sabato 1 novembre 2014

Karatè, Italia terza nel medagliere ai mondiali in Portogallo



Gli sport cosiddetti minori vivono con risorse scarse, grande entusiasmo e molto volontariato. E il karatè non sfugge alla regola. Ecco perché solo nei giorni scorsi sono stati pubblicati i risultati definitivi dei campionati mondiali della Fska (l'associazione internazionale che raccoglie le società che si ispirano alla scuola fondata dai discendenti diretti del maestro Gichin Funakoshi, il codificatore del karatè moderno) che si sono svolti alla fine di settembre ad Almada, in Portogallo.
Ma l'attesa dell'esito dei mondiali, ai quali hanno preso parte atleti di tredici Paesi, ci ha riservato la bella sorpresa di trovare l'Italia al terzo posto nel medagliere, che è stato dominato dai padroni di casa con 60 medaglie d'oro. Fra gli ospiti la squadra azzurra è stata superata solo dall'Ucraina e ha battuto concorrenti molto «tosti» come kazaki e sudafricani.
Insomma, sulle rive dell'Atlantico - Almada si trova a pochi chilometri da Lisbona e si affaccia sulla costa a sud della foce del Tago - l'Italia del karatè si è fatta onore: 21 medaglie d'oro, 23 d'argento e 24 di bronzo. Dietro la fortissima Ucraina (29, 20 e 18) e davanti l'agguerritissimo Kazakistan (20, 10 e 10), il Sudafrica (6, 5 e 16), la Russia (5, 2 e 3) e la Polonia (3,2 2 e2). Via via gli altri Paesi partecipanti, fra i quali Inghilterra, Irlanda, Germania e India. Peccato che ai campionati mondiali Fska Portugal 2014 non abbiano potuto prendere parte, per motivi economici, gli atleti delle tante società Fska che operano in Usa, Argentina, Brasile, Cile, Messico, Uruguay, Venezuela, Indonesia, Iran, Israele eccetera.
Karatè sport minore ma anche e forse soprattutto sport giovane. Grazie all'impegno dei «sensei» che riescono a far appassionare alle arti marziali i bambini che dopo qualche anno, con le loro cinture verdi e blu, si impegnano e si divertono negli allenamenti per poi gioire, insieme con i loro genitori, nelle competizioni.
Per questo è opportuno segnalare la società Kokoro Dai di Cairate (in provincia di Varese) che ha fra i suoi tesserati i due italiani campioni del mondo under 15 Matteo Simonelli, primo nel kumitè (combattimento) e Francesco Pricolo, primo nel katà (stile), entrambi allievi del maestro Mauro Volpini, che ad Almada ha avuto la grande soddisfazione di festeggiare anche gli argenti e i bronzi di tutti gli altri suoi ragazzi che hanno preso parte alla spedizione in Portogallo.





venerdì 27 giugno 2014

Chi è stato il piu' grande pugile dopo Muhammad Ali?


"Tarchiato, lento, tecnicamente grezzo e dotato di un allungo inferiore alla media dei massimi (170 cm, il minore in assoluto nella storia dei campioni del mondo dei pesi massimi), riusciva a compensare questi limiti con l'aggressività (talvolta al limite delle regole del ring), la resistenza fisica e, soprattutto, col suo destro terrificante, che gli valse il soprannome di "The Brockton Blockbuster" (Il bombardiere di Brockton)".
Questo era Rocky Marciano! Da molti esperti viene ritenuto il pugile più letale di sempre, non ha mai perso un incontro dei 49 disputati, e di questi ben 43 li ha vinti per KO (87,76%!).



lunedì 23 giugno 2014

Qual è il coltello piu' pericoloso che si possa comprare? Ovviamente senza l’intenzione di usarlo.


Il coltello più letale sul mercato costa dai 400 ai 500 dollari circa e si chiama The Wasp Injection Knife. Contiene una cartuccia di CO2 nell'impugnatura e quando si accoltella la vittima, premendo il pulsante posto dietro la guardia, inietta il contenuto della cartuccia provocando ingenti danni ai tessuti, causati dalla sovrappressione e dal congelamento.
Ora, per prima cosa devi arrivare al tuo bersaglio poi, come altri hanno detto, devi usare il coltello prima che la vittima sappia che ce l'hai e sperare che non riesca a prendertelo e ad usarlo su di te. Ho avuto un giovane soldato che una volta mi ha chiesto di insegnargli come combattere coi coltelli, gli dissi che la prima lezione di combattimento coi coltelli è "Aspettatevi dei tagli" perché non importa quanto sei bravo, a meno che l'attacco non avvenga da dietro e di sorpresa, se anche l'altra persona ha un coltello, ci si taglierà .






domenica 22 giugno 2014

Artemisia I

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Artemisia I di Caria (in greco antico: Aρτεμισία, Artemisía; Alicarnasso, fine VI secolo a.C. – V secolo a.C.) dopo la morte del marito, di cui è ignoto il nome, divenne sovrana delle città di Alicarnasso, in Asia minore, e dei territori annessi di Coo, Nisiro e Calinda.
È ricordata soprattutto per la sua partecipazione alle battaglie di Capo Artemisio e di Salamina (480 a.C.) come alleata dell'Impero achemenide contro la coalizione greca, nel corso della seconda guerra persiana. Artemisia, unica donna col grado di comandante nella flotta di Serse, era alla guida di cinque triremi, che avevano un'ottima reputazione fra tutte le navi del Re dei Re, seconda solo a quella delle navi di Sidone.

Biografia
Origini e famiglia
Artemisia, il cui nome deriva dalla dea della caccia Artemide, nacque da Ligdami I (in greco antico: Λύγδαμις, Lygdamis), il satrapo di Alicarnasso, e da una donna cretese, della quale non si conoscono i dati anagrafici.
Dopo la morte del marito (il cui nome ė ignoto), Artemisia salì al trono come tutrice del figlio Pisindeli (in greco antico: Πισίνδηλις, Pisìndelis), a causa della sua minore età. Il suo regno, che dipendeva formalmente dall'impero achemenide, si estendeva per la regione della Caria, nell'odierna Turchia, e comprendeva la capitale Alicarnasso, la città alleata di Calinda e le isole di Coo e di Nisiro.

