero associate a tecniche di arma per migliorare lo studio della distanze e dei tempi. Al fine inoltre di fornire un adeguato allenamento cardiovascolare, è stato introdotto l'uso di forme musicali per allenare la routine tecnica in maniera aerobica e ritmica.
Lo scopo dello Yoseikan budo è pertanto quello di formare un “guerriero universale” capace di usare qualsiasi arma, a qualsiasi distanza, in qualsiasi situazione, e di adattarsi agli eventi senza farsi travolgere, trovando l'armonia in sé e con l'avversario e favorendone la realizzazione. Lo Yoseikan Budo vuole essere la ricerca del “ceppo comune” che attraversa tutte le arti marziali mediante la riscoperta dei movimenti chiave che gestiscono il corpo umano, come l’onda shock che ne è la caratteristica indiscussa.

martedì 4 ottobre 2016

Ryū

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Ryū era storicamente un'istituzione di tipo feudale creata dai vari clan oppure dall'iniziato di un daimyō, allo scopo di insegnare le arti marziali ai samurai del proprio clan.
Ryū (il cui carattere kanji è ) viene tradotto con "scuola" o "stile" (da intendersi come una corrente di pensiero), basti infatti pensare a come moltissimi stili di karate o di altre arti marziali in genere, adottino il suffisso -ryu nel loro nome.
Come accade a molte parole giapponesi, queste hanno più possibili traduzioni, difatti ryuu viene anche tradotto come lo "scorrere di un fiume". Questo concetto però, contrariamente a quanto sembra, non si discosta dalla traduzione di "scuola/stile", anzi queste due traduzioni vanno di pari passo, in quanto si intende che le conoscenze di un'arte marziale, all'interno di una scuola, si tramandano di generazione in generazione e scorrono fino ad arrivare ai giorni nostri.

lunedì 3 ottobre 2016

Kubera

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Kubera o Kuvera (sanscrito कुबेर) è una delle divinità indiane. Egli è conosciuto anche come Dhanapati, ovvero il dio della ricchezza. Durante il periodo vedico questo essere mitologico dall'aspetto di un nano era considerato una figura demoniaca, e comandava tutte le creature che si celavano nel buio, nell'Atharvaveda (uno dei quattro Veda), infatti, egli è il signore delle creature del buio e figlio del dio Vaisravana; nel Shatapatha Brahmana, invece, egli è descritto come il signore dei ladri e di tutti i criminali. Fu soltanto con l'introduzione dell'induismo e con il suo consolidamento che Kubera divenne una divinità benevola, e addirittura uno degli otto guardiani del mondo. Nell'olimpo induista egli è raffigurato a cavallo del suo carro magico, Pushpak, con il quale solca i cieli facendo piovere sui poveri oro ed altre ricchezze. Secondo la versione induista, quando Brahma era intento a creare l'universo, gli cadde dal viso un granello di pietra, che si trasformò in un essere che elesse a custode dei tesori nascosti nel sottosuolo. Una seconda versione vuole che Kubera, ancora in veste di capo dei demoni, entrasse nel tempio di Śiva per derubarlo, quando la sua candela si spense, dopo numerosi tentativi di riaccenderla, ci riuscì, e lo stesso dio Siva, nel vedere tanta perseveranza lo premiò facendolo assurgere al rango di essere divino.
Secondo la storia visse per un certo tempo in un palazzo che Brahma fece costruire per i demoni, che questi ultimi avevano abbandonato. Tornati per riprenderne possesso, inviarono con l'inganno al padre di Kubera una vergine-demone, di nome Kaikesi, che lo sedusse e con il quale concepì i tre fratellastri di Kubera, Ravana, Kumbhakarna e Vibhishana. È a causa di Ravana, divenuto invincibile grazie all'intervento di Brahma, a capo di un esercito di demoni, che Kubera viene infine sconfitto e cacciato da Lanka. Recatosi al cospetto di Brahma in persona, Kubera chiede una nuova dimora che il dio fece costruire apposta per lui ad opera dell'architetto degli dei Vishvakarman, sul sacro monte di Kailash, nella catena montuosa dell'Himalaya.
Nelle raffigurazioni, Kubera ha 4 mani in cui tiene un melograno, un sacco di danaro, una clava e un recipiente d'acqua. Egli è spesso seduto su una base di loto, con al fianco il suo animale preferito, la mangusta, che sputa continuamente monete d'oro. Caratteristica peculiare di Kubera, è il magico carro, Pushpak, fatto costruire per ordine di Brahma da Vishvakarman, per soccorrere questo dio goffo e obeso; questo carro è così immenso da poter contenere una intera città. Quando suo fratellastro Ravana cercò di rapire Sītā, consorte di Rama, egli rubò il carro di Kubera e lo usò per la sua malefatta narrata nel celebre poema epico Ramayana. In qualità di tesoriere divino, Kubera è custode dei nove Nidhi, o tesori ineffabili che custodisce in una sontuosa città, Alakapuri, situata nel leggendario monte Mandara, menzionato nei Purana. Nel suo compito di custode dei tesori del mondo, Kubera è aiutato dai mitici Kinnara, esseri celestiali di sesso maschile, e dalle loro corrispondenti femminili, le Kinnoris.




