Volendo indicare un pugile che possa
considerarsi il miglior rappresentante della “vecchia scuola”,
quella degli anni che precedettero l’applicazione delle Queensberry
Rules, fatta di noncuranza per il dolore, proprio o altrui, feroce
determinazione e carattere indomito, il primo nome ad affiorare
sarebbe, probabilmente, quello di
Tom Sharkey, il
Marinaio.
Un metro e settantatré misurato,
giurava un giornalista dell’epoca, in punta di piedi, un collo
degno di un toro
da combattimento,
orecchie a cavolfiore
derivanti dall’esasperata
tendenza al
clinch
e spalle larghissime, Tom era nato
a
Dundalk, in
Irlanda, il 16 novembre
del 1873.
A soli dodici anni Tom vide bene
d’andarsene da casa,
senza troppi rimpianti
da parte sua
o dei suoi familiari.
Tozzo, arcigno e orgoglioso abbracciò,
da bambino cresciuto in fretta,
la vita di bordo sui bastimenti transoceanici che partivano da
Limerick.
Certamente non con qualifiche da
ufficiale.
Attaccato e preso in giro dai
marinai più adulti, Tom non fece passare una sola settimana, dei
suoi lunghi anni di mare, senza affrontare
duri combattimenti nei
ponti
della ciurma.
In sette anni
fece naufragio ben quattro
volte; in una di queste occasioni
andò alla deriva, con
altri marinai, per
tre giorni nell’oceano
Pacifico, senza cibo né acqua.
A diciannove anni
si arruolò nella Marina degli
Stati Uniti, finendo di stanza nell’arcipelago delle Hawaii,
dove
diede inizio alla carriera
professionistica con diciassette vittorie per knockout consecutive,
anche se
Boxrec
gli addebita una sconfitta durante
tale periodo.
In un articolo di quegli anni, il
giornalista Donald Barr Chidsey, l’autore della biografia
sul grande
John L. Sullivan,
descriveva il nuovo fenomeno pugilistico in tal maniera: “Tom
Sharkey non sa boxare: appoggia semplicemente la testa al
petto dell’avversario lasciando andare i suoi terrificanti ganci”
Nel
1896
gli fu data la grande possibilità
di
affrontare James Corbett,
al secolo
Jim il Gentiluomo,
in un breve incontro dimostrativo di quattro riprese che
Sharkey dominò, avendo la
pessima idea di fine match, però, di
lanciare l’arbitro contro
l’avversario. Fu decretato il
pareggio. Cinque poliziotti
dovettero intervenire per placare
l’ira di Tom il Marinaio
il quale, una volta in più,
dimostrò una natura poco riflessiva.
Non vi era in palio alcun titolo, ad
ogni buon conto.
Un altro incontro destinato a passare
alla storia fu
quello che lo vide
fronteggiare Bob Fitzsimmons, sei mesi più tardi: il
Jeffersonville Evening
Journal
descrisse l’evento come
un autentico furto, poiché
Sharkey fu messo al tappetto da un apparentemente pulito colpo alla
mascella, mentre
l’arbitro vide una
ginocchiata
per la quale
squalificò Fitzsimmons,
alzando il braccio di Tom.
L’arbitro in questione era
Wyatt Earp, uno dei più
famosi cacciatori di bisonti e uomini d’armi della nuova
frontiera americana; forse proprio per la rinomata precisione al
tiro dell’avventuriero le proteste non furono eccessive. A
centoventi anni di distanza e con il solo citato articolo a
corroborare le varie tesi, però, la mia è una mera
interpretazione personale.
Due anni più tardi, il brevilineo
Tom fu ritenuto meritevole di
misurarsi in un match valevole per il mondiale dei pesi massimi:
il titolare della cintura era l’imbattibile
James Jeffries
che rendeva all’avversario
decine di centimetri e chili. Tom Sharkey, però, impressionò la
stampa durante la cerimonia del peso,
per la misura straordinaria del
proprio torace
che lambiva i centoventi
centimetri.
Al Mechanic’s Pavilion
di San Francisco l’emozione non
tardò a trasformare la bolgia dei presenti in un caos senza tregua:
diverse file di seggiolini collassarono, vi furono feriti e il panico
si diffuse tra gli spettatori.
La polizia impiegò oltre un’ora a
sedare i facinorosi, tranquillizzare i timorosi e ristabilire
l’ordine.
La campana del primo round introdusse
un match passato alla storia della boxe per essere stato il primo,
illuminato da luce artificiale,
ad essere
impresso su macchina
da presa.
All’undicesimo assalto Tom saggiò il
tappeto, indirizzando l’arbitro verso un verdetto favorevole a
Jeffries, ma solo al termine di venticinque, combattute riprese.
Naturalmente, Tom il marinaio non
accettò il verdetto e dovette essere allontanato con la forza.
La forza di molte persone decise a
tutto.
Il
Milwaukee Journal,
in un articolo dell’epoca, scrisse che nove presenti su dieci
avrebbero dato la vittoria a Jeffries, legittimando ulteriormente il
trionfo del campione.
Inoltre, lo stesso articolo, predisse
un breve futuro alla boxe di Sharkey, fatta di violenza, scorrettezze
e combinazioni elementari. Una tesi rivelatasi fondata.
Nel 1901, dopo una squalifica subita
per un colpo di gomito, per comminare la quale l’arbitro fu
costretto a puntare la pistola in faccia all’iracondo Tom, i giorni
del Marinaio sul ring andarono ad esaurirsi.
Forte giocatore, terminò i risparmi
guadagnati sul ring alle corse dei cavalli.
Non portando loro alcun rancore,
divenne stalliere e, più avanti con l’età, fece il magazziniere.
Il 17 aprile del 1953, Tom Sharkey passò a miglior vita.
Non trova spazio nelle classifiche dei
puristi del pugilato il nome di Tom “The Sailor” Sharkey;
ed è giusto che sia così, vista la pochezza stilistica della sua
boxe famelica.
Abituato a lottare fin da bambino per
la propria vita, il suo stile fu il riflesso sul ring di un uomo che
non conosceva resa.
Tom Sharkey era piccolo di statura ma
non servono approfondite analisi per capire che nessun gigante si
debba mai essere azzardato a guardarlo dall’alto al basso.
Le semplici parole da lui rilasciate al
crepuscolo della propria vita sono la testimonianza di un’esistenza
da combattente:
“Posso solo dire che
qualunque gigante, campione dei pesi massimi, avesse l’idea di
affrontare me, il piccolo Tom,
sapeva che sarebbe entrato
in un vero combattimento e ci sarebbe rimasto per tutta la durata del
match!”