martedì 13 febbraio 2018

Pang De







Pang De (cinese semplificato: 庞德, cinese tradizionale: 龐德, pinyin: Páng Dé) (170 – 219) è stato un militare cinese, al servizio del primo ministro Cáo Cāo tra la fine della Dinastia Han e l'inizio del periodo dei Tre Regni.
Ufficiale Wei, serviva inizialmente il generale Ma Chao, ma viene catturato durante l'attacco di Cao Cao ad Han Zhong e cambiò fronte. Al servizio del Ministro, diviene famoso per la sua lealtà ed integrità. Durante la battaglia di Fancheng, combattuta nella primavera del 219 tra il Regno Wei, guidato da Cao Cao, ed il regno di Shu, rifiutò di arrendersi al comandante avversario Guan Yu, andando così incontro alla morte.
Si dice che prima della battaglia Pang De, certo di morire, avrebbe fatto allestire la sua stessa bara prima di scendere in campo. Nel romanzo storico del XIV secolo Romanzo dei Tre Regni di Luo Guanzhong si narra che Pang De avrebbe impartito alla moglie istruzioni per occuparsi nel migliore dei modi del figlio Pang Hui, e che avrebbe predetto che Pang Hui l'avrebbe vendicato, come in effetti successe quando Pang Hui massacrò l'intera famiglia del già defunto Guan Yu.

lunedì 12 febbraio 2018

Chi You

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Chi You (蚩尤) o anche Chiyou era un leggendario leader tribale della tradizione cinese, che comandava gli eserciti delle 9 tribù barbare Li (九黎), che furono combattute dal leggendario Imperatore Giallo durante il periodo mitico dei Tre Augusti e Cinque Imperatori. È considerato il capostipite del popolo Hmong (pronunciato nella loro lingua come "Txiv yawg"), che attualmente è stanziato nel sud-est della Cina, nei pressi dell'isola di Hainan.
Chi You è famoso per essere stato l'avversario dell'Imperatore Giallo durante la mitica battaglia di Zhuolu (attualmente nella prefettura di Zhangjiakou della provincia dello Hebei, a circa 150 km da Pechino). Questa fu combattuta dagli eserciti uniti di Huang Di (l'imperatore giallo) e di Yandi, condottieri della tribù Huaxia, contro i Li di Chi You stesso, per il controllo della valle di Huang He (Fiume giallo). La battaglia fu combattuta in una fitta nebbia e si racconta che gli Huaxia ebbero la meglio grazie all'uso della bussola magnetica.

domenica 11 febbraio 2018

Canone buddhista

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I testi sacri del Buddhismo (tradizionalmente indicati come Tripiṭaka, "tre canestri") sono attualmente raccolti in tre canoni: il Canone pāli (o Pāli Tipiṭaka), il Canone cinese (大藏經, Dàzàng jīng), e il Canone tibetano (composto dal Kangyur e dal Tanjur), così denominati in base alla lingua degli scritti.
I canoni buddhisti raccolgono gli insegnamenti, i sermoni, le parabole e i detti di Siddhārtha Gautama (il Buddha), le regole di vita all'interno del Sangha (la "comunità" dei fedeli, sia monaci che laici) e le tecniche per il raggiungimento del Nibbāṇa, ovvero l'"estinzione", intesa come liberazione dal saṃsāra, l'eterno ciclo karmico di nascita, morte e rinascita a cui sono soggetti tutti gli esseri senzienti.
Sebbene la religione buddhista sia divisa al suo interno in numerose scuole di pensiero, di cui le tre correnti maggioritarie sono il Theravāda, il Mahāyāna e il Vajrayāna, che hanno sviluppato dottrine contrastanti e prodotto testi altrettanto diversi, i canoni di tutte le scuole condividono alcune dottrine fondamentali, impartite dal Buddha stesso, che costituiscono il Dharma, la "legge morale" o "condotta di vita" che deve rispettare ogni fedele buddhista, e sono:
  • le Quattro nobili verità;
  • il Nobile Ottuplice Sentiero;
  • l'Ahimsa (compassione o nonviolenza);
  • la meditazione, che conduce alla Bodhi (illuminazione);
  • il Nibbāṇa, estinzione della sofferenza.

Il Canone pāli

Il Canone pāli è proprio del Buddhismo Theravāda, e si compone di tre piṭaka, o canestri: il Vinaya Piṭaka, o "canestro della disciplina", contiene le regole di vita dei monaci; il Sutta Piṭaka o "canestro della dottrina", contenente gli insegnamenti impartiti dal Buddha; infine l'Abhidhamma Piṭaka o "canestro della fenomenologia" in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta Piṭaka. Questo canone possiede una celebre edizione, trascritta in alfabeto latino e tradotta in lingua inglese, pubblicata in 57 volumi dalla londinese Pali Text Society tra il 1877 e il 1927.

Il Canone cinese

Il Canone cinese si compone di 2.184 testi a cui vanno aggiunti 3.136 supplementi tutti raccolti, nell'ultima edizione, in 85 volumi di stile occidentale pubblicati in Giappone (Tokyo, 1924-1929). Inaugurata durante l'era Taishō, questa edizione è detta comunemente "Canone dell'Era Taishō" (大正新脩大蔵經 Taishō Shinshū Daizōkyō) ed è divenuta lo standard di riferimento nei Paesi di antica influenza cinese.

Il Canone tibetano

Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangyur (composto da 600 testi, in 98 volumi, riporta discorsi attribuiti al Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (raccolta, in 224 volumi, di 3.626 testi tra commentari e insegnamenti). Questo canone fu dato alle stampe in tibetano la prima volta a Pechino nel 1411, e solo nel 1742 in Tibet, questa edizione è in 333 volumi.
Parte dei Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente Canone tradotto in sanscrito ibrido sotto l'Impero Kushan e poi andato in buona parte perduto. Questi due Canoni furono adottati dalla tradizione Mahāyāna che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il Canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'Impero Kushan. La traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pràcrite a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come lo fu il latino nel Medioevo europeo) fu voluta dagli stessi imperatori kushan. Buona parte di questi testi furono successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari kushani (ma anche persiani e sogdiani), sia riportati in patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya) delle scuole presenti oggi in Tibet e in Cina derivano da due antichissime scuole indiane, rispettivamente dalla Mulāsarvastivāda e dalla Dharmaguptaka.




sabato 10 febbraio 2018

Nihongi

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Il Nihongi (日本紀), chiamato anche Nihon Shoki (日本書紀) ed a volte tradotto come Annali del Giappone, è il secondo libro in ordine cronologico della storia giapponese classica. È più elaborato del Kojiki, che è stato scritto prima del Nihonji ma si occupa principalmente degli aspetti religiosi della corte imperiale.
Si è dimostrato di inestimabile valore per gli storici poiché include le registrazioni più complete riguardanti gli eventi e le decisioni prese alla corte imperiale giapponese nei suoi periodi più antichi. Il Nihon Shoki fu terminato nel 720 sotto la supervisione del principe Toneri, figlio dell'imperatore Temmu, con l'assistenza dello storiografo Ō-No-Yasumaro. È il primo delle sei storie nazionali (六国史 Rikkokushi), le antiche cronache riferite alla storia dell'impero fino all'887.

Contenuto

Come il Kojiki, il Nihon Shoki inizia con i racconti della mitologia giapponese: la nascita delle prime divinità, elencate in una lunga e a volte confusa lista di nomi, prosegue con la comparsa di una coppia di dèi, fratello e sorella: Izanagi e Izanami, dalla cui unione nacquero le Ōyashima, le 8 isole che originariamente costituirono il Giappone. Poi continua le sue narrazioni fino al periodo contemporaneo alla stesura dell'opera.
Si compone di trenta volumi che narrano le vicende del Giappone fino al 697 d.C., riportate in rigoroso ordine cronologico e storicamente abbastanza attendibili solo in riferimento agli ultimi tre secoli della narrazione. Al pari del Kojiki, ha come scopo la glorificazione del passato e la legittimazione del diritto perpetuo della dinastia regnante.
Si pensa che descriva con accuratezza i regni dell'imperatore Tenji, dell'imperatore Temmu e dell'imperatrice Jitō, e si focalizza sui meriti dei sovrani virtuosi e sui demeriti di quelli cattivi. Descrive episodi dell'era mitologica del Giappone ma anche i contatti con gli altri paesi.
Mentre il Kojiki era scritto in giapponese (traslitterato con caratteri cinesi), il Nihon Shoki era scritto in cinese classico, come era usanza per i documenti ufficiali del tempo, ed era ispirato al modello delle storie ufficiali cinesi.

