Con il termine sanscrito composto
Mahāyāna (devanāgarī: महायान,
cinese: 大乘,
dàchéng, giapponese: daijō, tibetano: ཐེག་པ་ཆེན་པོ།,
theg-pa chen-po, vietnamita: Đại Thừa; coreano: 대승,
taesŭng o dae-seung; Grande veicolo) si intende
un insieme di insegnamenti e di scuole buddhiste che rifacendosi, tra
gli altri, ai Prajñāpāramitā sūtra e al Sutra del
Loto, proclamano la superiorità spirituale della via del bodhisattva
rispetto a quella dell'arhat, quest'ultima proclamata nel
Buddhismo dei Nikāya.
Il termine mahāyāna si compone
dei termini sanscriti maha con il significato di "grande"
e yāna con il significato di "veicolo", quindi
"Grande veicolo" da intendersi come ciò che "conduce"
gli esseri senzienti verso la liberazione spirituale.
Attualmente tutte le scuole buddhiste
esistenti sono di derivazione Mahāyāna, fatta salva la scuola
Theravāda, la quale non ha mai accolto la canonicità degli
insegnamenti riportati nei sūtra mahāyāna.
Origine del termine
Il termine "Mahāyāna"
(Grande Veicolo) è comunque piuttosto tardo, probabilmente
successivo alla stesura dei Prajñāpāramitā sūtra e alle
prime stesure del Sutra del Loto. Forse persino successivo
alla nascita della scuola Madhyamaka fondata da Nāgārjuna nel II
secolo d.C. Le sue origini non sono certe.
La prima menzione di questo termine
sembrerebbe apparire in una edizione del Sutra del Loto, ma il
filologo Seishi Karashima ritiene che il termine mahāyāna lì
utilizzato sia una errata resa in sanscrito del termine gāndhārī
mahājāna a sua volta resa del sanscrito mahājñāna
("grande conoscenza"). Quando il termine in lingua gāndhārī
fu reso in sanscrito, per errore e forse perché condizionati dalla
dottrina degli yāna (veicoli) riportata nella "parabola
della casa in fiamme" inserita nel III capitolo del Sutra del
Loto, fu reso come mahāyāna.
Tuttavia l'origine di questo termine
resta controversa ed esso non compare nelle iscrizioni indiane prima
del V-VI secolo d.C..
È probabile invece che gruppi di
monaci buddhisti che avevano accolto la canonicità degli
insegnamenti dei Prajñāpāramitā sūtra e che convivevano
nei monasteri insieme ad altri monaci che ne rifiutavano invece la
canonicità, abbiano incominciato, dopo il II secolo d.C., a
denominarsi come seguaci del Mahāyāna (Grande Veicolo) indicando
gli altri come seguaci dello Śrāvakayāna (Veicolo degli
ascoltatori della voce, ovvero di coloro che fondavano la propria
dottrina sulla comprensione delle Quattro nobili verità) e,
successivamente, Hinayāna (Veicolo inferiore).
Il dibattito storiografico sulle origini del Mahāyāna
Gli storici del Buddhismo hanno
elaborato diverse ipotesi sulla nascita degli insegnamenti mahāyāna.
Richard H. Robinson e Williard L. Johnsons ritengono che i loro primi
testi di riferimento, segnatamente l'Aṣṭa-sāhasrikāprajñā-pāramitā
(Sutra della perfezione della saggezza in ottomila stanze; risale al
I secolo a.C.), siano frutto di una reazione di alcuni monaci esegeti
che rifiutavano l'impostazione degli Abhidharma delle scuole
del Buddhismo dei Nikāya prodotti nello stesso periodo. Questo
rifiuto era motivato dal fatto che, a detta di questi primi monaci
mahāyāna, gli Abhidharma tradivano l'insegnamento del Buddha
dimenticandone gli aspetti essenziali.
Come rileva Paul Williams, i primi
Prajñāpāramitā sūtra consistono essenzialmente in
esortazioni agli altri monaci a non dimenticare alcune dottrine
buddhiste, come la vacuità, già evidenziate negli Āgama-Nikāya
e ritenute, in questi sūtra, a fondamento dello stesso Dharma
buddhista.
È opinione di Paul Williams, che in
questo richiama anche Heinz Bechert che nonostante le differenze
dottrinali con gli esponenti buddhisti non-Mahāyāna la nascita del
Mahāyāna non sia comunque in alcun modo attribuibile ad uno
"scisma" (saṅghabeda) all'interno delle scuole
buddhiste indiane: "uno scisma non ha niente a che vedere con
divergenze dottrinali, ma è il risultato di divergenze riguardanti
la disciplina monastica".