domenica 2 ottobre 2016

Difesa attiva

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Difesa attiva è un termine usato negli sport da combattimento per indicare una attività volta a bloccare l'offensiva dell'avversario e utilizzarla a proprio favore, diversamente dalla difesa "classica", il cui unico scopo è quello di difendere. Per esempio, "A" blocca il suo avversario ("B") che si avvicina con un colpo di arresto. Nella difesa classica, "A" avrebbe semplicemente parato o evitato il colpo di "B".
Come l'aggettivo indica, la difesa si traduce in una attività diretta all'offensiva dell'avversario. Utilizzando questo tipo di tecnica, si fa in modo che l'offensiva dell'avversario arrechi il minor danno possibile e si utilizza l'attività dell'avversario per completare un contrattacco efficace.
Il primo obiettivo è limitare i danni e i traumatismi possibili durante la difesa: parata "assorbente" (assorbimento di colpo) e deviazione dell'arma di attacco.
Il secondo obiettivo è prendere vantaggio dell'attacco dell'avversario.
Sono previste due modalità:
  • Una difesa che permette di completare un contrattacco. Per esempio, assorbire il colpo e contrattaccare o deviare l'arma e squilibrare l'avversario allo stesso tempo per contrattaccare vantaggiosamente,
  • Una difesa che permette di attaccare, in altre parole passare all'offensiva durante l'iniziativa dell'avversario, o nell'avanzamento dell'opponente o nel suo attacco propriamente detto. In questo caso, la strategia è simile al contracolpo. Per esempio, disturbare l'avversario nell'avvicinarsi o nello sviluppo del suo attacco, con aiuto di un colpo nell'asse diretta.

sabato 1 ottobre 2016

Dori waza

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Nelle arti marziali, le prese dell'avversario sono delle tecniche di combattimento per lo più usate nel judo, nel jujutsu e nell'aikido, anche se poi sono state adottate da molte altre arti marziali. Le prese dell'avversario vengono chiamate Dori Waza o Tori Waza e servono per afferrarlo con la possibilità poi di sferrare altri colpi, oppure di proiettarlo a terra (Nage waza), oppure di applicare qualche tecnica di controllo (katame waza). Le tecniche di presa sono molte e vengono chiamate con il nome della parte afferrata, seguita dalla parola dori o tori (es.: presa alla gamba=Ashi dori/tori). Ecco un elenco delle prese più comuni:
  • Ashi dori: presa ad una gamba
  • Eri dori: presa al bavero della giacca
  • Tsukami (o Zukami) dori: presa che tira verso di sé (di solito si afferrano le braccia)
  • Kami dori: presa ai capelli
  • Hiji/Enpi dori: presa al gomito
  • Kata dori: presa alla spalla
  • Kakuto dori (o Tekubi dori o Kote dori): presa al polso
  • Kubi dori: presa al collo
  • Mune dori: presa al petto
  • Sode/Sote dori: presa alla manica
  • Sokumen dori: presa di lato
  • Ude dori: presa ad un braccio

venerdì 30 settembre 2016

Yoshin Ryu

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Yōshin-ryū (楊心流) ("La scuola dello Spirito del Salice") è un nome comune a diverse tradizioni di Arti Marziali fondate in Giappone nel periodo Edo. La più popolare e nota fu la linea Yōshin-ryū fondata dal medico Akiyama Shirōbei Yoshitoki a Nagasaki nel 1632. Il lignaggio Yōshin-ryū di Akiyama è forse il più influente stile di jujutsu in Giappone. Verso la fine del periodo Edo infatti, la scuola di Akiyama e correnti derivate erano diffuse in buona parte del Giappone e in epoca Meiji lo Yōshin-ryū fu importato anche in Europa e Stati Uniti.


Curriculum

Il lignaggio Akiyama del Yōshin-ryū è famoso per un curriculum che contiene anche kyūshojutsu (急所術) e atemi (percussione in punti vitali) e lo sviluppo dell'energia interna, insegnamenti che potrebbero avere un'origine cinese. Si ritiene che alcuni di questi insegnamenti siano poi stati assorbiti da tradizioni derivate o da altri stili di jujutsu. In realtà l'unica scuola della linea Akiyama che sopravvive ancora oggi è la Yōshin-ryū naginata di Hiroshima guidata da Koyama Takako, tuttavia la scuola in passato fu molto prolifica e ha influenzato profondamente altri stili oggi esistenti.



Derivati

Tra le scuole derivate dall'Akiyama Yōshin-ryū jujutsu si possono ricordare:
Danzan ryu, Shin Yoshin ryu, Shin Shin ryu, Sakkatsu Yoshin ryu, Shin no Shindo ryu, Tenjin Shin'yō-ryū, Shindō Yōshin-ryū, Takamura ha Shindo Yoshin ryu, Wado-ryū (scuola moderna di Jujutsu Kenpo/Karate basata sullo Shindō Yōshin-ryū), Ryushin Katchu ryu, Ito ha Shinyo ryu, Kurama Yoshin ryu, Kodokan Judo.



Takagi Yoshin ryu e Hontai Yoshin ryu

Le scuole Takagi Yoshin Ryu e Hontai Yoshin ryu non sono a rigore lignaggi Yōshin-ryū ma si ritiene discendano da un'altra tradizione molto nota, il Takenouchi-ryū che a sua volta deriva da una tradizione molto antica tipicamente giapponese. Sebbene questi stili sembrino in parte influenzati dallo Yōshin-ryū, non vi sono documenti che dimostrino relazioni accertate.
Queste due correnti sono note anche con i seguenti nomi:
Hontai Yoshin ryu, Takagi ryu, Hontai Takagi Yoshin ryu, Takagi Hontai Yoshin ryu, Kukishin ryu, and Minaki Den Kukishin ryu.
Una scuola che deriva dal Takagi ryu è il Shingetsu Muso Yanagi ryu.

giovedì 29 settembre 2016

Aditī

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(SA)
«aditir dyaur aditir antarikṣam aditir mātā sa pitā sa putraḥ
viśve devā aditiḥ pañca janā aditir jātam aditir janitvam»
(IT)
«Aditi è il firmamento, Aditi è l'atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cinque razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere.»
(Ṛgveda, I, 89,10)



Aditī (devanāgarī अदिति, il cui significato è "priva di limiti/vincoli") è una divinità della religione vedica e da qui passata al più recente Induismo.