Capitoli

  • Capitolo 01: (Primo capitolo di miti) Kami no Yo no Kami no maki.
  • Capitolo 02: (Secondo capitolo di miti) Kami no Yo no Shimo no maki.
  • Capitolo 03: (Jinmu) Kamuyamato Iwarebiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 04:
    • (Suizei) Kamu Nunakawamimi no Sumeramikoto.
    • (Annei) Shikitsuhiko Tamatemi no Sumeramikoto.
    • (Itoku) Ōyamato Hikosukitomo no Sumeramikoto.
    • (Kosho) Mimatsuhiko Sukitomo no Sumeramikoto.
    • (Koan) Yamato Tarashihiko Kuni Oshihito no Sumeramikoto.
    • (Korei) Ōyamato Nekohiko Futoni no Sumramikoto.
    • (Kogen) Ōyamato Nekohiko Kunikuru no Sumramikoto.
    • (Kaika) Wakayamato Nekohiko Ōbibi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 05: (Sujin) Mimaki Iribiko Iniye no Sumeramikoto.
  • Capitolo 06: (Suinin) Ikume Iribiko Isachi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 07:
    • (Keikō) Ōtarashihiko Oshirowake no Sumeramikoto.
    • (Seimu) Waka Tarashihiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 08: (Chuai) Tarashi Nakatsuhiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 09: (Jingu) Okinaga Tarashihime no Mikoto.
  • Capitolo 10: (Ojin) Homuda no Sumeramikoto.
  • Capitolo 11: (Nintoku) Ōsasagi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 12:
    • (Richu) Izahowake no Sumeramikoto.
    • (Hanzei) Mitsuhawake no Sumeramikoto.
  • Capitolo 13:
    • (Ingyo) Oasazuma Wakugo no Sukune no Sumeramikoto.
    • (Anko) Anaho no Sumeramikoto.
  • Capitolo 14: (Yuryaku) Ōhatsuse no Waka Takeru no Sumeramikoto.
  • Capitolo 15:
    • (Seinei) Shiraka no Take Hirokuni Oshi Waka Yamato Neko no Sumeramikoto.
    • (Kenzo) Woke no Sumeramikoto.
    • (Ninken) Oke no Sumeramikoto.
  • Capitolo 16: (Buretsu) Ohatsuse no Waka Sasagi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 17: (Keitai) Ōdo no Sumeramikoto.
  • Capitolo 18:
    • (Ankan) Hirokuni Oshi Take Kanahi no Sumeramikoto.
    • (Senka) Take Ohirokuni Oshi Tate no Sumeramikoto.
  • Capitolo 19: (Kimmei) Amekuni Oshiharaki Hironiwa no Sumeramikoto.
  • Capitolo 20: (Bidatsu) Nunakakura no Futo Tamashiki no Sumeramikoto.
  • Capitolo 21:
    • (Yomei) Tachibana no Toyohi no Sumeramikoto.
    • (Sushun) Hatsusebe no Sumeramikoto.
  • Capitolo 22: (Suiko) Toyomike Kashikiya Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 23: (Jomei) Okinaga Tarashi Hihironuka no Sumeramikoto.
  • Capitolo 24: (Kogyoku) Ame Toyotakara Ikashi Hitarashi no Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 25: (Kotoku) Ame Yorozu Toyohi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 26: (Saimei) Ame Toyotakara Ikashi Hitarashi no Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 27: (Tenji) Ame Mikoto Hirakasuwake no Sumeramikoto.
  • Capitolo 28: (Temmu, primo capitolo) Ama no Nunakahara Oki no Mahito no Sumeramikoto, Kami no maki.
  • Capitolo 29: (Temmu, secondo capitolo) Ama no Nunakahara Oki no Mahito no Sumeramikoto, Shimo no maki.
  • Capitolo 30: (Jito) Takamanohara Hirono Hime no Sumeramikoto.

Processo di compilazione

Shoku Nihongi nota nel maggio del 720 che "先是一品舎人親王奉勅修日本紀。至是功成奏上。紀三十巻系図一巻". Tradotto significa che "A quel tempo il principe Toneri aveva compilato il Nihongi su ordine dell'imperatore, e lo aveva completato presentandogli 30 volumi di storia e un volume di genealogia". Quest'ultimo non è più esistente.

Contributi

Il processo di compilazione è solitamente studiato attraverso analisi statistiche di ogni capitolo. Sebbene scritto in cinese classico, alcune sezioni utilizzano uno stile tipicamente giapponese, mentre altre sembrano esser state scritte da autori di madrelingua cinese. Secondo gli studi più recenti, buona parte dei capitoli dopo il quattordicesimo (riguardante le cronache dell'Imperatore Yuryaku) furono scritti da nativi cinesi, eccetto il capitolo 22 e 23 (le cronache di Suiko e Jomei). Inoltre, visto che il capitolo 13 finisce con la frase "vedi i dettagli dell'incidente nella cronaca dell'imperatore Ōhastuse (Yūryaku)", riferendosi all'assassinio dell'imperatore Ankō, si suppone che questo capitolo fu scritto dopo la compilazione dei capitoli seguenti. Alcuni ipotizzano che il capitolo 14 fu il primo ad essere completato.

Fonti

Si dice che il Nihon Shoki si basi su documenti più antichi, in modo particolare sulle registrazioni che sono state continuamente tenute dalla corte Yamato sin dal sesto secolo. Esse includono documenti e folklore riportati dai clan che servivano la corte. Prima del Nihon Shoki, c'era il Tennoki (Annali degli Imperatori o anche Cronache degli Imperatori), e kokki (Cronache dello Stato) compilate dal principe Shōtoku e dallo statista Soga no Umako, ma poiché erano conservati negli archivi del clan Soga, andarono bruciati durante l'incidente di Itsushi, che pose fine all'egemonia di tale clan.

venerdì 9 febbraio 2018

Ares






Ares (in greco antico: Ἄρης, Árēs) nella religione greca è il figlio di Zeus ed Era. Viene molto spesso identificato tra i dodici Olimpi come il dio della guerra in senso generale, ma si tratta di un'imprecisione: in realtà Ares è il dio solo degli aspetti più violenti della guerra e della lotta intesa come sete di sangue. Ares era il dio più affascinante e bello tra gli dèi e per questo motivo faceva ingelosire Apollo,nonostante fosse suo "semifratello". Per i Greci, Ares era un dio del quale diffidare sempre. Il suo luogo di nascita e la sua vera residenza si trovavano in Tracia, ai limiti estremi della Grecia, paese abitato da genti barbare e bellicose; e proprio in Tracia Ares decise di ritirarsi dopo che venne scoperto a letto con Afrodite. Anche Atena è la dea della guerra ma il suo campo di azione è quello delle strategie di combattimento e dell'astuzia applicata alle battaglie, mentre Ares si diverte e si esalta per gli scoppi di furia e violenza, più graditi da Ares se improvvisi e subdoli, che in guerra si manifestano, delle atrocità connesse o no alla guerra (risse, barbarie, razzie…), non a caso Eris è sua sorella, gregaria e anche, in alcuni testi, una delle sue amanti. Fra i suoi animali sacri c'erano il cane, il cinghiale e l'avvoltoio.
La parola "Ares" fino all'epoca classica fu usata anche come aggettivo, intendendosi come infuriato o bellicoso, ad esempio si ricordano le forme Zeus Areios, Athena Areia, o anche Aphrodite Areia. Alcune iscrizioni risalenti all'epoca Micenea riportano Enyalios, un nome che è sopravvissuto fino all'epoca classica come epiteto di Ares.
Pur essendo protagonista nelle vicende belliche, raramente Ares risultava vincitore. Era più frequente, invece, che si ritirasse dalla contesa, come quando combatté a fianco di Ettore contro Diomede, o nella mischia degli Dei sotto le mura di Troia: in entrambi i casi si rifugiò sull'Olimpo perché messo in seria difficoltà, direttamente o indirettamente, da Atena. Altre volte la sua furia brutale si trovò contrapposta e vanificata da eroi o semidei, per esempio dalla lucida astuzia e dalla forza di Eracle, come nell'episodio dello scontro dell'eroe con suo figlio Cicno.
I Romani identificarono Ares con il dio Marte, che era un'antica divinità degli indoeuropei, la cui figura aveva però assunto in territorio italico caratteri diversi, essendo in origine una divinità "rurale" pacifica e benefica già all'epoca venerato di più rispetto ad Ares. Fu anche assunta dagli Etruschi col nome di Maris.