Quindi per questi autori:
«Il buddhismo è
un'ortoprassi, più che un'ortodossia. Ciò che importa è
l'armonia del comportamento, non l'armonia delle dottrine»
|
(Paul Williams. Op.cit.
pag.97) |
A controprova di queste tesi Williams
ricorda anche l'evidenza che non esiste un codice disciplinare
(vinaya) Mahāyāna oltre al fatto che i pellegrini buddhisti
cinesi recatisi in India raccontassero nelle loro cronache di viaggio
giunte fino a noi di come monaci mahāyāna condividessero con monaci
non-mahāyāna, e in tutta tranquillità, gli stessi monasteri.
Condividendo gli stessi monasteri, lo
stesso codice monastico e lo stesso comportamento monastico i monaci
mahāyāna si differenziavano dai monaci non-mahāyāna unicamente
per una diversa visione del fine ultimo del Buddhismo.
Sempre Williams in tal senso richiama
l'opera di Atiśa, un dotto missionario indiano in Tibet dell'XI
secolo, il Bodhipathapradīpa. In questa opera Atiśa
suddivide i praticanti buddhisti in tre classi in base alle loro
motivazioni religiose: nella prima sono collocati coloro che cercano
di acquisire meriti per migliorare le loro esistenze presenti o
future; nella seconda coloro che cercano di uscire dalla prigione del
Saṃsāra guadagnando il Nirvāṇa conseguendo lo stato di
arhat; nella terza si collocherebbero invece solo coloro che
hanno come obiettivo religioso la liberazione della sofferenza per
tutti gli esseri senzienti e che quindi mirano ad un Nirvāṇa
superiore rispetto a quello degli arhat considerato
'inferiore' come la loro via spirituale (hinayāna). Il
Nirvāṇa di questi, detti i bodhisattva, è indicato
come "non dimorante" (apratiṣṭhitanirvāṇa)
ovvero oltre la dualità tra Saṃsāra e Nirvāṇa e
che non abbandona gli altri esseri senzienti nella sofferenza.
«Il punto determinante che
rende seguaci del Mahāyāna non è quindi l'abito, le regole
monastiche o una filosofia: è la motivazione, l'intenzione»
|
(Paul Williams. Op.cit.
pag.99) |
«il termine Mahāyāna è
usato semplicemente a scopi pratici. È un 'termine gruppo' che
raccoglie una gamma di pratiche e di insegnamenti non
necessariamente identici fra loro, e forse neppure compatibili. Il
Mahāyāna non costituisce una scuola di buddhismo. Gli manca
l'unità necessaria»
|
(Paul Williams. Op.cit.
pag.101) |
Atteso che inizialmente il Mahāyāna
sembra condividere gli stessi luoghi di pratica del Buddhismo
non-Mahāyāna occorre chiarire quando queste due correnti buddhiste
si separarono. Dopo un'accurata analisi dei reperti archeologici
disponibilie Gregory Schopen conclude:
«Siamo in grado di ritenere
che ciò che oggi chiamiamo Mahāyāna non iniziò a emergere come
gruppo separato e indipendente sino al IV secolo»
|
(Gregory Schopen. Op.cit.
pag.15) |
Quindi, fatto salvo una iscrizione
epigrafica scoperta nel 1977 che fa riferimento al Buddha
mahāyāna Amithāba nonché di una iscrizione che menziona
l'esistenza di "tre veicoli" (yāna) rinvenuta a Charsadda
e risalente al 55 d.C., non ci sono prove di una "istituzione"
mahāyāna separata dalla restante comunità prima del IV secolo,
nonostante sia evidente per gli studiosi che la letteratura scritta
che va sotto l'alveo dottrinale mahāyāna fosse già presente in
India da diversi secoli. Paul Williams ritiene improbabile una
presenza della letteratura Mahāyāna prima della stesura per
iscritto della letteratura buddhista riguardante gli Āgama-Nikāya
ovvero prima del I secolo a.C., contro questa ipotesi si pone Tilmann
Vetter per il quale vi sarebbero prove evidenti di una trasmissione
orale del più antico materiale Mahāyāna.
Se quindi c'è generale consenso tra
gli studiosi nel ritenere che le prime opere scritte contenenti
dottrine mahāyāniste compaiano nei secoli a cavallo della nostra
Era e che, fatto salvo casi sporadici, non siano presenti rilevanze
archeologiche che testimonino una presenza istituzionalizzata del
Mahāyāna se non a partire dal IV secolo, resta da comprendere
l'origine del movimento mahāyānista che si diffuse lentamente nei
monasteri buddhisti.