Regina di Caria
Da regina, Artemisia preferiva la navigazione e la guerra alla vita di corte. Polieno riporta infatti che la regina era solita cambiare repentinamente le insegne e i colori della sua trireme, fingendosi una nave greca o persiana a seconda delle imbarcazioni incrociate quando navigava in acque internazionali, per ingannare così gli equipaggi delle altre navi ed allontanarsi indisturbata o attaccare di sorpresa a seconda delle circostanze.
Secondo la testimonianza di Tessalo, figlio di Ippocrate, quando Serse chiese agli abitanti dell'isola di Coo di sottomettersi a lui, avendo ricevuto un netto rifiuto, inviò Artemisia a conquistare l'isola, a dimostrazione della fiducia che nutriva in lei.
Polieno riporta che quando Artemisia volle conquistare la città di Eraclea al Latmo, fece nascondere i suoi soldati vicino alla città e si recò invece lei stessa in processione, con altre donne, eunuchi e musicisti, alla tomba della Madre degli dèi, che si trovava a sette stadi dalla città. Gli abitanti, incuriositi, seguirono il corteo per assistere al sacrificio lasciando sguarnite le mura difensive e consentendo così ai soldati di Artemisia di prendere facilmente la città.

Battaglia di Capo Artemisio
Quando Serse I di Persia invase la Grecia nel 480 a.C., dando inizio alla seconda guerra persiana, Artemisia partecipò alla spedizione in quanto alleata e vassalla del gran re. La regina partì al comando delle sue cinque triremi e si unì al resto dell'imponente flotta persiana, che contava oltre mille navi. Secondo Erodoto, Artemisia era l'unica comandante di sesso femminile di tutte le forze armate radunate da Serse e le sue triremi avevano la miglior reputazione di tutta la flotta, seconda solo a quella delle navi provenienti da Sidone.
Artemisia partecipò alla battaglia di Capo Artemisio contro la coalizione ellenica, guidata dall'ateniese Temistocle e dallo spartano Euribiade. Questa battaglia navale, che fu combattuta contemporaneamente alla battaglia delle Termopili nell'agosto del 480 a.C., si risolse senza né vinti né vincitori. Artemisia, secondo Erodoto, si distinse in essa in modo "non inferiore" agli altri comandanti persiani.

Battaglia di Salamina
Dopo la battaglia di Capo Artemisio, Mardonio, il comandante supremo delle forze armate persiane, convocò tutti i comandanti dell'esercito persiano per chiedere loro consiglio, su mandato di Serse, se attaccare via mare o via terra. Tutti i generali, secondo il racconto di Erodoto, consigliarono di procedere con un'altra battaglia navale, con la sola eccezione di Artemisia, che invece suggeriva uno scontro campale fra i rispettivi eserciti.
Artemisia sosteneva infatti che, mentre la superiorità dell'esercito di Serse era schiacciante, sul mare erano i Greci a dimostrarsi superiori. Inoltre, secondo la regina, Serse avrebbe fatto meglio a risparmiare le sue navi, tenendole vicino a riva o al limite muovendosi verso il Peloponneso. Un'eventuale sconfitta navale, secondo Artemisia, avrebbe seriamente compromesso i rifornimenti e il morale delle truppe. Inoltre, in caso di scontro in mare, il re non avrebbe probabilmente potuto contare sulle navi alleate che provenivano dall'Egitto, dalla Panfilia, da Cipro e dalla Cilicia, che la regina riteneva non completamente affidabili per una battaglia navale.
Secondo il racconto di Erodoto, Serse tenne in grande considerazione il discorso di Artemisia, che stimava molto, ma preferì dar retta al resto dei comandanti, che spingevano invece per la battaglia navale, convinto che questa volta i suoi avrebbero avuto la meglio, sapendo che il re in persona avrebbe assistito alla battaglia da un trono situato sul Monte Egaleo. La flotta persiana mosse quindi verso l'isola di Salamina, dove la flotta greca, guidata ancora da Temistocle e da Euribiade, la stava aspettando al varco (settembre 480 a.C.).
Nonostante l'inferiorità numerica, la flotta greca ebbe la meglio su quella persiana, grazie alla strategia vincente dei suoi comandanti. Quando ormai la sorte della flotta persiana era segnata, Polieno racconta che Artemisia, vistasi ormai perduta, mise in atto il suo stratagemma che aveva già usato in altre occasioni, per salvare la sua vita e la sua nave ammiraglia. Ordinò quindi ai marinai di sostituire prontamente le insegne della nave, che riportavano i colori e i simboli della flotta persiana, con altri contrassegni, preventivamente preparati allo scopo, che riportavano invece i colori e i simboli della flotta greca. In questo modo, le navi greche che si erano avvicinate alla sua ammiraglia, la scambiarono per una trireme loro alleata, evitando quindi di attaccarla. Per perfezionare l'inganno, Artemisia ordinò al suo equipaggio di attaccare la nave che si trovava a lei vicina, ovvero la trireme comandata dal re di Calinda, Damasitimo (in greco antico: Δαμασίθυμος, Damasithymos), suo suddito e alleato.
La nave di Damasitimo, colta di sorpresa, fu rapidamente affondata e il re di Calinda trovò la morte in mare, ucciso dalla sua stessa comandante. Secondo il racconto di Erodoto, Artemisia aveva probabilmente un conto in sospeso con Damasitimo, tanto che lo storico di Alicarnasso insinua che l'affondamento della nave alleata potesse essere in realtà una manovra del tutto intenzionale da parte della regina, che avrebbe così colto un'occasione d'oro per eliminare lo scomodo subalterno. In ogni caso, nessuno della nave affondata da Artemisia sopravvisse per poterla poi accusare formalmente.
Aminia, il trierarca ateniese che Artemisia aveva di fronte nel momento dell'affondamento della nave di Damasitimo, ingannato dallo stratagemma della regina si allontanò dirigendosi verso un altro settore dello scontro navale. Erodoto sottolinea che Aminia sicuramente non aveva riconosciuto la nave della regina, in quanto gli Ateniesi avevano promesso una ricchissima ricompensa di diecimila dracme a chi avesse ucciso Artemisia, dato che reputavano del tutto intollerabile che una donna muovesse guerra contro Atene.
Secondo lo storico di Alicarnasso, Serse, osservando dal suo trono in terraferma la manovra di Artemisia e la contemporanea e completa disfatta della sua flotta, esclamò: "I miei uomini sono diventati donne e le mie donne sono diventate uomini".
Plutarco testimonia che Artemisia, ritirandosi dal teatro dello scontro navale, riconobbe in mare il cadavere di Ariamene (in greco antico: Ἀριαμένης, Ariaménes), il fratello di Serse caduto in battaglia. Ne recuperò quindi il corpo e lo riportò al re per gli onori funebri.