La Dea madre

La sua figura è quella della Madre di tutte le forme esistenti, degli dèi e degli esseri viventi, oltre ad aver generato un gruppo di divinità collegate alla luce denominate Āditya.
Il Ṛgveda (VIII,25,3; VIII,10,3e83; VIII,4,79) indica in Aditī la madre di Mitra, Varuṇa e Aryaman, mentre nel IV,25,3 del medesimo testo è madre di tutti gli Āditya.
Nel Mahābhārata appare invece come paredra di Kaśyapa da cui generò Viṣṇu e Indra.
Nel Viṣṇu Purāṇa fu Kaśyapa a dividere il feto di Aditī in dodici parti da cui nacquero i dodici Āditya.


mercoledì 28 settembre 2016

Tokonoma

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Un tokonoma (床の間) è una piccola alcova rialzata presente nelle washitsu, la stanza in stile tradizionale Giapponese con tatami per pavimento, dove solitamente sono appese le pergamene giapponesi, dette emakimono. Anche Ikebana e/o bonsai appaiono spesso in esse. I tokonoma e gli elementi che lo compongono sono componenti essenziali dell'architettura d'interni tipica giapponese. I Tokonoma apparvero durante il Periodo Muromachi (XIV secolo - XVI secolo).
Quando si fanno accomodare gli ospiti nella washitsu (solitamente una stanza apposita tra le stanze in stile occidentale), la corretta etichetta giapponese vuole che l'ospite più importante le sia seduto d'innanzi, dandole le spalle. Questo per modestia; in quanto all'ospitante non è dato mostrare il contenuto del tokonoma all'ospite, quindi non è necessario fare in modo che lui lo veda durante il convivio.
È molto scortese entrare nel tokonoma.
L'architetto americano Frank Lloyd Wright, influenzato dall'architettura giapponese, lo ha paragonato al caminetto, facendone la controparte occidentale.

martedì 27 settembre 2016

Fukushima Masanori

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Fukushima Masanori (福島 正則; 1561 – 1624) è stato un generale giapponese e un daimyō, al servizio dei Tokugawa.
Ostile a Ishida Mitsunari simpatizzò subito per Ieyasu Tokugawa; Ishida con un pretesto bruciò il castello di Masanori; durante la battaglia di Sekigahara sferrò il primo attacco alle truppe di Ukita rimanendo in prima linea per tutto il tempo. Vinta la battaglia e catturato Ishida, Masanori ebbe l'onore e il piacere di decapitare l'odiato daimyo a Kyoto insieme ad Anko e Konishi.
Possedeva una delle tre grandi lance del Giappone: Nihongo, o Nippongo (日本号). Usata un tempo nel Palazzo Imperiale, la Nihongo è stata poi posseduta da Masanori Fukushima, per poi passare in mano a Tahei Mori. È stata recuperata, restaurata ed ora si trova al The Fukuoka City Museum.

lunedì 26 settembre 2016

Wabi-cha

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«Ci si dovrebbe rendere conto che la Via del tè è solo bollire l'acqua, preparare il tè e berlo.»
(Sen no Rikyū, 千利休, 1522-1591)



Wabi-cha (侘茶) è lo stile della Cerimonia del tè giapponese praticata secondo gli insegnamenti dei monaci buddhisti zen Murata Shukō (村田珠光, 1423-1502), Takeno Jōō (武野紹鴎, 1502-1555), e Sen no Rikyū (千利休, 1522-1591).
Essa si caratterizza per la semplicità e la sobrietà del rito e per il suo stretto collegamento agli insegnamenti buddhisti.
Il fondamento della concezione wabi () della Cerimonia del tè è già presente fin dall'opera di Murata Shukō quando egli evidenziava come "uno splendido cavallo si manifesta meglio in un'umile capanna che in una sontuosa stalla". Secondo lo studioso giapponese Masao Shoshin Ichishima la metafora di Murata Shukō è evidente: il meraviglioso cavallo rappresenta la "mente originaria" (giapp. hongaku, 本覺) mentre l'umile capanna di paglia indica la "stanza del tè" (Chashitsu, 茶室 soprattutto nel suo stile yojouhan 四畳半). La sobria e semplice bellezza wabi si oppone dunque alla bellezza sontuosa, denominata in giapponese basara (伐折羅, tale termine deriva dal sanscrito vajra che in quella lingua indica il diamante) di cui lo shogun Toyotomi Hideyoshi (豊臣秀吉, 1536-1598) fu per lungo tempo propugnatore.
Murata Shukō riprendeva questa sua particolare concezione della Cerimonia del tè proprio dalle dottrine buddhiste enunciate, nel II secolo, dal maestro indiano Nāgārjuna.
Nel Mahāprajñāpāramitā-śāstra (Commentario al Mahāprajñāpāramitā-sūtra, 大智度論 pinyin: Dà zhìdù lùn, giapp. Daichidoron, T.D. 1509, 25.57c-756b, opera attribuita a Nāgārjuna e tradotta da Kumārajīva in 100 fascicoli. Conservato nel Shìjīnglùnbu) si legge:
«I saggi conoscono la loro soddisfazione per mezzo di piccoli desideri. La terra del Buddha è piena di gemme preziose che ricoprono tremila grandi mondi. Da dove derivano tali gemme preziose? Quando i buddha e i saggi soddisfano le loro menti con un desiderio minimo, allora tali gemme si manifestano per loro»
(Mahāprajñāpāramitā-śāstra 大智度論, T.D. 1509, 25.57c-756b)