Akira Hirakawa ritiene che tale
movimento sia di origine prevalentemente laicale e legato al culto
degli stūpa. Schopen è di tutt'altro avviso notando che le
iscrizioni archeologiche sono quasi tutte monastiche, concludendo
che:
«Il Mahāyāna era un
movimento dominato dai monaci»
|
(Gregory Schopen. Two
problems in the history of Indian Buddhism: the layman/monk
distinction and the doctrines of the transference of merit.
In Studien zur Indologie und Iranistik.
1985, X, pag.26) |
Anche Paul Harrison e Sasaki Shizuka
ritengono che il movimento mahāyānista sia di stretta origine
monastica.
Paul Williams ricorda come i recenti
lavori di Paul Harrison sui frammenti della letteratura mahāyāna
nonché i suoi antichi sūtra conservati nel Canone cinese, e
solo recentemente studiati, nonché le conclusioni degli studi
archeologici effettuati da Gregory Schopen, possano far concludere
che il nucleo centrale del Mahāyāna sia certamente monastico e che
il punto centrale del Mahāyāna primitivo corrisponda
all'aspirazione della perfetta buddhità ovvero al voto del
bodhisattva da contrapporre a coloro che seguivano un sentiero
'inferiore' mirando alla liberazione della sola propria sofferenza
invece di mirare a quella di tutti gli esseri senzienti.
Questi monaci mahāyāna corrisponderebbero a degli asceti della
foresta tesi a tornare allo spirito buddhista primitivo:
«Una certa spinta ai primi
sviluppi del Mahāyāna venne dai monaci dimoranti nella foresta.
Lungi dall'essere il prodotto di un movimento urbano, laico e
devozionale, molti sūtra mahāyāna rivelano un radicale
tentativo ascetico di ritornare all'ispirazione originaria del
buddhismo: la ricerca della buddhità o della conoscenza
risvegliata»
|
(Paul Harrison.Searching
for the origins of the Mahāyāna : what are we looking for?
In Eastern Buddhist.
1995, XXVIII, 1, 65) |
Il fatto che i primi mahāyānisti
fossero dei monaci asceti delle foreste spiegherebbe, secondo
Harrison, la scarsità di testimonianze archeologiche nei loro
confronti.
La tesi di un Mahāyāna fondato da
monaci conservatori e asceti delle foreste sarebbe dimostrata,
secondo Gregory Schopen, anche dall'analisi di un sūtra
mahāyāna molto antico, il Maitreyamahāsiṃhanāda (Ruggito
del Leone di Maitreya), risalente al I secolo d.C. dove viene
raccomandata l'ascesi monastica nelle foreste, la svalutazione della
vita laicale e la denigrazione dell'adorazione degli stūpa.
Anche l'origine geografica del
"movimento" mahāyānista è stata a lungo dibattuta tra
gli studiosi.
Così Luis O. Gòmez:
«Discordanti sono le opinioni degli studiosi occidentali
riguardo all'epoca e alla collocazione geografica delle origini
del Mahāyāna. Alcuni propendono per una origine antica, intorno
agli inizi dell'era volgare, tra le comunità dei Mahāsāṃghikā
della regione sud-orientale dell'Andhra. Altri propongono
un'origine nordoccidentale, tra i sarvāstivādin, tra il II e il
III secolo d.C. Ma forse è più verosimile, per la formazione del
Mahāyāna, pensare a un processo graduale e complesso,
sviluppatosi in varie regioni dell'India»
|
Mario Piantelli evidenzia come
«Vi sono due distinti focolai di cui abbiamo notizia: le
scuole degli andhaka fiorite attorno ad Amarāvati, presso una
delle quali (i pūrvaśaila) sembra fosse conservato un
testo dei Prajñāpāramitāsūtra ancora in pracrito, e
l'ambiente ricco di fermenti dei sarvāstivādin dell'India di
Nord-Ovest; importanti carovanieri congiungevano queste regioni e
una continua migrazione di "bhikṣu" e di idee può
aver avuto luogo nei due sensi: non è un caso che la presenza di
una comunità del Mahāyāna sia segnalata un po' dappertutto
lungo tali itinera: Kapiśa (l'attuale Kabul), Takṣaśila,
Jalaṃdara (l'attuale Lahore), Kankyākubja, Mathurā...»