Dopo la battaglia di Salamina
Secondo la testimonianza di Erodoto, Serse, dopo la sconfitta di Salamina, chiese consiglio ad Artemisia su come continuare la guerra, ovvero se guidare l'esercito personalmente contro i Greci oppure ritirarsi in Persia e lasciare il comando a Mardonio. Artemisia suggerì al Re dei Re quest'ultima ipotesi: secondo la regina di Caria, infatti, se Mardonio avesse vinto la guerra, il merito sarebbe andato a Serse, mentre se avesse perso, il Re dei Re sarebbe stato al sicuro a casa e la colpa della sconfitta sarebbe caduta sul generale. Serse seguì il consiglio di Artemisia e tornò in Persia, lasciando il comando a Mardonio che sarebbe stato definitivamente sconfitto a Platea dalla coalizione greca guidata da Pausania. Il re dei re ricompensò Artemisia con una armatura greca per il coraggio dimostrato e la inviò ad Efeso a prendersi cura dei suoi figli illegittimi.
Le fonti antiche non registrano altre notizie su Artemisia, se non una leggenda tarda, riportata da Fozio, secondo la quale si sarebbe gettata in mare dalla rocca di Leucade per essere stata respinta da un uomo chiamato Dardano.
Le succedette sul trono di Caria il figlio Pisindeli, a sua volta padre di Ligdami II, il re che era al potere quando Erodoto, che era originario di Alicarnasso, lasciò la città per recarsi a Samo.

Nella cultura di massa
Artemisia I di Caria è interpretata dall'attrice di Guernsey Anne Wakefield nel film L'eroe di Sparta (The 300 Spartans) del 1962 e dall'attrice francese Eva Green nel film 300 - L'alba di un impero del 2014.


sabato 21 giugno 2014

Zen Nippon Kendō Renmei Iai

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Lo Zen Nippon Kendō Renmei Iai (全日本剣道連盟居合 zen nihon kendō renmei iai ), o più comunemente solo Seitei Iai (制定 居合 seitei iai), è lo stile di iaidō ufficiale della All Japan Kendo Federation.
Nel 1969 l'AJKF codificò per la prima volta sette forme di iaidō scelte tra le maggiori scuole tradizionali koryū (古流 koryū ) di kenjutsu, kendō, iaijutsu e iaidō, sintetizzandole in un unico kata. Nel 1976 ci fu una rivisitazione generale del kata ad opera della commissione tecnica, e nel 1980 furono aggiunte altre tre forme. Infine, il 2 dicembre 2000 furono aggiunte le ultime due forme che unite alle precedenti, formano le attuali dodici forme del kata seitei-iai.
Nel seitei quindi è evidente l'influenza predominante della Musō Jikiden Eishin-ryū, della Musō Shinden-ryū e della Hoki-ryū, motivi per cui il seitei si presta come ottimo strumento valutativo degli iaidōka ai fini sia dello studio dello iaidō che dei passaggi di grado.

Composizione del kata
Il seitei iai si divide in tre serie:
  • Seiza-no-bu
  1. Mae ( Di fronte)
  1. Ushiro (後ろ Dietro)
  2. Ukenagashi (受け流し Ricevere, deviare e tagliare)
  • Iai-hiza-no-bu
  1. Tsuka-ate (柄当て Colpire con l'impugnatura)
  • Tachiai-no-bu
  1. Kesa-giri (袈裟切り Taglio diagonale)
  2. Morote-zuki (諸手突き Colpo a due mani)
  3. Sanpō-giri (三方切り Taglio in tre direzioni)
  4. Ganmen-ate (顔面当て Colpo al volto)
  5. Soete-zuki (添え手突き Affondo a mani unite)
  6. Shihō-giri (四方切り Taglio in quattro direzioni)
  7. Sō-giri (総切り Tagli completi)
  8. Nukiuchi (抜き打ち Estrazione improvvisa)



venerdì 20 giugno 2014

Beauceant

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Il Beauceant (anche Baucéans, Bassant, Beauséant, Baussant) era il vessillo dei cavalieri Templari, formalmente una bandiera o scudo, anche detto gonfalone baussant.