L'ideale del Shōyuku Chisoku (少欲知足)

La dottrina del "desiderio minimo" (sanscrito: alpecchatā, cinese 少欲 shǎoyù, giapp. shōyoku, tib. 'dod pa chung ngu) che porta ad una piena soddisfazione (知足, cin. zhīzú, giapp. chisoku), verrà ripresa dal nipote di Sen no Rikyū, Jakuan Sotaku nel suo Zencharoku (禅茶録, scritto nel 1826 ma su una tradizione orale ben più antica) con la dottrina Shōyuku Chisoku (la soddisfazione si conosce attraverso piccoli desideri). Ovvero non bisogna cercare il "desiderio" perfetto attraverso le "gemme" ma attraverso la realizzazione di piccoli desideri le "gemme" si manifestano.
Kobori Enshu (小堀遠州, 1579-1647) chiese al suo maestro Furuta Oribe (古田織部, o Furuta Shigenari, 古田重然, 1545-1615, già allievo di Sen no Rikyū ), come dovesse essere un giardino in stile wabi. Furuta Oribe rispose con una poesia:
«La luna di sera,
un lago appena visibile
attraverso gli alberi.»
(Furuta Oribe)



Secondo il principio del Shōyuku Chisoku l'autentica bellezza non può essere scorta nella piena visuale, ciò impedisce di scorgere la propria mente-cuore meravigliosa se questa viene disturbata da tutto ciò che si presenta.

Il wabi-cha e il Sutra del Loto

Il Zencharoku affronta anche un altro tema importante, sottinteso nella Cerimonia del tè, secondo il wabi-cha: incorporare l'essenza dei suoi insegnamenti attraverso la pratica concreta della "Via del tè" (Chado) e non attraverso la loro comprensione teorica o dottrinaria.
L'insegnamento di questa pratica concreta, la "Via del tè", avviene esclusivamente per mezzo di un rapporto diretto tra il maestro del tè e il suo discepolo, relazione denominata in giapponese con il termine kuden (口傳, cinese kǒu chuán o anche 口訣 giapp. kuketsu, cin. kǒu jué) e che ha origine nella trasmissione orale dell'insegnamento buddhista (Dharma).
L'insegnamento kuden avviene con l'utilizzo dei "mezzi abili" (giapponese hōben, dal sanscrito उपाय upāya, cinese 方便 fāngbiàn) da parte del maestro. A tal proposito, il Zencharoku cita espressamente il terzo capitolo del Sutra del Loto (giapp. 妙法蓮華經 Myōhō Renge Kyō), con la narrazione della parabola della Casa in fiamme dove il maestro del tè rappresenta il padre che vuole salvare i figli che si intrattengono in giochi all'interno di una casa incendiata.

domenica 25 settembre 2016

Sen no Rikyū

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Sen no Rikyū (千利休, anche Sen Rikyū; Sakai, 1522 – 21 aprile 1591) è stato un monaco buddhista giapponese, zen, riformatore della cerimonia del tè giapponese, che codificò in maniera definitiva nella forma wabi-cha, e maestro del tè di personaggi politici di primo piano del suo tempo quali Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi.