|
L'emergenza simultanea della rivoluzione cristiana e del Grande veicolo buddista nel primo secolo dopo Cristo: gli studi di François-Marie Périer
Nel novembre 2017, lo scrittore
François-Marie Périer, di sensibilità cristiana e buddista,
pubblicò il saggio storico "La Porte Étroite et le Grand
Véhicule, des Premiers Chrétiens aux Bodhisattvas, Révélations
sur les Origines du Mahâyâna" - La Porta Stretta e il Grande
Veicolo, dai Primi Cristiani ai Bodhisattva, Rivelazioni sulle
Origini del Mahāyāna - (éditions le Mercure Dauphinois, Grenoble,
non tradotto). Di padre francese e di madre italiana, l'ex-reporter
(per la rivista Bouddhisme Actualités) e fotografo François-Marie
Périer mette in evidenza la simultaneità dell'apparizione del
Cristianesimo e del Mahāyāna ai due poli della Via della Seta,
lungo la quale il greco e l'aramaico erano le lingue
internazionalmente parlate e scritte, nei primi decenni dell'era
cristiana. Attraverso l'uso congiunto della cronologia,
dell'iconografia, dell'archeologia, dell'etimologia, delle vie
commerciali, dei testi ebraici, cristiani, gnostici, zoroastriani e
buddisti Mahāyāna dei primi secoli dopo Cristo, il ricercatore
francese afferma l'incontro e la sintesi del messaggio cristiano e
del buddismo presente nell'ambito dell'Impero Kushana, fortemente
ellenizzato tre secoli dopo le conquiste di Alessandro, alle sorgenti
del Grande Veicolo. Per François-Marie Périer, che precisa che il
suo obiettivo è di portare un messaggio di conoscenza reciproca ai
Buddisti e ai Cristiani, la vita e l'insegnamento del profeta e
buddha di Occidente Gesù, portati dai missionari cristiani,
impressionarono fortemente la Sangha e vennero integrati con i nuovi
insegnamenti cristiani, nella sintesi mahayanista, ponendo la
Compassione e la rinuncia al Nirvana del Bodhisattva con il saluto
universalmente portato a tutti gli uomini, al di sopra della
dissoluzione nel Nirvana cercata dall'Arhat nel Buddismo delle
Origini.
Ecco alcuni elementi delle ricerche di
François-Marie Périer:
L'apparizione dei tre buddha o
bodhisattva dell'Occidente, chiamati poi in Cina I Tre santi
dell'Ovest e spesso rappresentati insieme: Amitâbha, Avalokiteshvara
et Mahâsthamaprâpta.
- Amitâbha, (Luce Infinita), un rè
chiamato Dharmakara (Colui che porta la legge) che aveva rinunciato
al proprio regno per compassione per l'umanità e diventò monaco,
portando il Dharma dappertutto e manifestando colla propria luce
Avalokiteshvara, anche in tal caso per compassione per l'umanità.
- Avalokiteshvara, (Colui che guarda
verso il mondo di quaggiù o Colui che ascolata le suppliche del
mondo), emanato da Amitâbha,viene descritto come un buddha dalla
pelle bianco, di cui il campo d'influenza si estende verso
l'Occidente. Attraversò gli Inferni e ne liberò le anime. Sù una
montagna, un giorno, ebbe un dubbio sulla sua capacità a liberare
tutte le anime del Samsara come aveva emesso il voto di farlo, e il
suo corpo scoppiò in mille pezzi, poi riconstituito da Amitâbha e
riprese la sua missione aiutata da Târâ. Avalokiteshvara ha in
carica di vegliare sull' Ùmanità nel periodo attuale che va dal
buddha storico Shakyamuni fino alla discesa di Maitreya.
- Mahâshtamaprâpta, (Arrivo di una
grande potenza), è un buddha più astratto e meno rappresentato.
Associato alla Saggezza, se ne ritroveranno caratteristiche in
Vajrapani e Manjushri
Questi tre buddha aspettano il fedele
al centro del Sukhavati, o Paradiso della Terra Pura d'Occidente,
dove ci sono tutte le delizie, tranne quelle delle donne, che devono
prendere un corpo d'uomo per potere accedere al Sukhavati. Un punto
comune con il Regno dei Cieli del Vangelo secondo Tommaso, testo
gnostico del primo secolo, in cui Gesù afferma a Pietro che le donne
che si faranno uomini entreranno nel Regno dei Cieli.