Etimologia
Si tratta di uno stendardo bipartito, ossia diviso in due parti simmetriche, una bianca ed una nera, caratteristica da cui deriverebbe il suo nome, secondo quanto attribuitogli da Frédéric Godefroy nel suo "Dictionnaire de l'ancienne langue française et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle".
Stando invece all'interpretazione di Oddvar Olsen in “The Temple Antiquities: the Templar papers II, Vol.2 “il termine deriverebbe dal provenzale bausan, a sua volta derivato dall'italiano balza, che significa bordo, fascia. La balzana in araldica indica infatti uno scudo o stemma bipartito orizzontalmente.
Potrebbe poi derivare dal termine provenzale balzan, che si riferisce ad una particolare tipologia di cavallo dal manto nero, avente macchie bianche sugli arti (detto appunto cavallo balzano in italiano).
Un'ulteriore interpretazione dell'etimologia del termine ci viene fornita dal motto che appariva sullo stendardo: "Vaucent" (dal francese vaut cent, in italiano vale cento), adottato come simbolo del valore e del coraggio di questi fieri cavalieri. «Portavano i Templari uno stendardo bianco e nero nel quale era scritto questo motto, Vaucent, che nell'italiana lingua suona val cento, volendo accennare al fatto che ognuno di loro armato di fede ed aiutato dalla favore divino valeva cento dei nemici ed infedeli. E dietro a questo stendardo andavano i Templari cantando quel verso dal salmista: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam'' (“Non a noi, o Signore, ma al tuo nome dà gloria”. Il testo è la traduzione dei versetti del Salmo 113.9 Antica Vulgata della Bibbia o del Salmo 115.1 numerazione ebraica). Fu forse quello stendardo evidente presagio di ciò ch' esser doveva di quella militia» [...] Historia della sacra religione et illustrissima militia di S. Giovanni Gierosolimitano di Giacomo Bosio.
Secondo l'interpretazione di Jacques de Vitry, storico dell'epoca e Vescovo di San Giovanni d'Acri, i Templari erano «dei leoni in guerra, degli agnelli in pace», concetto che si rispecchierebbe nella scelta dei colori del loro vessillo: il nero a simbolizzare la ferocia dei Templari verso i loro nemici, mentre il bianco a rappresentarne la benevolenza per gli amici.

Colori e forma
Disparate sono anche le versioni del vessillo, molto probabilmente dovute a successivi adattamenti avvenuti nel tempo: nella "Chronica Majora" del monaco benedettino e storico Matthew Paris lo si descrive d'argento con estremità superiore nera; Giancarlo Pucci nel suo "L'ordine del Tempio: storia e condanna dei templari" ci ricorda che «nel 1130 Baldovino II vide arrivare Hugues de Payns preceduto dallo stendardo il Beauceant partito di bianco e nero»; in uno degli affreschi del XIII secolo della chiesa di San Bevignate a Perugia (vedi Complesso Templare di San Bevignate) possiamo tutt'oggi apprezzarlo come uno spaccato nero e bianco, con croce patente a cavallo delle due porzioni. Lo stesso Jacques de Vitry menziona le “gonfanon baucent” ed il “Baucent” adornati dalla croce vermiglia dei cavalieri. Cronisti dell'epoca si sbizzarriscono nel rappresentarlo come orifiamma o pennone, che veniva portato sulla punta delle lance, avente forma di lunga fiamma a 3 code interamente bianca e provvista di una croce patente rossa, oppure come semplice vessillo a 2 punte diviso “per fesse” ovvero orizzontalmente.
Quel che è certo è che nella Regola dell'Ordine del tempio, approvata nel 1129 durante il Concilio di Troyes, non ci sono riferimenti alla croce, mentre la troviamo menzionata nella bolla pontificia “Omne datum optimum” emanata da Papa Innocenzo II nel 1139 e sappiamo che nel 1147 papa Eugenio III concesse ai Templari l'uso della croce patente.
A proposito di interpretazioni e colori, Robert Macoy in "History of the Knight Templars" ci fa notare quanto sia interessante il parallelo con il simbolismo metaforico orientale. Durante le guerre Saracene venivano esposte in sequenza: il primo giorno la bandiera bianca, ad indicare che il nemico doveva arrendersi, quella rossa il secondo giorno, a simbolizzare il sangue di pochi, quella nera il terzo giorno, che significa la distruzione universale.
Pur sorvolando le possibili influenze arabe, non dobbiamo dimenticarci che i Templari erano dei monaci tanto quanto dei cavalieri e nel simbolismo tradizionale i colori bianco e nero rappresentano l'aspetto spirituale e quello temporale del loro mandato, la duplicità insita nella natura dell'Ordine, monastico e guerriero, oltre all'ovvia interpretazione dualistica del bene contro il male, del cielo e della terra, della luce e delle tenebre. «E su tutti una croce, rossa come il sangue, cha esprime la prontezza al martirio e indica la loro appartenenza».
Per completezza citiamo infine le congetture in merito alle influenze esoteriche ed occultiste ravvisabili secondo alcuni storici nelle filosofie templari, influenze che porterebbero ad interpretare lo schema di colori bianco e nero quali rappresentazione delle due forze cosmiche opposte e complementari in costante dinamismo.

Utilizzo
La Regola detta che in tempi di pace questo emblema militare veniva custodito nella residenza del Maestro, mentre in guerra doveva essere difeso da fratelli-cavalieri, fino ad un numero di 10. Questi dovevano proteggerla al meglio delle loro possibilità, non dovendo ciascuno di essi abbandonare il gonfalone per alcuna ragione; perderlo o lasciarlo cadere nelle mani del nemico veniva considerato come un disonore che avrebbe esposto il cavaliere ad una severa punizione, che poteva arrivare fino all'esclusione dall'ordine.
Il portatore dell'insegna (gonfaloniere, vessillifero o Balcanifer), era una carica di responsabilità eletta fra i sergenti dal Siniscalco o dal Maresciallo.
Uno degli scopi pratici principali del Beauceant era indicare il punto di raduno dei Templari sul campo di battaglia ma il drappo, oltre che insegna che accompagna i cavalieri in guerra, assunse il significato simbolico di legittimazione per mandato celeste, comandamento Donato, che conduce alla vittoria e permette di distruggere le forze negative. Di ritorno dal campo il vessillo tornava a sventolare sulla tenda del Maestro. Stando a quanto riportato da C.G. Addison il Beauceant venne utilizzato per la prima volta nel 1146 allorché i Templari si prepararono ad attaccare Damasco. In questa occasione il maestro del tempio Everad des Barres accompagnò Luigi VII di Francia nella seconda crociata, ma sfortunatamente non cita la fonte da cui trae l'informazione.


giovedì 19 giugno 2014

Cintura nera a 101 anni Karate Kid è una nonna

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Basta, finiamola con la solita minestrina di nonna Papera che cuoce crostate a Qui, Quo, Qua, perché oggi, anche sotto il canuto crine, le donne chiedono la loro riscossa. 