La vita

Sen no Rikyū nacque a Sakai, cosmopolita città portuale di mercanti, ubicata vicino a Ōsaka. Figlio di un gestore di magazzini di nome Tanaka Yohei (田中与兵卫, date sconosciute) e di Gesshin Myōchin (月岑妙珎, date sconosciute), il suo nome era Yoshiro. All'età di diciassette anni divenne discepolo del maestro del tè Kitamuki Dochin (北向道陳, 1504-1562) e, poco dopo, entrò come monaco nel tempio buddhista zen rinzai Nanshu-ji di Sakai, ricevendo il nome monastico di Sōeki (宗易). Lì studio sotto il maestro zen Dairin Sōtō (1480-1568). Due anni dopo divenne allievo di un altro maestro zen, Takeno Jōō (武野紹鴎, 1502-1555) che era a sua volta stato allievo dei discepoli di Murata Jukō (村田珠光, 1423-1502), Sochin e Sogo. Takeno Jōō era dunque erede del lignaggio della cerimonia del tè avviata circa mezzo secolo prima da Murata Jukō e dal grande maestro zen Ikkyū Sōjun (一休宗純, 1394 – 1481). Sen no Rikyū rimase allievo di Takeno Jōō per i successivi quindici anni, nei quali approfondì lo stile wabi-cha.
Ciò che rimane oggi dell'antica residenza di Sen no Rikyū a Sakai (Ōsaka) sua città natale. Sul lato destro della foto si può osservare il pozzo dell'acqua a cui il maestro attingeva per la Cerimonia. La stanza del tè (chashitsu, 茶室), denominata Jisso-an, è andata perduta durante i bombardamenti della II Guerra mondiale, ma è stata ricostruita ed è attualmente conservata presso il tempio buddhista zen rinzai, Nanshu-ji di Sakai.
Successivamente si trasferì presso il monastero buddhista zen rinzai, il Daitoku-ji (大徳寺) di Kyōto, approfondendo gli studi religiosi e quelli inerenti alla cerimonia del tè. Nel 1580, a 58 anni, Sen no Rikyū divenne maestro del tè personale dello shogun Oda Nobunaga (織田 信長, 1534-1582). È il periodo della diffusione presso la casta dei samurai della cerimonia del tè di ispirazione zen nello stile wabi-cha, uno stile che se da una parte si presentava come estremamente disciplinato ed estetico, nella sua radicale sobrietà esponeva quei principi religiosi sulla vita e sulla morte tipici dello zen. Non di rado questa cerimonia era praticata negli accampamenti militari. Entrato in rapporto con Oda Nobunaga, nel ruolo di suo maestro del tè, questa carica andava al di là delle sue finalità apparenti. In un'epoca difficilissima come quella dell'ultimo quarto del cinquecento, funestata da lotte intestine sanguinosissime, gli equilibri tra i vari clan dominanti erano difficilissimi e assai instabili. Alla corte del daimyo, Sen no Rikyū svolgeva quindi anche un ruolo politico e diplomatico, oltre quello istituzionale legato al cerimoniale. Alla morte di Oda Nobunaga, nel 1582, passò al servizio del suo successore Toyotomi Hideyoshi (豊臣秀吉, 1536-1598). Quest'ultimo era un generale di Oda Nobunaga dalla personalità molto forte e dai metodi piuttosto sbrigativi. Tuttavia Toyotomi Hideyoshi era anche un raffinato esteta e un sincero appassionato dell'arte del tè e di tutto il contesto estetico-religioso che circondava questa disciplina. Così in occasione della presentazione della cerimonia del tè nello stile wabi-cha all'imperatore Ōgimachi (正親町天皇 Ōgimachi-tennō, 1517-1593), evento procuratogli grazie all'intercessione di Toyotomi Hideyoshi, Se no Rikyū ottiene dall'imperatore il nome onorifico buddhista Rikyū Koji (利休 居士che il maestro semplificherà successivamente in Rikyū.
Nel 1587, sempre con l'aiuto di Toyotomi Hideyoshi, Sen no Rikyū organizzò un'importante riunione sulla cerimonia del tè presso il Kitano Tenman-gū (北野天満宮, un tempio scintoista a Kamigyō-ku nei pressi di Kyōto) invitando centinaia di persone di ogni estrazione sociale e consentendo ai meno abbienti l'utilizzo di riso tostato al posto del tè, prodotto più costoso.
Il grande ricevimento del 1587 fu uno degli ultimi episodi dell'amicizia tra lo shogun Hideyoshi e il maestro del tè.
Col tempo i due entrarono in rotta di collisione. Di fondo, il dissidio era di tipo filosofico: il wabi-cha di Sen no Rikyū, cioè la ricerca instancabile della semplicità e il rifiuto, connaturato al suo carattere, di qualsiasi ostentazione, si contrapponeva al gusto sfarzoso di Toyotomi.
Il conflitto dei due è stato minuziosamente analizzato e sono state fatte molte ipotesi. Si disse che Toyotomi si fosse invaghito di Ogin, giovane figlia di Rikyu. Che si rimproverasse a Rikyu il tentativo di griffare gli utensili del tè, imponendo e sfruttando la moda per ritrarre dalla vendita degli oggetti profitti considerevoli.
Sembra che Toyotomi accusasse Rikyu di culto della personalità in relazione alla presunta erezione di una statua, rappresentante il maestro, all'ingresso del Daitoku-ji.
Di certo il dissidio si aggravò con la spedizione militare in Corea, organizzata da Toyotomi per spirito di conquista e giudicata da Rikyu un'operazione di espansionismo non condivisibile. Sicuramente l'estensione dei conflitti anche all'estero, e su rotte commerciali importanti, turbava non poco la classe mercantile di cui, per nascita, Rikyu faceva parte. Quindi la censura, ben lungi dall'essere morale, era incardinata su interessi economici rilevantissimi.
Va tuttavia considerato che l'espansionismo di Totyotomi era ampiamente giustificato dalle esigenze della classe samurai che erano divenute ormai difficilissime, se non impossibili, da soddisfare in Giappone, in quanto le terre disponibili erano ormai tutte occupate e non si poteva materialmente far luogo a nuove assegnazioni al numero sempre crescente di samurai che le esigenze di potere di Toyotomi richiedevano.
Da ultimo sembra che un supposto avvicinamento di Rikyu ai Tokugawa fosse visto come un tentativo di tradimento. Toyotomi non aveva tutti i torti a temere il clan rivale, se è vero che alla sua morte divennero i nuovi signori e che in seguito alla battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600) riuscirono in un'impresa, giudicata impossibile: l'unificazione del paese sotto il loro potere.
Il conflitto tra i due si acuiva e Toyotomi insisteva nella sua politica di utilizzare l'arte del tè per costruire un'estetica di corte sfarzosa e nello stesso tempo popolare. Ai suoi ricevimenti, cosiddetti chakai, partecipava un numero sempre più grande di persone. Al famoso daichakai (grande cerimonia del tè) di Kitano, furono invitati tutti quelli che coltivassero interesse per il cha no yu trasformandolo in un fenomeno di massa.
A un certo punto il conflitto giunse al suo epilogo e le personalità dei due contendenti erano troppo forti per cercare un compromesso. Toyotomi ordinò a Rikyu di eseguire il seppuku, forse sperando in un cedimento dell'altro. Ma Rikyu non era tipo da piegarsi e, dopo aver offerto a Toyotomi per l'ultima volta il tè nella sua spoglia ed essenziale chashitsu, si suicidò. Prima di morire scrisse una poesia di addio, secondo l'usanza, e incise un ultimo chashaku, il cucchiaino di bambù che si usa per preparare il tè, cui diede il nome di Namida cioè "Lacrime". Si dice che in quest'ultimo oggetto Rikyu abbia trasfuso tutta la sua forza spirituale, tutto il suo credo estetico.