Il culto di Ares

Nonostante la sua figura sia importante per poeti e aedi, il culto di Ares non era molto diffuso nell'antica Grecia, tranne a Sparta dove veniva invocato perché concedesse il suo favore prima delle battaglie e, nonostante sia presente nelle leggende riguardanti la fondazione di Tebe, è uno degli dei sul conto del quale gli antichi miti meno si soffermano.
A Sparta era presente una statua di Ares che lo raffigurava incatenato, a simboleggiare che lo spirito della guerra e della vittoria non avrebbero mai potuto lasciare la città; durante le cerimonie in suo onore venivano sacrificati cani, usanza mutuata dall'antica pratica di sacrificare cuccioli alle divinità ctonie.
Ad Atene il tempio di Ares nell'agorà, che il geografo Pausania ebbe modo di vedere nel II secolo, era in realtà un tempio dedicato a Marte. L'Areopago, ovvero la collina di Ares sulla quale predicò Paolo di Tarso, si trova invece ad una certa distanza dall'Acropoli e nei tempi antichi vi si svolgevano i processi e la sua presunta relazione con Ares potrebbe essere solo frutto di un'errata interpretazione etimologica.

I simboli di Ares

Ares aveva una quadriga trainata da quattro cavalli immortali dal respiro infuocato, legati al carro con finimenti d'oro. Tra tutti gli dei si distingueva per la sua armatura bronzea e luccicante e in battaglia abitualmente brandiva una lancia. I suoi uccelli sacri erano il barbagianni, il picchio, il gufo reale e, specialmente nel sud della Grecia, l'avvoltoio. Secondo le Argonautiche gli uccelli di Ares, muovendosi come uno stormo e lasciando cadere piume appuntite come dardi, difendevano il suo tempio costruito dalle Amazzoni su di un'isola vicina alla costa del Mar Nero. Spesso Ares viene rappresentato su pietra con il colore rosso, rosso come il sangue, simbolo degli atti feroci che si compiono in guerra.

Gli epiteti di Ares

Enialio (Ενυαλιος, traslitterato anche come Enialo) ossia "Guerriero", era un epiteto comune per Ares. È interessante notare che nelle tavolette Micenee in scrittura lineare B si trova il nome di un dio chiamato Enialio, mentre "ares" pare essere semplicemente il sostantivo usato per chiamare la guerra. Tuttavia in epoca classica la figura di Enialio era stata declassata al rango di eroe (e in questa veste appare nell'Iliade) mentre Ares era assunto al rango di divinità. Enialio sopravvisse poi come un titolo di culto esclusivamente in alcuni ambiti.
Altri epiteti di Ares sono:
  • Brotoloigos (Βροτολοιγός, Il distruttore di uomini)
  • Andreiphontês (Ανδρειφοντης, L'assassino di uomini)
  • Miaiphonos (Μιαιφόνος, Colui che è macchiato di sangue)
  • Teikhesiplêtês (Τειχεσιπλήτης, Colui che assalta le mura)
  • Maleros (Μαλερός, Brutale)

Ares nella mitologia

La nascita

Ares era figlio del Re degli Dei Zeus e della Regina degli Dei Era. Le sue sorelle erano Ebe e Ilizia.
Stando a Omero e Quinto Smirneo, Ares aveva una sorella gemella: Eris.
Secondo un altro mito, riportato da Ovidio e dal Primo Mitografo Vaticano, Eris e Ares sono stati concepiti da Era semplicemente toccando un fiore, senza che la dea giacesse con Zeus.

Gli aiutanti di Ares

Dalla sua relazione con Afrodite nacquero due figli, Deimos e Fobos, che personificavano gli spiriti del terrore e della paura. Sorella e degna compagna del sanguinario Ares era Enio, dea degli spargimenti di sangue, Bia, la violenza e Cratos, la forza bruta. Solitamente Ares scendeva in guerra accompagnato da Cidoimo (il demone del frastuono della battaglia), dai Makhai (spiriti della battaglia), dagli Hysminai (gli spiriti dell'omicidio), da Polemos (uno spirito della guerra minore) e dalla figlia di Polemos Alalà, personificazione del grido di guerra dei Greci e il cui nome Ares decise di usare come proprio grido di guerra. Suo fedele soldato fu anche Alettrione.

La fondazione di Tebe

Uno dei miti più importanti riguardo ad Ares è quello che tratta del suo coinvolgimento nella fondazione della città di Tebe in Beozia. L'eroe Cadmo aveva ricevuto dall'Oracolo di Delfi l'ordine di seguire una vacca e fondare una città nel luogo dove si fosse fermata. L'animale si fermò presso una fonte custodita da un drago acquatico sacro ad Ares. Cadmo uccise il mostro e, su consiglio di Atena, ne seminò al suolo i denti: da questi nacquero istantaneamente dei guerrieri, gli Spartiati che aiutarono Cadmo a fondare quella che sarebbe appunto diventata Tebe. Cadmo, prima di diventarne il re dovette però servire Ares per otto anni per espiare l'affronto fattogli uccidendo il drago, nonché sposare la figlia del dio e di Afrodite, Armonia per appianare la discordia tra loro sorta.

Eracle e Cicno

Alcuni racconti parlano di un figlio di Ares che abitava in Macedonia, Cicno, che era così sanguinario da aver tentato di costruire un tempio dedicato al padre usando le ossa e i teschi dei viaggiatori da lui trucidati. Questo mostro venne a sua volta ucciso da Eracle: la morte del figlio suscitò l'ira di Ares che a sua volta si scontrò con il più grande degli eroi, finendone però ferito e sconfitto.

Il tradimento di Afrodite

Nella leggenda cantata dal bardo nel salone del palazzo di Alcinoo si narra che il dio del sole Helios una volta vide Ares e Afrodite che si incontravano di nascosto nella camera di Efesto e che andò subito a riferirglielo. Efesto studiò un sistema per sorprendere in flagrante la coppia e fabbricò una rete dorata con la quale legò i due amanti clandestini: aspettò e, durante un incontro amoroso, i due rimasero intrappolati nella rete e finirono così bloccati in una posizione assai intima e compromettente. Efesto, non ancora soddisfatto, chiamò gli altri dei dell'Olimpo per mostrare loro i due sfortunati amanti. Le dee per modestia si rifiutarono di andare, ma gli dei andarono senza indugio. Alcuni si abbandonarono a commenti sulla bellezza di Afrodite, altri osservarono che avrebbero volentieri preso il posto di Ares e, in buona sostanza, nessuno perse l'occasione di farsi beffe di loro. Una volta liberati Ares, imbarazzato e pieno di vergogna, se ne andò via tornando in Tracia, la sua terra natia.
Una versione della leggenda di epoca più tarda dice che Ares aveva messo di guardia alla porta il giovane Alectrione perché lo avvisasse dell'arrivo di Helios, dato che sapeva che se li avesse scoperti lo avrebbe rivelato ad Efesto, ma il giovane finì per addormentarsi. Ares, visto che Alectrione non aveva rispettato le consegne, si infuriò e per punirlo lo trasformò in un gallo, animale che da allora non dimentica mai al mattino di avvisare dell'arrivo del sole.

Ares rapito dagli Aloadi

Nell'Iliade la dea Dione riferisce alla figlia Afrodite che gli dei molto hanno sofferto a causa dei mortali e racconta del rapimento di Ares da parte di Oto ed Efialte.
Apollodoro ci racconta infatti che i due fratelli, semidei in quanto figli di Poseidone, ma detti Aloadi dal nome del secondo marito della loro madre Ifimedea, una volta dichiarata guerra all'Olimpo, decisero che per primo dovesse essere neutralizzato proprio Ares, e quindi si recarono in Tracia, dove rapirono il dio della guerra, lo incatenarono e lo misero in un vaso di bronzo dove restò imprigionato per tredici mesi, cioè un anno lunare.
E quella sarebbe stata la fine di Ares e dei suoi desideri di guerra se la bella Eribea, la matrigna dei due giganti, non avesse detto ad Hermes che cosa avevano fatto i due, spiega la dea alla figlia nel poema. Ares rimase chiuso nel vaso ad urlare e lamentarsi finché Ermes non andò a salvarlo mentre Artemide indusse nel contempo con un trucco Oto ed Efialte ad uccidersi l'un l'altro.