La Prajñā-pāramitā o Saggezza
Suprema femminile non esisteva nel Buddismo delle Origini. Ma era
presente nella Bibbia, chiamata Shekhina attraverso i Proverbi, il
Libro della Sapienza (Sapienza di Salomone o Sapienza) e più
recentemente con il Siracide. Târâ, la Sagezza, era stata
manifestata nello stesso momento di Avalokiteshvara, dagli occhi di
Amitâbha. La congiunzione amorosa della Sagezza femminile e della
Compassione maschile al centro dei mandala tantrici è molto simile
alle descrizioni che danno i testi gnostici come la Sapienza di Gesù
Cristo, o Sofia di Gesù Cristo (II-III secolo dopo Cristo) ritrovata
a Nag Hammadi nel 1947. In questo testo apocrifo, la Sapienza e il
Salvatore vennero manifestati insieme dalla Luce infinita e si
congiungono misticamente nella Camera nuziale. In Cina,
Avalokiteshvara e Târâ diverranno Guan-yin, bodhisattva femminile
della Compassione, dalla pelle bianca, vestita di bianco, con un
bambino sulle ginocchia, chiamata Colei che porta i bambini. In
Giappone, Guan-yin diverrà Kannon.
Anche il buddha Maitreya, (Colui che
ama, anche chiamato buddha del Futuro), apparve al primo secolo dopo
Cristo, sintesi del dio persiano Mitra, adorato dai confini
dell'Impero Romanoo fino all'India sotto diverse forme, e di Cristo.
Maitreya, buddha salvatore, scenderà per ristabilire il Dharma nel
mondo e rinnovarlo in un modo molto vicino all'escatologia
zoroastriana e cristiana.
Come accennato sopra, la nuova salvezza
del Mahâyâna è destinata all'insieme dell'Umanità e non limitata
ai monaci. Si tratta di un altro punto comune importante con il
Cristianesimo che esce dall'ambito strettamente ebraico per essere
portato verso i Gentili al di fuori della comunità ebraica.
Appena più di un secolo dopo
l'emergenza del Mahâyâna nell'Impero Kushana, Mani, il profeta
persiano, realizzò con il Manicheismo, che predicò in aramaico, una
sintesi tra lo Zoroastrismo, il Buddismo e il Cristianesimo. Prima
accolta favorevolmente, venne in seguito perseguitato e martirizzato
e il Manicheismo rimase sempre una fede marginale perpetuata però
con grande successo dai Catarri nel Medioevo. Invece, protetto in
particolare dall'imperatore Kushana Kanishka il Grande che visse tra
il primo e il secondo secolo dell'era cristiana e mandò missionari a
predicare il Dharma e costruire monasteri per tutto l'Impero seguendo
le Vie della Seta, il Grande Veicolo conobbe un enorme successo in
India, in Cina, nel Medio-Oriente e più tardi nel Tibet e in
Giappone.
Anticipando alcune controversie,
François-Marie Périer fa prendere in considerazione il fatto che
gli elementi elencati sopra, che apparvero nel Grande Veicolo
buddista, non erano presenti nel Buddismo delle Origini o nell'area
indiana in precedenza, ma erano invece ben presenti, da secoli in
alcuni casi, nell'Antico Testamento, nello Zoroastrismo o
nell'Ellenismo. Per altro, anche se la parola Mahāyāna esistette
nei primi decenni avanti Cristo, il buddhismo Mahāyāna che emerse
dall'improvviso nel primo secolo dopo Cristo e si diffuse con grande
velocità, è del tutto diverso di quello che si annunciò in modo
molto ipotetico nel secolo precedente: né i sûtra, né i buddha, né
gli elementi di cosmologia e di escatologia, né i nuovi valori
apparsi nell'Impero Kushana erano presenti né riperibili avanti
Cristo. E l'arte greco-buddista o arte del Gandhâra, apparsa in
quello stesso periodo, è qui per ricordare con grande bellezza
l'incontro tra Occidente ed Oriente nell'Impero Kushana, e
l'infondere dei valori filosofici e artistici dell'Ellenismo nel
nuovo Dharma.
I sūtra Mahāyāna
Il corpus dottrinale Mahāyāna è oggi
raccolto nel Canone cinese (大藏經
Dàzàng jīng) e nel Canone tibetano (nel Kanjur
e nel Tanjur), così denominati in base alle lingue con cui
questa letteratura viene riportata. Conserviamo comunque diverse
opere Mahāyāna, integrali, anche in sanscrito ibrido e in khotanese
nonché numerosi frammenti in altre lingue spesso rinvenuti lungo le
oasi della Via della Seta.