Il wabi-cha

L'essenza del pensiero di Rikyu è il concetto di wabi-cha. Al sabi, cioè la patina del tempo che segna l'aspetto delle cose e allo yūgen, l'incanto sottile che non si può descrivere con le parole, tanto caro agli autori dei drammi Nō, Rikyu aggiunse questo concetto che dopo di lui diverrà il fulcro di tutta l'estetica zen.
Il wabi è la semplicità, la povertà ricercata fino a divenire estrema sintesi di ogni forma. È anche il rifiuto di qualsiasi orpello, di ogni ostentazione, che appesantisca l'espressione. Più che gli scritti di Rikyu, descrivono il concetto gli aneddoti che rappresentano assai bene il suo pensiero. Come quando, dovendo ricevere Toyotomi, eliminò tutti i fiori del giardino per lasciarne uno solo esposto nel tokonoma affinché la sua forma fosse essenziale, concettuale, archetipica. La vita stessa di Rikyu è un paradigma del wabi.
E anche la sua morte, così scarna, dignitosa, quasi disumana. Rikyu fu costretto al seppuku, al suicidio rituale, da Toyotomi e nulla fece per sottrarsi al suo destino. Protestando contro l'atto del tiranno nella forma più semplice possibile: avviandosi alla morte senza concedere nulla alla debolezza, alla fragilità umana.
Dei due fu Rikyu il vincitore: Toyotomi morì nel 1598 e nulla rimase del suo sogno egemonico. Due successive spedizioni in Corea ebbero esito catastrofico. Il clan Tokugawa riunificò il Giappone ponendo fine all'epoca terribile delle guerre civili e iniziando una signoria destinata a durare oltre due secoli e mezzo, fino alla restaurazione imperiale Meiji. Di Rikyu e della sua filosofia è rimasta una traccia profonda sia in Giappone che in molti paesi e ancora oggi ogni giorno migliaia di suoi epigoni ripetono i gesti da lui fissati più di quattro secoli fa.

L'eredità di Rikyu

Dopo la morte del maestro non ci furono particolari atti persecutori nei confronti della sua famiglia e i suoi discendenti, con l'avvento dell'era Tokugawa, ritornarono nelle case dei Sen. I nipoti fondarono varie scuole ancora oggi esistenti. Le due principali sono l'Ura Senke ((JA) 裏千家) e l'Omote Senke ((JA) 表千家). Il nome deriva dalla posizione delle case davanti (omote) o dietro (ura) rispetto al fronte della strada. Le case sono ancora lì: in una via periferica di Kyōto, con tutto il loro contenuto di tesori sia materiali che spirituali.
Il cha no yu, un tempo corredo spirituale e di etichetta delle giovani spose giapponesi, è divenuto un fenomeno che raccoglie, nel mondo, migliaia di adepti. E il pensiero di Rikyu è ancora vivo e costituisce ancora un sostegno per i samurai di oggi. Si dice che nella sede di ogni grande multinazionale giapponese vi sia, in disparte, una chashitsu, dove i manager ritrovano l'armonia, lontani dal frastuono del mondo. L'arte è comunque assai praticata anche in occidente e molti capiscuola, in vari paesi, sono degli occidentali.



sabato 24 settembre 2016

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Il ( lett. "abilità") è una forma di teatro sorta in Giappone nel XIV secolo che presuppone una cultura abbastanza elevata per essere compreso, a differenza del kabuki che ne rappresenta la sua volgarizzazione. I testi del nō sono costruiti in modo da poter essere interpretati liberamente dallo spettatore, ciò è dovuto in parte alla peculiarità della lingua che presenta numerosi omofoni. È caratterizzato dalla lentezza, da una grazia spartana e dall'uso di maschere caratteristiche.