L'Iliade

Nell'Iliade Artemide mostra come in quella vicenda Ares non avesse stretto alleanze fisse con alcuno dei contendenti, e neppure mostrasse rispetto per Temi, la personificazione dell'ordine e della giustizia. Promise ad Atena ed Era di schierarsi dalla parte degli Achei, ma Afrodite fu abile a convincerlo a passare invece al fianco dei Troiani. Nel corso della guerra Diomede, mentre si stava scontrando con Ettore, vide Ares che combatteva nello schieramento troiano e ordinò così ai suoi uomini di ripiegare lentamente. Il dio guidò personalmente la mortale lama di Ettore contro numerosi guerrieri achei, uccidendo Teutrante, Oreste, Treco, Eleno, Enomao e Oresbio, mentre da solo massacrò il forte Perifante. Hera, la madre di Ares, si accorse di quest'inopportuna intromissione e chiese a Zeus il permesso di allontanare il figlio dal campo di battaglia. La dea esortò Diomede ad attaccare Ares, così l'eroe gli scagliò contro una lancia e il suo urlo di battaglia spaventò tanto i Troiani quanto gli Achei. Atena fece in modo che la lancia colpisse Ares, che urlando di dolore fuggì sull'Olimpo costringendo i Troiani a ritirarsi. Durante il contrattacco alle navi decide di scendere sulla terra per vendicare il proprio figlio affermando di non curarsi di ritorsioni da parte di Zeus, ma viene fermato da Atena che lo convince a restare dicendo che anche le altre divinità sarebbero state punite. Successivamente, quando Zeus permise agli dei di partecipare nuovamente alla guerra, Ares tentò di scontrarsi con Atena per vendicarsi della ferita precedentemente subita, ma fu nuovamente battuto e ferito quando la dea lo colpì scagliandogli contro un grosso masso.

Amanti e figli di Ares

  1. Afrodite - Dea della bellezza, figlia di Zeus e Dione
    1. Eros (secondo molte leggende)
    2. Anteros (Personificazione dell'amore non corrisposto)
    3. Deimos
    4. Phobos
    5. Armonia
    6. Adrestia (secondo alcuni miti è la dea della vendetta, compagna di battaglie del dio della guerra)
    7. Imeros (gemello di Eros e uno degli Eroti)
    8. Pothos (come il fratello Himeros rappresenta il desiderio d'amore sessuale)
    9. Priapo (secondo una leggenda)
    10. Athys (trovato vicino alle rive di un fiume quando era in fasce)
  2. Agraulo - Regina di Atene, amata da Ares e da Ermes
    1. Alcippe - Fanciulla violentata da Alirrozio, figlio di Poseidone
  3. Altea - Moglie di Oineo, re di Calidone
    1. Meleagro - Eroe della caccia di Calidone
  4. Arpina (o Sterope, secondo alcune leggende) - Ninfa, figlia del fiume Asopo
    1. Enomao - Re di Pisa, ucciso da Pelope (pare)
  5. Astinome - Sacerdotessa troiana
    1. Calidone - Eponimo della regione di Calidone
  6. Astioche - Figlia di Attore
    1. Ascalafo - Sovrano di Orcomeno, ucciso da Deifobo
    2. Ialmeno - Fondatore di una colonia sul Ponto Eusino
  7. Atalanta - Eroina cacciatrice
    1. Partenopeo - Uno dei Sette contro Tebe
  8. Bistonis - Ninfa della Tracia
    1. Tereo - Re di Tracia
  9. Calliope - Musa
    1. Eagro - Dio fluviale (secondo una leggenda)
  10. Critobule - Personaggio sconosciuto
    1. Pangeo - Eroe tracio
  11. Demodice - Moglie di Creteo
    1. Eveno - Re d'Etolia
    2. Testio - Re di Pleurone
  12. Dotide (o Crise) - Figlia dell'Almo
    1. Flegias - Eroe eponimo dei Flegei
  13. Eos - Dea dell'Aurora
  14. Filonome - Ninfa
    1. Licasto - Sovrano di Arcadia
    2. Parrasio - Gemello di Licasto
  15. Ossa - Ninfa di una montagna
    1. Sitone (secondo alcune leggende)
  16. Otrera - Regina e capostipite delle Amazzoni
    1. Ippolita - Uccisa dall'eroe Eracle
    2. Antiope - Rapita da Teseo e madre di Ippolito
    3. Melanippe - Uccisa da Telamone durante le fatiche di Eracle
    4. Lisippe (secondo alcune leggende)
    5. Pentesilea - Uccisa in duello da Achille
  17. Pelopia - Figlia del re Pelia
    1. Cicno - Crudele brigante
  18. Perimele - Principessa di Orcomeno
    1. Issione (secondo una leggenda)
  19. Cirene o Pirene - Ninfa (a volte identificata con la Cirene figlia del re dei Lapiti)
    1. Diomede - Re di Tracia, ucciso da Eracle (secondo alcune leggende)
    2. Licaone - Re macedone, ucciso da Eracle
  20. Protogenia - Figlia del re Calidone
    1. Ossilo - Pronipote di Eolo
  21. Teogone - Fanciulla di Licia
    1. Tmolo - Re di Lidia
  22. Triteia - Sacerdotessa di Atena
    1. Melanippo - Fondatore di Triteia
  23. Rea Silvia - Vestale, discendente del semidio Enea, figlio della dea dell'amore e della bellezza Afrodite / Venere
    1. Romolo e Remo - Fondatori di Roma
  24. Da madre sconosciuta
    1. Lico - Re di Libia
  25. Da madre sconosciuta
    1. Solimo (secondo una leggenda)
  26. Da madre sconosciuta
    1. Strimone - Re di Tracia, poi dio fluviale
  27. Da madre sconosciuta
    1. Tereo - Re di Tracia
    2. Driante - Fratello del precedente
  28. Da madre sconosciuta
    1. Trace - Capostipite tracio
  29. Da madre sconosciuta
    1. Patacao (secondo una leggenda)
    2. Euritione - Centauro




giovedì 8 febbraio 2018

Sutra del Loto






Il Sutra del Loto, o meglio Sutra del Loto della Buona Dottrina (Saddharmapuṇḍarīkasūtra), è uno dei testi più importanti nell'enorme corpus della letteratura del Buddhismo Mahāyāna contenuto nel Canone cinese (sezione del Fǎhuābù) e nel Canone tibetano (sezione mDo-sde del Kanjur). È inoltre il fondamento delle scuole buddhiste Tiāntái (in Cina), Tendai e Nichiren (in Giappone). Il Sutra del Loto è anche generalmente abbreviato in Fǎhuā Jīng (法華經) in cinese, Hokkekyō (法華経) in giapponese e Beophwagyeong (법화경) in coreano.

Il Sutra del Loto nelle diverse lingue

In sanscrito Saddharmapuṇḍarīka-sūtra (सद्धर्मपुण्डरीकसूत्र); cinese 妙法蓮華經, Miàofǎ Liánhuā Jīng; giapponese 妙法蓮華經, Myōhō Renge Kyō; coreano 묘법연화경, Myobeop Yeonhwa gyeong, tibetano དམ་ཆོས་པད་མ་དཀར་པོའི་མདོ, Dam-pa'i chos padma-dkar-po'i mdo, vietnamita Diệu pháp liên hoa kinh.

Storia

Secondo alcuni filologi il Sutra del Loto fu probabilmente composto nella sua forma definitiva tra il I e il II d.C. in Kashmir o forse nel Gandhāra o ancora nei pressi di Kāpīsā (odierna Begram in Afghanistan), territori allora inseriti nell'Impero Kushan. Alcune parti del testo sembrerebbero posteriori e potrebbero essere state aggiunte a più riprese fino al VI secolo in Cina. Altre parti, segnatamente i capitoli I, XIX,e XVII, sembrerebbero risultare più antichi, anche precedenti alla nostra era. Comunque sia, secondo alcuni recenti studi, sembrerebbe che il Sutra del Loto abbia subìto almeno quattro rimaneggiamenti, il nucleo originario dell'opera sarebbe quello in versi a cui sono stati aggiunti delle prose, poi ancora altri versi e infine le relative prose.
Per alcune tradizioni Mahāyāna il Sutra del Loto riporterebbe alcuni insegnamenti profondi del Buddha Śākyamuni trasmessi solo ad alcuni discepoli, e tale affermazione è presente nello stesso sutra. Secondo una leggenda, sempre Mahāyāna, i suoi contenuti, di un livello superiore rispetto agli Āgama-Nikāya delle scuole del Buddhismo dei Nikāya, non potevano essere compresi al tempo del Buddha Śākyamuni, perciò esso fu custodito per cinquecento anni nel regno dei Nāga, e quindi reintrodotto nel mondo di sahā (sanscrito, cinese 娑婆 suōpó, giapp. shaba), il nostro mondo, nei primi secoli della nostra era.
Alcuni indianisti rilevano che la composizione del Sutra del Loto muove da testi anteriori come il Mahābherihakaparivartāsūtra (Sutra della messa in moto della collana di gioielli del Gran Tamburo, tradotto da Guṇabhadra in lingua cinese con il titolo di 大法鼓經 Dàfǎgǔjīng, giapp. Daihōkokyō) oppure l'Avinivartanī-cakra-sūtra.