Maria Rossi, bergamasca, si mangia Angelina Jolie e la sua intrepida Lara Croft come se fosse un'albicocca in composta. Nel corso di un sonoro incontro la stenderebbe con una mossa di karate, in una sfida da far impallidire un film fantasy, visto che la signora ha 101 anni. Il 6 agosto scorso, ricorrente il suo ultracentenario genetliaco, Maria Rossi ha preso la sacca sportiva, è andata nella vicina palestra di Briolo, si è cambiata nello spogliatoio da sola e si è presentata in kimono bianco sul tatami, mettendo alla prova un nugolo di Qui, Quo, Qua tra i 6 e i 15 anni.
«È stato il mio compleanno migliore. Ho sfogato la lazzarona che è in me» racconta con una sonora risata. La piccola ricamatrice, che per l'intera femminea quanto composta esistenza ha puntato innocenti margherite e leggiadri amorini sui corredi delle spose, ha atteso un secolo vero per realizzare il suo sogno: diventare cintura nera di karate, conferitale ad honorem dal maestro Luigi Strazzullo e dal suo nido di allievi, che messi tutti insieme non arrivano ai suoi 101 anni.
È trascorso un ventennio sotto il bergamasco Ponte San Pietro, Comune di cui Briolo è quartiere, da quando Maria ammirava la sua unica figlia, Marisa, mentre si allenava nella disciplina giapponese che la incantò, ma che non poteva praticare perché troppo presa a puntare l'ago per decorare sugli abitini dei bebè, che nel frattempo le sue spose avevano sfornato, fiocchetti e nontiscordardime. «Ne avevo abbastanza di colorini azzurri e rosa. A me interessava la cintura nera». Così dopo alcune mosse di age - uke, parata alta, e soto - uke, parata media, eseguite con perfetta abilità motoria, il 6 agosto l'arzilla bergamasca si è legata la fascia nera alla vita, pensando: «Nero, altro che segno di lutto, segno di forza, visto che voglio arrivare a 120 anni».
E non ha speso un euro per allenarsi. Fino a pochi anni fa faceva quattro chilometri in bicicletta per andare a portare i fiori al defunto consorte sulla tomba di Brembate di Sopra, ma, quando la figlia Marisa e il genero Vittorio hanno iniziato a preoccuparsi, si è fatta regalare una cyclette su cui sale tutte le mattine, avvertendo con spiccata metafora: «Vado fino a Brembate di Sopra». La cyclette le piace, forse perché non la costringe a incontrare il medico del paese che, avendola vista una volta in bici, la fermò per dirle: «Signora, lei è una mia paziente ma non ci siamo mai conosciuti». Maria ha pensato «per fortuna!», visto che non ha mai preso medicine, se non una pastiglietta per la pressione alta che ora, fiduciosa dell'effetto del karate, ha intenzione di interrompere.
Nella casa di Vittorio e Marisa trascorre una vita serena. Cucina, non crostate perché non ha nipoti, così non ha neppure il problema di sentirsi definire «nonna», ma soprattutto legge. Scorre gli occhi di un azzurro stoviglia, senza occhiali, sulle pagine delle vite dei Santi, perché a lei piacciono le biografie di quegli uomini e donne che hanno provato a tirare a karate con l'Altissimo per metterlo al tappeto. Ogni tanto il postino suona, una volta, e Maria dice, benché l'udito l'abbia un po' tradita: «Ah, saranno i libri che ho ordinato», ovviamente all'insaputa di tutti, perché i suoi 101 anni sono l'orgoglio di una presa di karate che vuol dire: «Grazie, mi difendo da sola».

mercoledì 18 giugno 2014

Budō







Il Budō (武道) è la via marziale giapponese. Il termine è composto dagli ideogrammi kanji bu () e (), che si possono tradurre come "Via marziale", "Via della guerra", oppure "Via che conduce alla pace", "Via che conduce alla cessazione della guerra attraverso il disarmo".
Infatti l'ideogramma "bu" è internamente composto dai due ideogrammi, hoko () e tomeru () che nella lingua giapponese significano:
  • hoko (): lancia, alabarda
  • tomeru (): fermare, arrestare, lasciare, cessare
Da cui bu () nella lingua e nello spirito della tradizione giapponese, significa letteralmente "fermare, arrestare, lasciare le lance". L'ideogramma () significa letteralmente "ciò che conduce" nel senso di "disciplina" vista come "percorso", "via", "cammino", non in senso fisico ma piuttosto etico e morale. Uscendo dal significato strettamente letterale, il termine "lance" assume il significato più ampio di "armi" e quindi quello traslato di "guerra" o "combattimento", mentre il termine "fermare" assume il significato traslato di "cessare". Nella concezione della tradizione marziale giapponese, quindi, il significato del termine bu implica quello di "abbandono delle armi" e quindi di "disarmo" e non di "guerra".
In contrasto con l'aura di antichità di cui il budō è circonfuso, la sua disciplina marziale è uno dei tanti esempi moderni di tradizione inventata. La stessa accezione del termine risale all'ultima decade del XIX secolo
.

L'aspirazione etica e sociale del budō

Il concetto che tale termine vuole esprimere è dunque quello di realizzare, attraverso la pratica di una disciplina marziale molto particolare fondata sul "principio di non-resistenza", l'elevata aspirazione del budō consistente nella cessazione del combattimento e quindi delle ostilità mediante una condizione di disarmo dell'avversario e di sé stessi.
«Le arti marziali giapponesi sono state tramandate fino ad oggi mantenendo inalterata la loro caratteristica principale, che risiede nel fine ultimo di far progredire lo spirito, attraverso il rafforzamento fisico del corpo e l'apprendimento della tecnica. Di conseguenza, l'approccio con l'avversario deve essere dettato non da ostilità, ma piuttosto da un senso di rispetto e di gratitudine: a conclusione di un combattimento in cui ognuno ha dato prova delle proprie capacità senza risparmiarsi, nasce spontaneo il desiderio di un ringraziamento che riconosca all'avversario tutto il suo valore.
Ecco dunque che, infine, si può aspiarare alla costruzione di una società pacifica in cui valorizzare se stessi e gli altri.»
(Masajūrō Shiokawa, Presidente della Fondazione Nippon Budōkan, 2005)