Storia

Si evolse, insieme alla strettamente correlata farsa kyōgen, da varie forme d'arte popolari ed aristocratiche, tra cui il dengaku, lo shirabyoshi e il gagaku. Kan'ami e suo figlio Zeami portarono il nō alla sua forma presente durante il periodo Muromachi. A sua volta il Nō influenzò successivamente altre forme d'arte teatrali come il kabuki e il butō. Durante la restaurazione Meiji il nō ed il kyōgen vennero riconosciuti ufficialmente come due delle tre forme teatrali tradizionali.
Inizialmente faceva parte, insieme al kyōgen, di una forma drammatica nota come sarugaku. Mentre il nō era centrato sulla danza e sul canto il kyōgen era soprattutto basato sui dialoghi e sull'improvvisazione che seguiva canovacci predeterminati. In realtà, Zeami utilizza i termini "nō" e "sarugaku" indistintamente. Egli stesso ha creato l'etimologia della parola sarugaku. Per "saru" egli non utilizza il kanji tradizionale di scimmia, ma usa quello di scimmia dello zodiaco. Quest'ultimo tra l'altro, è presente anche nella parola "kami" che significa Dio e che ritroviamo anche in "kagura". Il secondo kanji è quello che si legge "gaku" in "sarugaku", e quindi il sarugaku può essere inteso come parte del kagura. Infine, i due caratteri che compongono la parola "sarugaku", possono anche essere letti come "tanoshimi wo mōsu", cioè "comunicare la gioia".
A partire dal XVI secolo i due generi si diversificarono. Il nō veniva recitato da attori in maschera ed era basato su testi scritti. I primi risalgono al XV secolo ma la maggior parte fu composta nel XVI. Il Kyōgen invece continuava a basarsi in gran parte sull'improvvisazione. I personaggi principali di un nō sono esseri soprannaturali (divinità, spiriti) oppure personaggi storici o leggendari. Anche in questo si differenziava dal kyōgen i cui protagonisti erano gente comune.
Il primo autore di nō fu Kan'ami Kiyotsugu (1334-1384). Insieme a suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1443) e al nipote Motomasa Jūrō (1394-1431) formano la triade della scuola Kanze. Zeami è forse l'autore più importante di ogni epoca con all'attivo oltre duecento opere, che vengono tuttora messe in scena, e molti scritti sul teatro e sull'esecuzione delle opere.
Va comunque considerato che il nō è una forma teatrale antica tuttora in vita, caso piuttosto raro, e che anche in tempi moderni ci sono stati autori che hanno scritto per questo genere. Uno fra tutti Yukio Mishima (Kindai nogaku shu, Cinque nō moderni, 1956).
L'okina o kamiuta è una forma di rappresentazione unica che combina la danza con rituali shintoisti. Viene considerata la più antica rappresentazione nō.
L''Heike monogatari, un racconto medievale dell'ascesa e della caduta del clan Taira, cantata originariamente da monaci ciechi che si accompagnavano con il biwa, è un'importante fonte di materiale per il nō (e per successive forme teatrali), particolarmente per rappresentazioni di guerrieri. Un'altra fonte importante è il Genji monogatari, un lavoro dell'XI secolo, definito a volte il primo romanzo del mondo. Gli autori si ispirarono anche a classici del periodo Nara e del periodo Heian ed a fonti cinesi.
Al giorno d'oggi ci sono in Giappone circa 1500 attori professionisti di nō e la forma d'arte continua ad esistere. Le cinque scuole esistenti di nō sono la Kanze (観世), la Hosho (宝生), la Komparu (金春), la Kita (喜多) la Kongo (金剛). Ognuna ha a capo una famiglia conosciuta come sō-ke e solo il capofamiglia di questa ha il diritto di creare nuove rappresentazioni o modificare quelle esistenti. La società degli attori nō è ancora abbastanza feudale e protegge strettamente le tradizioni dei propri antenati.
Secondo Zeami (attore e autore di questa forma d'arte nel XIV secolo) tutte le rappresentazioni nō dovrebbero creare un ideale estetico chiamato yugen, che significa uno spirito profondo e sottile e di hana, che significa novità. Il nō rappresenta davvero la cultura giapponese di ricercare la bellezza nella sottigliezza e nella formalità.

Caratteristiche

La scena

Palco di un teatro nō
  1. 1: Kagami-no-ma (Stanza degli specchi)
  2. 2: Hashigakari (Ponte)
  3. 3: Palcoscenico
  4. 4-7: Quattro colonne chiamate rispettivamente Metsuke-Bashira, Shite-Bashira, Fue-Bashira e Waki-Bashira.
  5. 8: Jiutai-za. Jiutai (i componenti del coro) siedono qui.
  6. 9: I suonatori siedono qui. Dalla sinistra verso destra: Kue-za (suonatore di flauto traverso chiamato No-kan), Kotsuzumi-za (un piccolo tamburo), Ohtsuzumi-za (un tamburo di medie dimensioni) e occasionalmente Taiko-za (un largo tamburo).
  7. 10: kohken-za (suggeritore)
  8. 11: Kyogen-za (Kyogen-shi, un attore comico, appare in alcune opere)
  9. 12: Kizahashi (scalini)
  10. 13: Shirazu (sabbia bianca)
  11. 14-16: Pini (Rispettivamente il primo, secondo e il terzo)
  12. 17: Gakuya (Backstage)
  13. 18: Makuguchi (L'entrata principale al palcoscenico. Kagamino-ma e Hashigakari sono circondate da una tenda chiamata Agemaku. Agemaku è colorata in tre o cinque colori. Gli attori e i suonatori passano attraverso questa entrata.)
  14. 19: Kirido-guchi. Entrata per le cantanti del coro (Jiutai) e gli assistenti di scena (Kohken).
  15. 20: Kagami-ita. Il disegno di un rigoglioso pino verde, nello stile della scuola Kano
La scena è molto semplice e ridotta anch'essa all'essenziale. La rappresentazione Nō ha luogo su un palco fatto di Hinoki (cipresso giapponese). Il palcoscenico è completamente vuoto a parte il "kagami-ita", un dipinto di un pino, realizzato su un pannello di legno, posto sul fondo del palco. Ci sono molte spiegazioni possibili per la scelta di questo albero, ma una tra le più comuni è che simboleggia il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra, secondo il rituale shintoista.
In contrasto con il palco completamente disadorno, i costumi sono estremamente ricchi: Molti attori, in particolari quelli Shite, sono vestiti con abiti di broccato di seta.
Gli attori, per salire alla ribalta, percorrono una passerella posta a sinistra del palcoscenico detta Hashigakari. Questa soluzione fu poi trasposta nel Kabuki, dove viene denominata Hanamichi, cioè ponte dei fiori.
Il butai, cioè lo spazio scenico, viene considerato come un mondo intermedio in cui si incontrano il mondo divino e quello umano. Ciò è dimostrato dalla sua stessa struttura architettonica che ha valenze cosmologiche: il tetto che lo ricopre lo definisce in quanto spazio sacro, e i pilastri che lo sostengono sono considerati tramiti tra il mondo umano e il mondo sovrannaturale. L'honbutai, cioè la parte centrale dello spazio scenico è collegato alla camera dello specchio (kagami no ma) da un corridoio detto hashigakari. L'hashigakari si immette nella kagami no ma da occidente, così come a occidente, nell'immaginario comune, si trova il paradiso della Terra Pura buddhista. Infine il ponte presente sul palcoscenic può essere considerato come il tramite tra il nostro mondo, rappresentato dal palco, e l'altro mondo, rappresentato dalla camera dello specchio.