Composizione e Traduzione

Secondo uno dei traduttori in lingua occidentale, Burton Watson, il Sutra del Loto è stato inizialmente scritto in un dialetto del medio indiano, e poi tradotto in sanscrito sotto l'Impero Kushan per dargli maggiore dignità letteraria. Questo sutra è molto noto per essere focalizzato, tra l'altro, sui "mezzi abili" (sanscrito उपाय upāya, cinese 方便 pinyin fāngbiàn, coreano bangpyeon, giapponese hōben, tibetano thabs) principalmente in forma di parabole, e per essere il primo sutra ad utilizzare il termine Mahāyāna, o Grande Veicolo.
In Cina il Sutra del Loto fu tradotto diciassette volte, di cui sei in versione integrale. Di queste traduzioni ne sono giunte a noi solo tre, tutte inserite nella sezione Fǎhuābù del Canone cinese.
  • La prima risale al 290 ad opera di Dharmarakṣa (223-300) con il titolo Zhèng fǎhuā jīng (正法華經, giapp. Shō hokke kyō, T.D. 263, 9.63-133).
  • La seconda, la più diffusa in assoluto sia in Cina che in Giappone, è una traduzione in sette fascicoli di Kumārajīva (344-413) compiuta nel 406 con il titolo Miàofǎ Liánhuā Jīng (妙法蓮華經, giapp. Myōhō Renge Kyō, T.D. 262, 9.1c-62b).
  • La terza, che risulta parziale, fu compiuta nel 601 da Jñānagupta (闍那崛多, Shénàjuéduō, 523-605) e Dharmagupta (達摩笈多, Dámójíduō, ?-619) con il titolo Tiānpǐn miào fǎliánhuā jīng (添品妙法蓮華經, giapp. Tenbon myōhō renge kyō, T.D. 264). Quest'ultima traduzione in cinese si rifà a quella di Kumārajīva ma viene per l'appunto denominata Tiānpǐn (添品, capitolo aggiunto) in quanto presenta il capitolo Devadatta (XII capitolo) che, nella traduzione di Kumārajīva, è accorpato all'XI capitolo.
Secondo alcune antiche tradizioni del Buddhismo cinese e del Buddhismo giapponese, il Sutra del Loto avrebbe un prologo e un epilogo, cioè il Sutra dell'Infinito Significato (無量義經, pinyin: Wúliángyì jīng, giapp.: Muryōgi Kyō, T.D. 276, 9.383b-389b) e il Sutra della Meditazione del Bodhisattva Samantabhadra (觀普賢菩薩行法經, pinyin: Guān pǔxiánpúsà xíngfǎ jīng o anche Pǔxián jīng, giapp. Kan fugenbosatsu gyōhō kyō o anche Fugen Kyō, T.D. 277, 10.389-394). Questi tre sūtra costituiscono, in quell'ambito tradizionale, il 法華三部經 ( Fǎhuā sānbù jīng, g. Hokke sanbu kyō) ovvero le "Le tre scritture sorelle" (o il il "Triplice Sutra del Loto").
Alcune tarde versioni sanscrite del Sutra del Loto sono state rinvenute agli inizi dello scorso secolo a Gilgit (in Pakistan, è una versione del VI secolo), in Nepal (versione del XII secolo) e nel Tibet ma, secondo Francesco Sferra:
«c'è motivo di ritenere che l'originale su cui si basò Kumārajīva fosse in molti punti differente dal testo sanscrito a noi pervenuto. Sembra anzi che la traduzione cinese sia stata condotta su un testimone più antico di quelli a noi pervenuti nell'originale sanscrito come dimostrerebbero numerosi particolari e la differente suddivisione dei capitoli»
(In: Sutra del Loto. Milano, Rizzoli, 2001, pag. 17)
Sempre nell'area dell'Asia centrale è stata rinvenuta una versione più antica, riportata in khotanese, che risulta essere vicina alla versione originale tradotta in lingua cinese da Kumārajīva.
Il Sutra del Loto venne tradotto in tibetano nel IX secolo dal monaco indiano Surendra e dal monaco tibetano Yeshe De con il titolo Dam-pa'i chos padma-dkar-po'i mdo, tale traduzione, che concorda con le tarde versioni sanscrite dei manoscritti rinvenuti in Nepal, è inserita nel Canone tibetano.

Commentari sul Sutra del Loto

Tra i numerosi antichi commentari che autori mahāyāna hanno redatto sul Sutra del Loto, vanno ricordati:
  • Saddharmapuṇḍarīka-sūtra-upadeśa (妙法蓮華經憂波提舍 pinyin: Miào fǎ liánhuā jīng yōupōtíshè, giapp. Myōhō renge kyō ubadaisha, T.D. 1519 e 1520), opera di Vasubandhu (IV secolo d.C.), autore indiano di scuola Cittamātra, tradotta da Bodhiruci (?-527) e Tánlín (曇林,?-?).
  • Miàofǎliánhuājīng shū (妙法蓮華經疏, Commentario del Sutra del Loto) opera di Dàoshēng (道生, 355-434) discepolo cinese di Kumārajīva.
  • Miàofǎliánhuājīng wénjù (妙法蓮華經文句, anche Fǎhuā wénjù, Parole del Sutra del Loto, giapp. Myōhōrengekyō mongu, T.D. 1718) opera di Zhìyǐ (智顗, 538-597), autore cinese di scuola Tiāntái.
  • Miàofǎ liánhuā jīngxuán yì (妙法蓮華經玄義, anche Fǎhuā xuányì, Il profondo significato del Sutra del Loto della Legge meravigliosa, giapp. Myōhō renge kyōgen gi, T.D. 1716, 33.618-815) di Zhìyǐ.
  • Fǎhuā xuányì shìqiān (法華玄義釋籤, Commentario sul Fǎhuā xuányì di Zhìyǐ, giapp. Hokkegengi shakusen, T.D. 1717) opera di Zhànrán (湛然, 711-782), autore cinese di scuola Tiāntái.
  • Fǎhuā yóuyì (法華遊意, Riflessioni sul Sutra del Loto, giapp. Hōke yui) opera di Jízàng (吉藏, 549-623), autore cinese di scuola Sānlùn.