Secondo la tradizione Mahāyāna molti
di questi sūtra furono predicati dallo stesso Buddha
Śākyamuni, Luis O Gòmez evidenzia tuttavia come siano le stesse
tradizioni mahāyāna a smentire questo dato storico quando
sostengono che questi sūtra furono trasmessi dal Buddha solo
a dei bodhisattva e a degli "esseri celesti" che li
nascosero per alcuni secoli nelle profondità della terra o degli
oceani per farli riemerge nei primi secoli della nostra Era.
La tradizione Mahāyāna sarebbe
comunque originata dalla messa per iscritto della sua prima
letteratura (I secolo a.C.), e quindi dalla sua diffusione lungo i
monasteri buddhisti indiani; secondo Tilmann Vetter vi sarebbero
tuttavia prove evidenti di una precedente trasmissione orale del più
antico materiale Mahāyāna.
La più antica letteratura Mahāyāna
ad oggi conservata appartiene al ciclo dei Prajñāpāramitāsūtra.
Successivamente tale letteratura si espande e si diffonde,
raggiungengo oltre le mille opere che si propagano lungo l'Asia
centrale e l'Estremo Oriente, giungendo, a partire dallo scorso
secolo, in Occidente.
Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra
Mario Piantelli riporta l'opinione di
numerosi studiosi per cui l'Āryaprajñāpāramitāratnaguṇasañcayagāthā
(Strofe del cumulo di pregi [che sono] le gemme della Nobile
Perfezione della Conoscenza) giunta a noi in sanscrito ibrido,
raccolta nel Canone tibetano e risalente al I secolo a.C., sarebbe il
testo più antico di questa letteratura ad oggi disponibile.
Da questo primo testo originerebbe il
successivo Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā (Sutra della
Perfezione della Conoscenza in ottomila versi) giunto fino a noi in
alcune versioni sanscrite e cinesi. In cinese la prima traduzione di
questo sūtra è in dieci fascicoli e risale al 172 d.C. per
opera di Lokakṣema con il titolo 道行般若經
(Dàoxíngbōrějīng conservato nel Canone cinese al
T.D. 179). Di poco successivo il
Pañcaviṃśatisāhasrikāprajñāpāramitāsūtra (Sutra
perfezione della saggezza in venticinquemila versi) tradotto nella
lingua cinese nel 286 da Dharmarakṣa con il titolo 光讚般若波羅蜜經
(Guāngzànbōrěbōluómìjīng e conservato al T.D.
222).
A seguire gli altri
Prajñāpāramitāsūtra, tra i quali ricordiamo:
- Il Śatasāhasrikāprajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in centomila stanze).
- L'Aṣṭādaśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in diciottomila stanze).
- Il Daśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in diecimila stanze).
- Il Prajñāpāramitā ratnaguṇasaṃcayagāthā (Sutra condensato della perfezione della saggezza).
- Il Saptaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione di saggezza in settecento righe).
- Il Pañcaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione di saggezza in cinquecento righe).
- Il Prajnaparamita- arasadhika- sutra (Sutra della perfezione di saggezza in cinquanta righe).
- Il Prajñāpāramitā-naya-śatapañcaśatikā (Sutra della perfezione di saggezza in centocinquanta metodi).
- Il Pañcaviṃśatika- prajñāpāramitā-mukha (Venticinque porte della perfezione della saggezza).
- Lo Svalpākṣara-prajñāparamitā (La perfezione della saggezza in poche parole).
- L'Eka ksarimatanama sarva-tathāgata prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza in una lettera madre dei Tathagata).
- Il Kauśika prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza per Kausika).
- Il Suvikrāntavikrāmi-paripṛcchā-prajñāpāramitā-sūtra (Le domande di Suvrikantavikramin).
- Il Vajracchedika prajñāpāramitā sūtra (Il Sutra del Diamante che recide).
- Il Prajñāpāramitā Hṛdaya sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza).
L'autore o gli autori dei primi
Prajñāpāramitā sūtra sono, a detta di Paul Williams, dei
dharmabhāṇaka (predicatori del Dharma) piuttosto che degli
esegeti. Essi ripetono costantemente, in questa letteratura
religiosa, tre precisi messaggi:
- La perfezione (Pāramitā) più elevata è la prajña (saggezza o conoscenza non mondana);
- Il contenuto della prajña è la vacuità (Śūnyatā);
- Il contesto realizzativo di tutto ciò è il sentiero del Bodhisattva (Bodhisattvayāna) ovvero quello intrapreso dal praticante buddhista che non mira alla salvezza personale raggiungendo lo stato di arhat, bensì alla salvezza di tutti gli esseri senzienti e quindi alla stessa buddhità.