Il termine segue l'evoluzione che il concetto di "arte marziale" ha subito nella cultura giapponese attraverso il tempo, passando dall'originale concetto del bujutsu (武術) a quello attuale del budō (武道). Da notare come comunque l'evoluzione consista principalmente nella trasformazione da jutsu ( "arte") a ( "via").
Il bujutsu (武術) era l'apprendimento di diverse tecniche marziali che consentivano di vincere il nemico in battaglia, difendersi dalle aggressioni, offrire i propri servigi ad una signore ed aumentare il proprio potere personale. Le armi usate erano molto varie: spada, arco, lancia, bastone, catena, coltello fino ad oggetti apparentemente innocui come il ventaglio o la pipa. Quando il bujutsu assume come fine non più la tecnica ma l'educazione etica e morale, esso diventa la via da perseguire per la formazione di uomini di valore, e si parla quindi di budō (武道).
In Giappone questa rielaborazione e modernizzazione della tradizione militare feudale avvenne principalmente dopo la Restaurazione Meiji, fino a tutta la prima metà del XX secolo.
La concezione tecnica e spirituale coesistevano già in epoca feudale anche se a prevalere era l'abilità tecnica che rappresentava l'unico strumento di sopravvivenza ai veri combattimenti del tempo. In epoca moderna la necessità di difendere la propria vita in duello non ha più motivo di esistere e quindi l'attenzione si rivolge ai principî etici e alla tradizione che caratterizzano appunto il budō (武道).


Statuto del Budō

Lo Statuto del Budō (武道憲章 budō kenshō) è un documento approvato il 23 aprile 1987 dal Nippon Budō Kyūgikai che esplica sinteticamente lo spirito del budō tradizionale ad uso delle popolazioni occidentali.
  1. Obiettivo. Il budō si pone come obiettivo di coltivare il carattere, migliorare la capacità di giudizio e formare individui di valore, attraverso l'addestramento di mente e corpo con le tecniche marziali.
  2. Pratica. Durante la pratica bisogna sempre rispettare l'etichetta (礼法 reihō), osservare i principî fondamentali ed allenare mente, tecnica, e corpo come un tutt'uno, senza perseguire mere abilità tecniche.
  3. Competizione. In occasione di competizioni o esibizioni di kata, si metterà in mostra con il massimo impegno lo spirito del budō appreso nel lungo addestramento e, al contempo, si manterrà sempre un atteggiamento misurato, senza arroganza in caso di vittoria né rimpianto in caso di sconfitta.
  4. Dōjō. Il dōjō (礼法 dōjō) è il luogo in cui si addestrano la mente e il corpo. Vi si rispettano la disciplina e l'etichetta, si osservano i principî di silenzio, pulizia e sicurezza, ci si impegna a mantenere la solennità dell'ambiente.
  5. Insegnamento. L'istruttore dovrà sempre sforzarsi di forgiare i caratteri, impegnarsi ad addestrare mente e corpo, continuare ad approfondire le conoscenze tecniche, non consentire che l'attenzione si focalizzi su vittorie e sconfitte o sulla tecnica, e soprattutto mantenere un comportamento adeguato al ruolo di modello, che egli ricopre.
  6. Diffusione. Quando si promuove il budō bisogna valorizzarne i principî tradizionali, contribuire alla ricerca ed al consolidamento della didattica, ponendosi in un'ottica internazionale, e contemporaneamente impegnarsi per il suo sviluppo.

Gradi

Come in tutte le arti marziali esiste una suddivisione di chi la pratica a seconda della bravura e dell'esperienza. I vari livelli del Budō sono:
  • Shihan, così vengono chiamati gli istruttori particolarmente esperti, che hanno raggiunto il livello più alto;
  • Shidōin, è così definito un istruttore ufficiale di livello intermedio;





martedì 17 giugno 2014

Ki (filosofia)


Il termine cinese qi, in giapponese ki o anche ci in coreano (forma più antica) è il nome dato all'energia "interna" del corpo umano ricorrente in tutte le aree soggette all'influenza culturale cinese (Giappone, Corea) ma spazia da ambiti prettamente filosofici alle arti marziali o la medicina tradizionale cinese fino alla Geomanzia, Idraulica, Pittura, Calligrafia e poetica. La pronuncia in italiano è "ci".
In particolare il termine sinogiapponese Ki è l'elemento centrale costitutivo del vocabolo giapponese Aikido 合気道 (scritto in kanji) od anche 合氣道 (usando la grafia non semplificata), di cui il termine Ki costituisce il concetto essenziale.
"il ch'i al mattino è fresco, a mezzogiorno è stanco, a sera è esaurito, un abile generale evita chi ha un ch'i fresco ed attacca chi ha ormai un ch'i stanco ed esaurito. Questa è l'arte di padroneggiare il chi'i" - Sun Tsu


Traslitterazione

Il termine Ki è presente sia nella lingua giapponese che in quella cinese. Dato che queste lingue condividono in parte il sistema di scrittura ma il giapponese utilizza pronunce adattate dei termini cinesi, le traslitterazioni nell'alfabeto latino non sempre risultano univoche. La traslitterazione dal giapponese è quindi Ki, secondo il sistema Hepburn, mentre dal cinese esistono due possibili traslitterazioni in uso: la prima segue il metodo Wade-Giles ed è C'hi, la seconda segue il metodo Pinyin ed è .