Dottrina

Esporre la dottrina veicolata dal Sutra del Loto è compito arduo. Fin dalla sua prima apparizione il Sutra del Loto ha svolto più funzioni. Nel corso dei secoli ha veicolato delle credenze importanti per le comunità buddhiste dell'Asia centrale e, soprattutto, dell'Estremo Oriente.
Nel Mahāprājñāpāramitôpadeśa (anche Mahāprajñāpāramitāśāstra), testo attribuito a Nāgārjuna (II-III secolo d.C.) e tradotto dal sanscrito al cinese da Kumārajīva nel V secolo d.C., si sostiene che tale sutra è superiore ai Prajñāpāramitā sūtra in quanto proclama che anche i seguaci dello Hīnayāna possono raggiungere l'anuttarā-samyak-saṃbodhi (la suprema bodhi). Alle medesime conclusioni giungono anche il Saddharmapuṇḍarīka-sūtra-upadeśa di Vasubandhu (IV secolo d.C.) e il Mahāyānāvatāra di Sāramati (IV secolo).
In Cina, è il sutra fondamentale della scuola Tiāntái (天台宗), dove lo stesso fondatore, Zhìyǐ (智顗, 538-597), ha prodotto al riguardo di questo sutra più opere esegetiche. In Giappone, riveste questo ruolo nelle scuole del Buddhismo Tendai e del Buddhismo Nichiren. Lo stesso Dōgen Zenji (道元禅師, 1200-1253), fondatore giapponese della scuola Zen Sōtō (曹洞宗 Sōtō-shū) ebbe a dichiarare nella sua opera fondamentale, lo Shōbōgenzō:
«Il Sutra del Loto è il re dei sutra: riconoscetelo come il vostro grande maestro. Comparato a questo sutra tutti gli altri si pongono soltanto come suoi contenuti, perché esso soltanto esprime la Verità ultima. Gli altri presentano soltanto insegnamenti provvisori, non le vere intenzioni del Buddha.»
(Dōgen, Shōbōgenzō)
Lo stesso monaco Zen italiano e fondatore del monastero Fuden-ji, Fausto Taiten Guareschi affermò, alcuni anni fa, che:
«Lo Shōbōgenzō sembra un commento al Sutra del Loto»
(Fausto Taiten Guareschi)
Gli studiosi contemporanei si sono prodigati in molteplici analisi testuali per spiegare il grande successo rivestito in Oriente da questo sutra. Gene Reeves rileva come, a differenza dei trattati dottrinali, le 'storie' rappresentate nel Sutra del Loto
«incarnano gli insegnamenti e, per così dire, danno umanità ad essi in un modo in cui i principi astratti non possono fare. Se si intende comprendere questo Sutra completamente, occorre studiare attentamente le sue storie. Così diverrà possibile vedere che l'uso esteso delle storie è una sorta di affermazione del concreto. Le storie – sembra voler dire il Sutra – sono importanti incarnazioni del Dharma tanto quanto ogni affermazione astratta. Esse raccontano di azioni che danno corpo al Dharma. È in tali azioni, che in questo Sutra sono considerate pratiche bodhisattviche, che il Dharma è più concretamente incarnato e pertanto più prezioso e più reale»
(Gene Reeves Il Sutra del Loto come radicale affermazione del mondo)
E, ancora più avanti, sempre Reeves:
«L'intera ambientazione del Sutra del Loto è sovrannaturale; in esso, dal primo capitolo all'ultimo, non c'è nulla che pretenda di essere storico. Ma, mentre in altri contesti le storie miracolose possono essere state usate per affermare in questo mondo qualche potere extramondano, la loro funzione nel Sutra del Loto è piuttosto diversa. Ciò è in parte dovuto, io ritengo, al fatto che l'intera ambientazione del Sutra è sovrannaturale. Nella Bibbia, per esempio, i miracoli hanno luogo nella Storia, essi compaiono all'interno di un resoconto storico. Ma nel Sutra del Loto, sebbene ci siano brevi riferimenti agli eventi storici, il lettore comprende fin dall'inizio che i miracoli hanno luogo all'interno di un racconto. E tali racconti sono degli espedienti, degli abili mezzi, per impartire insegnamenti. Non hanno la pretesa di essere dei resoconti storici»
Quindi il Sutra del Loto sarebbe un compendio di insegnamenti espresso per mezzo di storie fantastiche tese non solo a comunicare una serie di dottrine, quanto piuttosto a 'rivelare' al lettore una diversa interpretazione del mondo. È evidente che nel Sutra del Loto ci siano dei continui richiami polemici contro le scuole dello Śrāvakayāna (o Hinayāna) ma è altrettanto evidente che, a differenza di altri sutra Mahāyāna successivi, secondo questo sutra anche gli śrāvaka (聲聞 cin. shēngwèn, giapp. shōmon) e i pratyekabuddha (緣覺 cin. yuánjué, giapp. engaku), ovvero i seguaci del Buddhismo dei Nikāya, raggiungeranno il pieno "risveglio" (anuttarā-samyak-saṃbodhi, cinese 無上菩提 wúshàng pútí, giapponese mujō bodai), la piena "buddhità", in quanto stanno già operando come dei Buddha. Ciò avviene per una concezione radicalmente olistica (olismo) e omnicentrica della realtà richiamata costantemente in tutto il Sutra.
Tradizionalmente sono due i capitoli considerati centrali in questo sutra: il capitolo II, l'Upāyakauśalya, e il capitolo XVI (XV nella versione sanscrita) il Tathāgatasupramana, che peraltro risultano tra le parti più antiche dello stesso sutra.
Nel capitolo II, il Buddha Śākyamuni dichiara a Śāriputra che la profonda dottrina dei Buddha può essere compresa solo dai Buddha. Che per insegnare tale dottrina i Buddha si avvalgono quindi di mezzi abili (upāya) e che tali mezzi si esplicitano in più vie di salvezza (che comprendono quelle degli śrāvaka, dei pratyekabuddha e dei bodhisattva), ma che la via rimane sempre una ed è il Buddhaekayāna (il veicolo unico del Buddha). Dietro l'insistenza di Śāriputra il Buddha espone il Dharma descrivendo semplicemente la realtà per come essa è (attraverso le sue dieci 'talità', sans. tathātā). La via da percorrere, la via dei Buddha, per il II capitolo del Sutra del Loto non offre quindi verità segrete ma la realtà semplicemente come essa è e che va accettata e compresa durante la propria vita, senza ricorrere ad opinioni (sanscrito dṛṣṭi,) peraltro già criticate dal Buddha Śākyamuni negli Āgama-Nikāya. Secondo le scuole sino-giapponesi che fanno riferimento a questo Sutra, ciò significa imparare ad incrociare la propria esistenza (Realtà convenzionale di essere sofferente) con la Realtà assoluta (che di per sé contiene ogni cosa, compresa la sofferenza, ed è per questo inesprimibile). Solo per mezzo di questo incontro, che si realizza con le pratiche meditative (lo zhǐguān/shikan, 止觀, delle scuole Tiāntái e Tendai) o la recitazione del daimoku (il Nam myōhō renge kyō, 南無妙法蓮華経, per il Buddhismo Nichiren), si può raggiungere la "Verità ultima" la quale, essendo "ultima", deve necessariamente comprendere sia la "Verità assoluta" che quella "convenzionale" (individuale e mondana).
Nel capitolo XVI il Buddha Śākyamuni dichiara che egli non è soggetto a morte ma, come Tathāgata (manifestazione del Buddha), è sempre esistito e sempre esisterà. Questo insegnamento sul Buddha eterno è un richiamo all'olismo radicale proprio del Buddhismo Mahāyāna, dove la soggettività (propria della "Verità convenzionale") acquisisce un diverso significato quando incontra l'insegnamento della vacuità (śunyātā, proprio della "Verità assoluta"). Tutti gli esseri hanno la natura di Buddha (buddha-dhātu o buddhatā o tathāgatagarbha) e operano per "realizzare" questa natura, e tutti la "realizzeranno" (capitolo XX del Sutra del Loto). Il Buddha è quindi sempre esistito e sempre esisterà.
In conclusione, secondo Gene Reeves:
«Ciò che si trova nel Sutra del Loto, dunque, è una sorta di modello cosmologico/soteriologico dove le storie sovrannaturali dànno rilievo al Sutra del Loto stesso, a Buddha Śākyamuni, e al mondo saha, al fine di incoraggiare la pratica del bodhisattva nel mondo, che costituisce la Via del Buddha per la salvezza. Portando il cosmo e ogni sorta di elementi sovrannaturali nella storia si dà rilievo al rango del Sutra. La predica di cui si narra nel Sutra è frequentata non soltanto dagli esseri umani ma da ogni sorta di esseri provenienti da infiniti mondi. Questa elevazione del rango del Sutra, di contro, dà rilievo a Buddha Śākyamuni, in quanto è colui che predica il Sutra. In tutto il testo, i buddha e i bodhisattva vengono in questo mondo per chiedere a Buddha Śākyamuni di predicare il Sutra del Loto, che qui equivale al Dharma. E, poiché Buddha Śākyamuni è il buddha del mondo saha, anche il rango di quest'ultimo si innalza. È nel mondo saha che i buddha e i bodhisattva degli altri mondi e degli altri tempi vengono a lodare Śākyamuni. E ciò, naturalmente, eleva il rango e l'importanza di coloro che vivono nel mondo saha – specialmente coloro che seguono gli insegnamenti di Buddha Śākyamuni, che si assumono la responsabilità della loro vita e diventano praticanti della Via del bodhisattva, entrando così nella Via del Buddha che porta alla salvezza. Viene detto, in effetti, che la vita di noi che viviamo nel mondo saha ha un significato cosmico, per incoraggiarci così a perseguire la nostra salvezza, la nostra buddhità, praticando la Via del bodhisattva e aiutando gli altri.
Pertanto, per il Sutra del Loto, l'intera struttura cosmica, più grande di quanto possiamo immaginare, è legata a noi e, in un certo senso, dipende dalle nostre scelte quotidiane, come noi dipendiamo da essa. In questo, come in altri modi, il Sutra del Loto afferma radicalmente il mondo. Ma, ben lungi dal vedere questo mondo come già perfetto in qualche mistico modo o dall'accettarlo così come è, esso considera il mondo, con tutta la sua sofferenza, come reale e quindi come un luogo di pratica bodhisattvica.»

Struttura del Sutra

Il Sutra del Loto comprende ventisette capitoli nelle versioni sanscrite e tibetane, che diventano ventotto nella versione cinese di Kumārajīva riveduta da Jñānagupta e Dharmagupta.



La suddivisione del Sutra del Loto nella tradizione del Canone buddhista cinese

Nella tradizione del Buddhismo che fa riferimento al Canone buddhista cinese, ovvero nelle scuole buddhiste cinesi, coreane, giapponesi e vietnamite, questo sutra viene diviso in due parti:
  • la prima, denominata in cinese 迹門 jī mén, in coreano 적문 jeok mun o chŏk mun, in giapponese shaku mon, in vietnamita tích môn, riguarda i primi 14 capitoli del sutra dove il Buddha Śākyamuni si esprime nella sua forma apparente, vincolato ai limiti spaziali e temporali;
  • la seconda, denominata in cinese 本門 běnmén, in coreano 본문 bommun o pommun, in giapponese honmon, in vietnamita bổn môn, riguarda i secondi 14 capitoli del sutra, dove il Buddha Śākyamuni si rivela invece come espressione del Buddha eterno (o Buddha originario), ovvero esprime la sua natura originaria al di là del tempo e dello spazio.