Il Sutra del Loto (Saddharmapuṇḍarīkasūtra)
Composto nella sua forma definitiva tra
il I secolo e il II d.C., il Sutra del Loto contiene alcune
parti che si possono forse far risalire a poco prima dell'inizio
della nostra Era. Tradotto in più lingue questo sutra è
stato diffuso lungo l'Asia centrale e l'Estremo Oriente divenendo in
molti luoghi il sutra buddhista di riferimento per quelle
comunità religiose. Esso si compone di un insieme di racconti
fantastici o sovrannaturali aventi lo scopo di 'rivelare' al suo
lettore una diversa interpretazione del mondo. In questo sutra
il Buddha Śākyamuni presenta il Buddhaekayāna (il veicolo
unico del Buddha) in cui verrebbero riassunti tutte le altre 'vie'
buddhiste compresa quella dello Śrāvakayāna (o Hinayāna).
Il Dharma profondo è espresso dal Buddha non con l'esposizione della
dottrina delle Quattro nobili verità (catvāri-ārya-satyāni)
ma con quella della Tathātā ovvero della Realtà per come
essa è. In questo sutra tutti i buddha dei diversi
mondi e universi vengono ad omaggiare con i loro bodhisattva
il Buddha Śākyamuni, il buddha della terra di sahā,
la nostra terra, come ad indicare la centralità della vita
quotidiana per il praticante buddhista che non dovrebbe rivolgersi ad
altri buddha cosmici. Infine il Buddha Śākyamuni afferma di
essere il Buddha eterno, ovvero di non essere mai entrato nel
parinirvāṇa (estinzione definitiva) e di aver conseguito la
bodhi da tempo immemorabile. In questo il sutra vuole
indicare che il buddha stesso è "incarnato" nel
Dharma (così come il Dharma si "incarna" nel Buddha) e
nelle pratiche bodhisattviche.
L'Avataṃsakasūtra (Il Sutra della Ghirlanda fiorita)
L'Avataṃsakasūtra (il suo
titolo completo è Buddhâvataṃsakamahāvaipulyasūtra) è
una collezione di sutra che sono stati raccolti e collegati
tra loro sotto questo titolo intorno al IV-V secolo d.C. La dottrina
qui esposta, soprattutto nel Gaṇḍavyūhasūtra che ne
rappresenta l'ultimo capitolo, è la descrizione del mondo visto dai
buddha e dai bodhisattva avanzati (āryabodhisattva).
Un mondo quindi fondato sulla visione della Realtà percepita da un
profondo stato meditativo. Il mondo dei buddha viene indicato
con il termine dharmadhātu (Regno della Realtà assoluta)
esso si sovrappone a quello umano indicato come lokadhātu
(Regno mondano). Nel dharmadhātu la Realtà esprime la sua
vacuità (śūnyatā) e la totale compenetrazione tra
tutti i fenomeni che lo compongono. I buddha agiscono nel
lokadhātu affinché gli essere lì relegati possano percepire
il dharmadhātu e quindi raggiungere la bodhi.
Un altro capitolo importante dell'Avataṃsakasūtra è il Daśabhūmikasūtra (Sutra delle dieci terre), il principale sūtra mahāyāna che enuncia la dottrina delle bhūmi mediante le quali il bodhisattva può procedere per realizzare il pieno risveglio, indicando nella bodhicitta (Mente del Risveglio, ovvero l'aspirazione ad ottenere il Risveglio) il primo passo per entrarvi.
Un altro capitolo importante dell'Avataṃsakasūtra è il Daśabhūmikasūtra (Sutra delle dieci terre), il principale sūtra mahāyāna che enuncia la dottrina delle bhūmi mediante le quali il bodhisattva può procedere per realizzare il pieno risveglio, indicando nella bodhicitta (Mente del Risveglio, ovvero l'aspirazione ad ottenere il Risveglio) il primo passo per entrarvi.
Il Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra
Il Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra
è la rivisitazione mahāyāna degli ultimi giorni di vita del Buddha
Śākyamuni con i relativi ultimi insegnamenti. Se gli eventi
riportati coincidono in parte con il Mahāparinirvāṇasūtra
contenuto nello Āhánbù o con il Mahāparinibbānasutta
del Canone pāli, questi di origine hīnayāna, gli
insegnamenti riportati sono totalmente differenti, insistendo il
testo mahāyāna su dottrine quali, ad esempio, il Tathāgatagarbha.