Gli attori

Nel nō i movimenti degli attori sono estremamente stilizzati e ridotti all'essenziale. Piccoli cenni del capo o movimenti del corpo hanno significati ben precisi. I ruoli sono fissi: esistono quattro tipi principali di attori: shite, waki (comprimario), kyogen, e hayashi.
  • Gli Shite sono gli attori più comuni, recitano molti ruoli tra cui:
    • "Shite" (primo attore)
    • "Tsure" (compagno dello shite)
    • "Jiutai" (coro, solitamente di 6-8 membri)
    • "Koken" (assistenti di scena, di solito 2-3 attori).
  • I kyogen rappresentano alcuni interludi durante le rappresentazioni.
  • Gli "hayashi" sono i musicisti che suonano i quattro strumenti del teatro nō.
Una tipica rappresentazione del nō vedrà in scena tutte le categorie di attori e solitamente dura dai 30 ai 120 minuti. Il repertorio del nō conta circa 250 rappresentazioni suddivisibili in cinque categorie (organizzate in base al tema principale):
  • 1ª Categoria: Rappresentazioni sulle divinità.
  • 2ª Categoria: Rappresentazioni sui guerrieri.
  • 3ª Categoria: Rappresentazioni sulle donne.
  • 4ª Categoria: Rappresentazioni varie.
  • 5ª Categoria: Rappresentazioni sui demoni.



La musica

La musica di accompagnamento è eseguita con strumenti a fiato (fue, flauto) e a percussione (ōtsuzumi, kotsuzumi, tamburi).
Il nō è cantato, per questa ragione, molte persone tendono pensare al nō come ad una forma di opera giapponese. Ciò nonostante, il canto nel teatro nō sfrutta una scala tonale limitata e presenta lunghi passaggi ripetitivi. La chiarezza e la melodia non rappresentano l'obiettivo del canto nel teatro Nō benché i testi siano poetici e le strofe riprendano pesantemente il tipico ritmo giapponese sette-cinque, familiare a chi conosce i waka o i più recenti haiku. Il canto del Nō nonostante sia povero di espressioni risulta pregno di allusioni. In realtà la musica nō e il kakegoe (lo strano suono gutturale delle voci dei percussionisti) sono state ricalcate dai rituali sciamanici. I tamburi sono tradizionalmente strumenti giapponesi per indurre la trance, il flauto è uno strumento per evocare la discesa degli spiriti, e i kakegoe sono parte dell'invito agli dei a manifestarsi.

L'uso delle maschere

Lo shite recita in maschera il che ovviamente toglie ogni possibilità di esprimersi con la mimica facciale. Però la grande abilità degli attori produce quasi espressività della maschera anche grazie al fatto che quest'ultima è scolpita in modo tale che a secondo dell'orientamento e della diversa incidenza della luce si producano mutamenti espressivi. Poiché i buchi posti all'altezza degli occhi sono di ridottissime dimensioni, per aumentare ulteriormente l'espressività, gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Tutte le maschere del teatro nō (能面 nō-men o omote) hanno un nome.
Di solito solo lo shite, l'attore principale, porta la maschera. Può comunque accadere, che in alcuni casi, anche gli tsure possano indossare una maschera, in particolare per i personaggi femminili. Le maschere Nō sono di solito ritratti di personaggi femminili o non umani (divinità, demoni o animali), ci sono comunque anche maschere rappresentanti ragazzi o vecchi. Gli attori senza maschera hanno sempre un ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant'anni. Anche il comprimario waki non indossa maschere.
Usata da un attore capace la maschera è in grado di mostrare differenti espressioni e sentimenti a seconda della posizione della testa dell'attore e dell'illuminazione. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste o una grande varietà di altre espressioni. Studi condotti da Michael J. Lyons della ATR Intelligent Robotics and Communication Labs a Kyōto, Giappone e Ruth Campbell della Università di Londra, hanno esplorato questa particolare caratteristica delle maschere.
La maschera inoltre, ha una funzione mediatrice cioè può incarnare entità superiori e costituire quindi un punto di incontro tra il tempo mitico e il tempo storico. Essa ha anche la funzione di richiamare i morti sulla terra: indossando la maschera del defunto, l'attore ne incarna lo spirito. Ecco perché qualsiasi spettacolo è preceduto da una sorta di venerazione nei confronti della maschera: in questo modo l'attore pensa che potrà incarnare al meglio il personaggio. Nei drammi più antichi le maschere erano addirittura considerate delle divinità, ecco perché ogni spettacolo era preceduto da preghiere rivolte a tali divinità.



Famosi drammi nō

(Le categorie sono della scuola Kanze)
  • Aoi no uye -- "Court Lady Aoi" (Categoria 4)
  • Dojoji -- "Dojoji" (Categoria 4)
  • Hagoromo -- "Il mantello di piume" (Categoria 3)
  • Izutsu -- "The Well Cradle" (Categoria 3)
  • Matsukaze -- "Pining Wind" (Categoria 3)
  • Sekidera Komachi -- Komachi a Sekidera (Categoria 3)
  • Shakkyo -- "Il ponte di pietra" (Categoria 5)
  • Shojo -- "L'Elfo che beve" (Categoria 3)
  • Yorimasa -- "Yorimasa" (Categoria 2)
  • Yuya -- "Yuya" (Categoria 3)