  • 迹門
    1. 序品
    2. 方便品
    3. 譬喩品
    4. 信解品
    5. 薬草喩品
    6. 授記品
    7. 化城喩品
    8. 五百弟子受記品
    9. 授学無学人記品
    10. 法師品
    11. 見宝塔品
    12. 提婆達多品
    13. 勧持品
    14. 安楽行品
  • 本門
    1. 従地湧出品
    2. 如来寿量品
    3. 分別功徳品
    4. 随喜功徳品
    5. 法師功徳品
    6. 常不軽菩薩品
    7. 如来神力品
    8. 嘱累品
    9. 薬王菩薩本事品
    10. 妙音菩薩品
    11. 観世音菩薩普門品
    12. 陀羅尼品
    13. 妙荘厳王本事品
    14. 普賢菩薩勧発品

A queste due parti, il monaco buddhista giapponese del XIII secolo, fondatore dell'omonima scuola, Nichiren, aggiunse una terza composta a partire dal X capitolo fino al XXII capitolo compresi denominandola daisan hōmon (terza sfera dell'insegnamento di Śākyamuni) dove, a detta di Nichiren, si conservano gli insegnamenti per resistere alle prove della vita praticando la vera Dottrina.

L'ordine dei ventisette capitoli nella versione in lingua sanscrita

  1. nidānaparivartaḥ
  2. upāyakauśalyaparivartaḥ
  3. aupamyaparivartaḥ
  4. adhimuktiparivartaḥ
  5. oṣadhīparivartaḥ
  6. vyākaraṇaparivartaḥ
  7. pūrvayogaparivartaḥ
  8. pañcabhikṣuśatavyākaraṇaparivartaḥ
  9. ānandādivyākaraṇaparivartaḥ
  10. dharmabhāṇakaparivartaḥ
  11. stūpasaṁdarśanaparivartaḥ
  12. utsāhaparivartaḥ
  13. sukhavihāraparivartaḥ
  14. bodhisattvapṛthivīvirasamudgamaparivartaḥ
  15. tathāgatāyuṣpramāṇaparivartaḥ
  16. puṇyaparyāyaparivartaḥ
  17. anumodanāpuṇyanirdeśaparivartaḥ
  18. dharmabhāṇakānuśaṁsāparivartaḥ
  19. sadāparibhūtaparivartaḥ
  20. tathāgataddharyabhisaṁskāraparivartaḥ
  21. dhāraṇīparivartaḥ
  22. bhaiṣajyarājapūrvayogaparivartaḥ
  23. gadgadasvaraparivartaḥ
  24. samantamukhaparivartaḥ
  25. śubhavyūharājapūrvayogaparivartaḥ
  26. samantabhadrotsāhanaparivartaḥ
  27. anuparīndanāparivartaḥ

mercoledì 7 febbraio 2018

Clan Date




Il clan Date (伊達氏 Date-shi) fu un lignaggio di daimyō che controllò il nord del Giappone nel tardo XVI secolo e nel periodo Edo. Il membro più famoso di questo clan fu Date Masamune, il quale pose le basi del potere della famiglia vendicando suo padre e supportando Tokugawa Ieyasu.

Storia

Il clan dei Date fu fondato agli inizi del periodo Kamakura (1185-1333) da Isa Tomomune il quale originariamente veniva dal distretto di Isa, nella provincia di Hitachi (adesso prefettura di Ibaraki), ed era un discendente di Fujiwara no Uona (721-783) di 16ª generazione. La famiglia prese il nome dal distretto di Date (adesso prefettura di Fukushima) della provincia di Mutsu, che fu assegnata nel 1189 a Isa Tomomune da Minamoto no Yoritomo, il primo shōgun del periodo Kamakura, per la sua assistenza durante la guerra Genpei e nella lotta per il potere fra Minamoto no Yoritomo e il fratello, Minamoto no Yoshitsune.
Durante le guerre Nanboku-cho nel 1330, il clan Date ha sostenuto la Corte imperiale meridionale dell'imperatore Go-Daigo attraverso Kitabatake Akiie, che era stato nominato chinjufu shōgun o comandante in capo della difesa del Nord dall'imperatore. Essendo i Date signori della guerra, acquisirono e persero molto potere durante il periodo Sengoku, cercando di unificare il paese, insieme ad altre potenti famiglie, ognuna di loro ha fatto tutto il possibile per mantenere l'indipendenza e il dominio delle proprie terre (nel caso dei Date, l'estremo nord). Tra il 1542 ed il 1548 il clan venne indebolito notevolmente dal conflitto Tenbun, una diatriba interna tra Date Tanemune e suo figlio Harumune. Iniziò a risollevarsi quando il figlio di Harumune, Date Terumune, futuro padre di Date Masamune, divenne capo del clan.
Pur non conquistando la fama o il potere di Oda Nobunaga, Uesugi Kenshin, o Toyotomi Hideyoshi, hanno resistito alle invasioni di questi signori della guerra nel nord. Date Masamune (1566-1636), in particolare, ha contribuito a questo sforzo, consolidando le famiglie del nord attraverso alleanze contro i signori della guerra più importanti.
Nel 1589, Masamune conquistò il dominio di Aizu del clan Ashina; si insediò nel castello di Kurokawa nella provincia di Wakamatsu. L'anno successivo, Hideyoshi trionfò sul clan Hōjō di Odawara e costrinse Masamune ad accontentarsi del feudo di Yonezawa (300.000 koku)[1]. Masamune in seguito ottenne un certo grado di indipendenza sostenendo Tokugawa Ieyasu.
Ieyasu garantì ai Date gran parte del nord, anche se non godevano ancora della sua piena fiducia. Malgrado avessero mandato rinforzi per i Tokugawa durante la battaglia di Sekigahara, i Date continuavano ad essere visti come una minaccia. Nel periodo Edo, i Date furono inquadrati come uno dei tozama o clan estraneo, in contrasto con i fudai, cioè clan i cui daimyō erano imparentati o alleati del clan Tokugawa.
Nel 1600, Ieyasu ingaggiò i Date per combattere contro Uesugi Kagekatsu e, con l'assistenza di Mogami Yoshiteru, le forze di Masamune sconfissero Naoe Kanetsugu. In riconoscenza del successo ottenuto in battaglia, a Masamune furono garantiti i feudi in 20 distretti, che fino a quel momento erano appartenuti al clan Uesugi. I Date si stabilirono a Sendai (che produceva 620.000 koku). Dal 1658, Masamune cambiò il nome del castello Uesugi a Iwatezawa in castello di Sendai. Il daimyō alcune volte veniva identificato con il suffisso “-ko”(domestico), preceduto dal luogo o dal castello in cui il signore risiedeva (per esempio Masamune era anche conosciuto come Sendai-ko).
La disputa per la successione esplose: c'erano molti discendenti diretti di Masamune, e molti parenti e vassalli dei Date che risiedevano in territori vicini che producevano al massimo 10.000 koku, e molti che avevano una certa influenza.
Nel 1660, Date Tsunamune fu arrestato mentre si trovava ad Edo per ubriachezza e depravazione. In virtù della loro posizione, i signori feudali venivano di solito rilasciati, ma Tsunamune fu condannato a scavare i fossati che dovevano circondare il castello di Edo. Nello stesso anno gli fu ordinato di supervisionare e pagare per migliorare il settore nord-est del fossato che correva da Megane-bashi al cancello di Ushigome.
Oggi si crede che le iniziali accuse di vita licenziosa siano state pesantemente incoraggiate da alcuni vassalli e parenti del nord. Questi vassalli e parenti fecero appello al Consiglio degli Anziani di Edo affinché a Tsunamune non venisse riconosciuto il diritto di comandare e che suo figlio Tsunumura, pronipote di Masamune, dovesse diventare il daimyō dell'han (feudo) dei Date. Così, Tsunamura diventò daimyo, sotto la tutela degli zii Date Munekatsu e Muneyoshi.
Seguirono 10 anni di violenza e conflitto nel nord, finché nel 1671 il potente Aki Muneshige, legato ai Date, si lamentò presso lo shogunato di una cattiva gestione del feudo da parte di Tsunamura e dei suoi zii. L'episodio che ne seguì fu molto complesso e drammatico, tanto da essere ricordato ancora oggi con il nome di Date sōdō (disordini dei Date) e da aver ispirato anche un'opera teatrale.
Aki fu convocato a Edo ed interrogato a lungo, come molti servi dei Date. Uno di questi, Harada Kai Munesuke, era un sostenitore di Tsunumura e dei suoi zii e si dice che avesse destato una pessima impressione a Edo. Mentre era a Edo, Aki s'imbatté in Harada e iniziò a riempirlo di insulti. Furono sguainate le katane, Aki fu ucciso e Harada venne a sua volta ucciso dalle sue guardie. Il verdetto ufficiale fu che Harada estrasse per primo la spada, il suo clan fu sciolto e Tsunamura fu considerato come unico daimyō del feudo dei Date, mentre i suoi zii furono puniti.
Benché i Date siano soprattutto conosciuti per il loro potere nel nord, Date Hidemune, il secondo figlio di Masamune, ottenne un feudo di 100.000 koku nell'isola di Shikoku.