La dottrina contenuta nella prima parte
del sūtra consiste nel considerare il parinirvāṇa
del Buddha Śākyamuni come una morte "apparente" e in
realtà mai avvenuta. Il corpo del Buddha, qui indicato come
Dharmakāya o abhedavajrakāya, sarebbe in realtà
adamantino e indistruttibile e la sua vita sarebbe incalcolabile.
Quello del Buddha è quindi un mahānirvāṇa, differente dal
nirvāṇa degli arhat, i quali non hanno la
consapevolezza del buddhadhātu ma solo l'assenza delle
afflizioni (kleśa).
La seconda parte contiene un insieme di
dottrine che vanno da una lettura, sempre docetista, della vita
terrena del Buddha e delle sue precedenti attività bodhisattviche, a
delle interpretazioni delle regole monastiche (vinaya) alla dottrina
del mòfǎ, a quella esoterica del tathāgatagarbha.
Inoltre in questo sūtra
buddhista il Buddha, il Tathāgata, è visto possedere le
guṇapāramitā (la "perfezione delle qualità":
"beatitudine", "permanenza", "purezza"
e "Sé") ovvero le quattro qualità opposte che affliggono
gli esseri senzienti.
Non solo, le guṇapāramitā
sono potenzialmente in tutti gli esseri senzienti, in quanto la loro
autentica natura è il tathāgatagarbha. Dal che, a differenza
di altre dottrine buddhiste, la dottrina dello anātman viene
indicata come saṃvṛtisatya (假諦)
ovvero come "verità convenzionale" in quanto lo Śākyamuni
avrebbe inteso rigettare solo il "sé" condizionato per
liberare il vero "Sé" (mahātman; cinese: 大我,
dàwǒ; giapponese: daigo)), nel nirvāṇa, per
manifestare il buddhadhātu.
Le dottrine Mahāyāna
Dal punto di vista dottrinale, il
Buddhismo Mahāyāna venne delineato nelle scuole Madhyamaka e
Cittamātra che fiorirono nell'India settentrionale soprattutto
presso l'Università buddhista di Nālandā. Questi insegnamenti
contengo tra loro importanti differenziazioni, conservando tuttavia
in comune l'importanza della figura del bodhisattva, ovvero del
praticante buddhista, laico o monaco, che potendo raggiungere la meta
del nirvāṇa vi rinuncia per aiutare tutti gli esseri
senzienti ad entrarvi prima di lui, e la centralità
dell'insegnamento della vacuità (sanscrito: śunyātā)
peraltro già presente negli antichi Āgama-Nikāya.
Va precisato che alcuni di questi
insegnamenti, che solo successivamente acquisirono il nome Mahāyāna,
almeno dal punto di vista scritturale sono databili nello stesso
periodo di quelli riferiti al Buddhismo dei Nikāya, ovvero intorno
l'inizio della nostra era. Questo fatto daterebbe l'avvio dottrinale
del Mahāyāna, e quindi del Mahāyāna medesimo, intorno a quel
periodo.
Gli insegnamenti Mahāyāna si sono
diffusi durante l'Impero Kushan e lì hanno progressivamente
integrato e quindi sostituito le antiche scuole dette del Buddhismo
dei Nikāya giungendo fino in Cina e in Tibet, per poi diffondersi in
tutta l'Asia centrale e orientale.
Secondo Icilio Vecchiotti il
progressivo sviluppo dottrinale del Mahāyāna è causa di una
graduale migrazione del Buddhismo stesso verso dottrine idealistiche:
«La pluralità delle dottrine e la pluralità dei Buddha si
ambientano proprio in questa dinamica, costituendo l'espressione
di una pluralità di forme, che si avviano ad essere in modo
sempre più esplicito forme della coscienza, cosa che le viene a
togliere da qualsiasi problema di tipo sostanzialistico, da questo
atteggiamento esplicito-implicito nasce la drammatica
problematicità dei sūtrāṇi del Grande Veicolo. Non c'è alcun
dubbio che nel progresso dei tempi si venisse a determinare tutta
una serie di discrepanze dottrinali, nel senso che le nuove
dottrine, in uno sviluppo che non sempre fu lineare, venivano a
contenere apoftegmi che non sarebbero potuti appartenere al
Buddhismo primitivo: se si guarda agli estremi della linea
derivata il Buddhismo delle origini non è idealistico, o almeno
tale non si può definire, mentre tale senza dubbio è il punto
d'arrivo del Buddhismo stesso.»
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