Storia del Ki

Il concetto orientale di KI è di difficile definizione.
In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall'instaurarsi della cultura cinese. Il KI esprime il concetto delle energie fondamentali dell'universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nell'antica Cina, poiché era visto come la forza che originava tutte le funzioni fisiche e psicologiche, il concetto di KI venne ampiamente utilizzato nella medicina tradizionale cinese, nelle arti marziali ed in molti altri aspetti della vita. Il concetto di KI fu utilizzato per determinare il massimo livello della forza dei soldati, per scegliere in base a ciò il movimento militare idoneo. In seguito, lo studio dei KI divenne una forma di pratica di predizione del destino, mediante l'abilità dell'indovino di leggere il KI di un individuo.
Nella cultura tradizionale induista il termine con significato corrispondente è il vocabolo sanscrito Prana.
Nella cultura tradizionale occidentale, il significato del termine latino spiritus di cui il vocabolo Ki è termine equivalente, traduce la parola greca πνευμα (pneuma, il soffio vivificatore) da πνειν (soffiare) e questa a sua volta traduce la voce ebraica rû:ăћ (accento sulla u e suono gutturale aspirato finale). La rû:ăћ ebraica (che a differenza degli altri termini è invece un sostantivo femminile), in relazione all'ambito della natura indicava il soffio del vento, in relazione all'ambito di Dio significava la sua forza di creare la vita e di imprimere un senso alla storia, in relazione all'ambito dell’Uomo ne indicava non solo il suo essere vivo, ma anche il suo respiro ed il suo alito.


Il KI nella filosofia

La possibile traduzione dell'ideogramma KI, è Essenza Individuale, cioè quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri. Secondo una interpretazione spirituale o filosofica potremmo parlare di Anima, di Microcosmo, di Coscienza, di Psiche oppure più concretamente di Personalità, Individualità, Carattere, Identità. Ciò che importa stabilire ora è l'esistenza di una energia che muove dall'interno del nostro corpo (inteso come sistema Mente/Corpo) e gli permette di interagire con la realtà. La cellula è l'unità fondamentale della materia vivente, il suo cuore è il nucleo, il suo corpo è la membrana citoplasmatica. La membrana plasmatica non è solamente una barriera passiva tra l'ambiente esterno e quello interno della cellula, ma è capace di governare il passaggio delle sostanze che l'attraversano. Durante lo sviluppo dell'organismo, sono le cellule che evolvendosi e specializzandosi formano i tessuti. La cellula consiste quindi dei componenti essenziali, necessari al processo vitale, in grado di fornire a tutto l'organismo energia e materiali di costruzione. Il complesso delle reazioni che generano energia è detto respirazione interna, per distinguerlo dalla respirazione polmonare. Crescita, rinnovamento e riparazione sono le caratteristiche fondamentali di ogni tipo di vita. Nell' essere umano esiste una memoria di un passato antichissimo, un collegamento con i primordi della vita ed esistono misteriose e segrete, le istruzioni per edificare l'intera vita. Le cellule sanno perfettamente quello che devono fare la crescita, la vita e la riproduzione. Questa conoscenza è una forma di energia, ed è in questo senso che si intende il KI, come energia ancestrale, primordiale, come memoria, saggezza e armonia interiori, collegamento a tutti gli esseri precedenti e conseguenti. Il Ki è l'essenza, il seme, il germe, il nucleo dove si condensa il significato della vita. Come la cellula conosce il proprio scopo, sa chi è e cosa deve fare e lavora instancabilmente per essere sé stessa, anche l'essere umano ha un preciso compito nella vita. Cercarlo, scoprirlo, comprenderlo e realizzarlo è la chiave della felicità.
Ki è quindi la Forza Vitale che scorre in ogni organismo vivente. In Sanscrito è conosciuta come Prana, nella Medicina tradizionale cinese si chiama Chi, e circola negli organi interni e nei meridiani generando i principali processi fisiologici come la respirazione, la digestione, la circolazione sanguigna e linfatica, la secrezione e l'escrezione. Nelle arti marziali indica la capacità di concentrare e dirigere il potere personale durante il combattimento, (Kumite). Le pratiche yogiche di respirazione o Pranayama mettono in condizione di accumulare l'energia all'interno del corpo, attraverso la meditazione, i mudra, i mantra possiamo interagire con il nostro equilibrio psicofisico.


Il Ki (qì) nelle arti marziali

«Nella pratica, quando il tuo avversario sferra un colpo, devi già essere in movimento. Dopo che l'hai visto muoversi, è già troppo tardi ed un falso movimento da parte tua è fuori luogo, perché il colpo del tuo avversario è quasi mortale. Muoversi simultaneamente con il colpo; si deve sentire l'intenzione dell'avversario. Ma, in realtà, non è questione di usare la mente, ci si deve muovere naturalmente, senza pensarci. Quando raggiungerai questo stato, riuscirai a muoverti simultaneamente con l'ordine. Se pensi troppo all'inizio del colpo dell'avversario, non ti renderai conto dei suoi movimenti. Solo quando la tua mente è tranquilla come una pozza d'acqua e sei fisicamente all'erta, potrai renderti conto dei movimenti dell'avversario e della sua respirazione naturale. In questo stato sentirai i cambiamenti di sentimento del tuo avversario»
(Morihei Ueshiba - Fondatore della disciplina dell'Aikido)