Genealogia del clan Date

Il clan tozama dei Date ha origine nel XII secolo nella provincia Shimōsa. Essi affermano di discendere dai Fujiwara.
I rami del clan Date sono i seguenti:
  • Il ramo principale dei Date erano i daimyō di Date, nella provincia di Mutsu del XII secolo, e poi, nel 1601, trasferì la sede del clan a Sendai. Dai primi anni del XVII secolo fino al 1868, i Date hanno continuato a dominare Sendai (620.000 koku) nella provincia di Mutsu. Nel periodo Meiji, il capo del ramo principale dei Date fu nobilitato a “conte ereditario”.
  • Questo ramo di alto livello dei Date ha prodotto una propaggine nominale o "ramo laterale". Date Tadamune (1599-1658), figlio di Masamune, ha prodotto più di un figlio. Il secondo figlio di Tadamune, Muneyoshi, riprese il nome di Tamura, un antico nome di famiglia Mutsu che era stata abbandonato da Masamune. Date Muneyoshi o Tamura Muneyoshi (1637-1678) stabilì il suo dominio a Ichinoseki (30.000 koku) nella provincia di Mutsu (oggi Prefettura di Iwate), dove risiedevano i suoi discendenti fino al 1868. Il capo di questa linea è stata nobilitato come ereditario Visconte nel periodo Meiji.
  • Un ramo cadetto dei Date è stato creato nel 1614. Questa linea di successione del clan ha stabilito il proprio potere nel dominio di Uwajima (100.000 koku) nella provincia di Iyo. Muneki Date (1817-1882) è stato un importante membro di questo ramo cadetto. Ha giocato un ruolo importante nei primi giorni della Restaurazione Meiji e fu tra i primi a sostenere con insistenza la soppressione dei poteri dello shogunato. Come capo di questa linea di clan, Muneki ed i suoi eredi sono stati nobilitati come “marchesi ereditari” nel periodo Meiji.
  • Un ulteriore ramo cadetto dei Date è stato creato nel 1657. In quell'anno, una linea separata del clan si insediò presso il Castello di Yoshida (30.000 koku) nella provincia di Iyo. Il capo di questa linea del clan è stato nobilitato come “visconte ereditario” nel periodo Meiji.

Tempio del clan a Edo

Nel periodo Edo, Tōzen-ji era considerato il tempio di famiglia di vari clan, incluso il clan dei Date di Sendai. Altri clan che consideravano Tōzen-ji come tempio di famiglia erano: il clan Ikeda della provincia di Omi, il clan Inaba, del dominio di Usuki, nella provincia di Bungo, il clan Suwa di Shinshu, i Tamura di Ichinoseki e il clan Mori di Saeki, di Bungo.

Membri noti del clan

I membri del clan sono elencati in base alla data di nascita:
XIV secolo
  • Date Muneto (1324–1385)
  • Date Masamune (14th century) (1353–1405)
  • Date Ujimune (1371–1412)
  • Date Mochimune (1393–1469)
XV secolo
  • Date Narimune (1435-1487?)
  • Date Hisamune (1453–1514)
  • Date Tanemune (1488–1565)
XVI secolo
  • Date Harumune (1519–1577)
  • Date Terumune (1544-1584 or 1585) - padre di Masamune, assassinato da Hatakeyama Yoshitsugu
  • Date Masamune (1567–1636) - figlio di Date Terumune, grande esponente della famiglia Date, stabilì il potere della famiglia a Sendai.
  • Date Shigezane (1568-1646) - figlio di Date Sanemoto, fu uno dei più abili servitori del cugino Date Masamune.
  • Date Masamichi (1578–1590) - Il suo nome è discutibile visto che non ha mai effettuato la cerimonia del genpuku.
  • Date Hidemune (1591–1658) - figlio di Date Masamune, daimyo del dominio di Iyo, a Shikoku.[6]
  • Date Tadamune (1599–1658) - figlio di Date Masamune
  • Date Shuyu (15??-1642)
  • Date Munesane (?? - ??) - figlio di Date Masamune
  • Date Munekatsu - figlio di Date Masamune - guardiano di Tsunamura
XVII secolo
  • Date Munetomo - figlio di Date Munekatsu
  • Date Munetsuna (1603–1618)
  • Date Munenobu (1603–1627)
  • Date Munehiro (1612–1644)
  • Date Munetoki (1615–1653)
  • Date Torachiyomaru (1624–1630)
  • Date Muneyoshi (1625–1678) - figlio di Date Tadamune - guardiano di Tsunamura.
  • Date Mitsumune (1627–1645) - figlio di Date Tadamune.
  • Date Munetoshi (1634–1708)
  • Date Munezumi (1636–1708)
  • Date Sourin (1640–1670)
  • Date Tsunamune (1640–1711) - figlio di Date Tadamune - daimyo per un po' di tempo, rimosso dalla successione in favore di Tsunamura, suo figlio.
  • Date Munefusa (1646–1686)
  • Date Tsunamura (1659–1719) - figlio di Date Tsunamune - daimyo la cui successione condusse ai disordini dei Date.
  • Date Munenori (1673–1694)
  • Date Yoshimura (1680–1751)
  • Date Muratoyo (1682–1737)
  • Date Muraoki (1683–1767)
  • Date Muranari (1686–1726)
  • Date Murasen (1698–1744)
XVIII secolo
  • Date Murasumi (1717–1735)
  • Date Muranobu (1720–1765)
  • Date Murakata (1745–1790)
  • Date Murayoshi (1778–1820)
XIX secolo e dopo la restaurazione Meiji
  • Date Yoshitaka (1812–1862)
  • Date Muneki (1817–1882)
  • Date Munenari (1818–1892)
  • Date Yoshikuni (1825–1874)
  • Date Kunninei (1830–1874)
  • Date Kuninao (1834–1891)
  • Date Kuninari (1841–1904)
  • Date Munemoto (1866–1917)
  • Date Takeshiro (1868–1908)
  • Date Kunimune (1870–1923)
XX secolo
  • Date Okimune (1906–1947)
  • Date Munehide (1908–1964)
  • Date Munemi (1918–1982)
  • Date Sadamune (1937 – 1981)
  • Date Yasumune (1959-vivente)
Rami Derivati
I seguenti sono nati nel clan Date ma assunsero il cognome della famiglia da cui furono adottati:
  • Tamura Muneyoshi (1637-1678)
  • Tamura Takeaki (1656-1708) - primo daimyo del feudi di Tamura, a Ichinoseki
  • Tamura Akihiro (1659-1696)
  • Tamura Akinao (1662-1706)
  • Tamura Akinori (1664-1733)
  • Tamura Haruchiyo (1686-1693)
  • Tamura Nobuaki (1703-1725)
  • Tamura Muranobu (1723-1777)
  • Shiraishi Gorokichi (1638-1644)
  • Uesugi Yoshifusa (1720-1742)
  • Uesugi Yoshitoki (1742-1784)
  • Uesugi Yoshinaga (?-?)
  • Uesugi Yositatsu (?-?)
  • Uesugi Yoshimasa (?-?)
  • Usesugi Yoshitoyo (?-1861)

Servitori e Vassalli

Questi samurai erano vassalli del clan Date. Anch'essi sono elencati per data di nascita:
Oniniwa
  • Oniniwa Motozane (14??-15??)
  • Oniniwa Yoshinao (1513-1585)
  • Masuda Kita (1539-16??)
  • Moniwa Tsunamoto (1549-1640) - Toyotomi Hideyoshi cambiò il suo cognome in "Moniwa" come nuovo nome per il clan Oniniwa.
  • Moniwa Yoshimoto (1575-1663)
  • Harada Tsutame (1598?-1671) - Moglie di Yoshimoto
Katakura
  • Katakura Kagetsuna
Rusu
  • Rusu Masagake
Watari
Shiroishi
  • Shiroishi Munezane