Il Ki di cui si tratta nella disciplina giapponese dell'Aikido, è rappresentato dall’ideogramma giapponese che, nei caratteri della scrittura kanji, raffigura il vapore che sale dal riso in cottura.
Nella disciplina dell'Aikido significa spirito, ma non nel significato che tale termine ha nella religione, bensì nel significato del vocabolo latino "spiritus", cioè soffio vitale ed energia vitale.
Il riso, nella tradizione giapponese, rappresenta il fondamento della nutrizione e quindi l'elemento del sostentamento in vita ed il vapore rappresenta l'energia sotto forma eterea e quindi quella particolare energia cosmica che spira ed aleggia in natura e che per l’Uomo è vitale. Il Ki è dunque anche l'energia cosmica che sostiene ogni cosa.
Nella disciplina dell'Aikido e più in generale nelle arti marziali giapponesi ed orientali, l'essere umano è vivo finché è percorso dal Ki dell'universo e lo veicola scambiandolo con la natura circostante: privato del Ki l'essere umano cessa di vivere e fisicamente si dissolve. Nella concezione delle arti marziali orientali, l'essere umano è pieno di vita, di coraggio, di energie fisiche ed interiori finché veicola il Ki in modo vigoroso attraverso il proprio corpo e lo scambio con la natura circostante è abbondante; quando invece nel suo corpo la carica vitale del Ki è carente, l'essere umano langue, è debole, codardo, rinunciatario.
Nella pratica della disciplina dell'Aikido 会氣道, ci si impegna per imparare a riempire il corpo con il Ki ed a veicolarlo energicamente; pertanto nell'Aikido 会氣道 è necessario comprendere bene la profonda natura del Ki ed imparare a riconoscerne le manifestazioni e gli effetti, i quali vanno sotto il nome di Kokyu.
Per estensione di significato il Ki può essere associato a quella che i fisici del XVIII e XIX secolo chiamavano vis viva (forza viva), ovvero una sorta di fluido attraverso il quale l'energia ha la possibilità di trasferirsi da un oggetto materiale ad un altro. Secondo le antiche credenze, attraverso la respirazione il Ki si accumula e riempie tutte le parti del corpo, ma viene emanato solo quando corpo e mente sono sereni e distesi.
Nell'aikido o nel taijiquan ogni gesto è un movimento di energia, nel Jūdō, nel ju jitsu non è importante la forza muscolare quanto l'abilità di gestire e direzionare il Ki.
Secondo una trattazione scientifica corrispondente alla mentalità occidentale, il Ki potrebbe essere inteso come l'energia interna di un corpo. Inoltre è auspicabile un'inversione di tendenza nell'ambito delle arti marziali nella trattazione del Ki, in quanto secondo la metodologia sperimentale adottata dalla scienza, spiegazioni esoteriche sono ritenute assolutamente incoerenti e inconsistenti e al massimo adatte ad un pubblico di creduloni.
La questione dell'armonia del Ki (o Ai-Ki) è un concetto orientale di una certa complessità. Si noti innanzitutto che tale questione è assolutamente diversa da quella di una mente (nel senso di Kokoro) salda e lucida, anche se entrambe si riconducono allo stesso principio: il miglior impiego dell'energia. Tale principio, enunciato e fermamente sostenuto da Jigoro Kano (Ki-Ai) fu concretamente realizzato da Morihei Ueshiba con la creazione dell'Aikido (termine composto dai vocaboli Ai-Ki-Do, ciascuno dei quali ha un suo proprio significato che, unito agli altri, genera un significato più complesso). Questa disciplina realizza l'Ai-Ki nella vita interiore dell'uomo e nella sua manifestazione esteriore: questa esteriorizzazione è denominata nella lingua giapponese con il termine Kokyu. La realizzazione dell'Ai-Ki è infatti la manifestazione di uno stato di totale controllo del corpo che vive ed agisce in perfetta armonia con le leggi naturali e cosmiche. Tuttavia, sebbene questo stato sia raggiungibile sotto il controllo dell'esercizio della volontarietà in modo relativamente facile, il requisito fondamentale dell'Ai-Ki è l'assoluta spontaneità ed istintualità dei propri movimenti, per quanto precisi essi siano. Le azioni passano dallo stato di consapevolezza volontaria a quello di libera istintualità e perciò si dice che la mente (sempre nel senso di Kokoro) è ricettiva e conforme ad adattarsi alle situazioni.
Nella disciplina dell'Aikido con il termine "istintualità" s'intende quell'istintività non naturale, cioè che nessuno possiede in modo innato e spontaneo, ma che un’abitudine frutto di un allenamento particolare può far penetrare nei meccanismi istintivi naturali e consolidarli ad essi, radicandoli nell’istinto naturale come se questi fossero stati conferiti insieme alla nascita. Per fare un esempio: sono reazioni istintuali le complesse reazioni istantanee fra di loro combinate ed armonicamente sincronizzate quali le azioni contemporaneamente esercitate su freno, frizione, cambio, acceleratore, volante, che quando siamo alla guida di un autoveicolo poniamo in essere in situazioni d’emergenza senza pensare ai gesti che compiamo, mentre il ritrarre istantaneamente la mano senza pensare e premeditare il gesto che si compie quando questa è scottata da una fiamma, questo è invece un gesto istintivo.
Secondo la tradizione orientale e specificamente delle arti marziali giapponesi, esistono tre sedi naturali in cui il Ki si localizza che nella lingua giapponese sono denominate "tanden" 丹田, le quali non sono però delle vere e proprie sedi fisiche, materiali, corporee, ma sono dei punti virtuali dove viene localizzata la cosiddetta "presenza mentale" del praticante e precisamente: il "Kikai Tanden" 気海丹田, la sede viscerale, il "Chudan Tanden" 中段丹田, la sede mediana ed il "Jodan Tanden" 上段丹田, la sede superiore.
Il Ki è l'energia vitale che percorre i centri vitali e li rende funzionali e capaci di svolgere il loro compito essenziale per il mantenimento in vita dell'essere umano.
Il Maestro Shingeru Egami (Shotokai) in un passaggio del suo libro Karate-Do Nyumon dice:
Il problema della mente è profondo. La sua elevazione ad uno stato superiore, l'allargamento e la purificazione di se stessi, sono le ultime cose da conseguire per mezzo della pratica. Si devono allenare mente e corpo, perché diversamente la pratica non ha senso. Tentando di pulire la vostra mente dalle impurità della vita quotidiana, per mezzo del contatto spirituale con gli altri. La mente ed il corpo sono simili a due ruote di un carro, nessuna delle due ha il predominio. Questa è la pratica autentica. Ottenere qualcosa di valore spirituale nella vita è vera pratica. Entrando in contatto fisico con gli altri, si entrerà anche in contatto spirituale. Nella vita quotidiana bisogna arrivare a conoscere le nostre relazioni con gli altri, come ognuno di noi influisca sugli altri e come le idee si possano scambiare. Si devono rispettare gli altri e pensare bene di loro. Le persone devono essere mentalmente aperte e rispettose del benessere e della felicità altrui. In un combattimento, quando riuscirete a trascendere dalla semplice pratica, riuscirete ad essere una cosa sola con il vostro avversario'.