venerdì 1 gennaio 2016

Fu Zhong Wen

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Fu Zhongwen (1903 – 1994) è stato un artista marziale cinese, maestro di taijiquan.
Alla giovane età di 9 anni divenne discepolo di Yang Chengfu (nipote di Yang Luchan, fondatore del taijiquan stile Yang) e successivamente un membro della famiglia Yang, avendo sposato Zou Kuei Cheng, pronipote di Yang Chien Hou.
Accompagnò il maestro Yang nei suoi viaggi per la Cina, da Wuhan a Canton: il maestro Yang Chengfu insegnava il taijiquan, e Fu Zhongwen eseguiva le dimostrazioni e spesso accettava le sfide di altri maestri di arti marziali, a quanto sembra, non fallendo mai. Alla morte del suo Maestro Yang Chengfu diviene la guida e il riferimento carismatico della Scuola Yang fino alla sua morte.
Nel 1944, Fu Zhongwen fondò l'associazione Yongnian Taiji, con l'intento di continuare l'opera del suo maestro nell'inseganmento e nella diffusione del taijiquan. Il motto dell'associazione è: Qin, Chen, Li, Heng (diligenza, sincerità, rispetto, perseveranza). L'associazione si è in seguito diffusa anche in Europa con l'allieva di Fu Zhongwen, Li Rong Mei (Italia e Svizzera) e con Fu Sheng Yuan (Spagna).

giovedì 31 dicembre 2015

Naginata

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Il naginata (なぎなた-薙刀) è un'arma inastata giapponese costituita da una lunga lama ricurva monofilare, più larga verso l'estremità, inastata grazie ad un lungo codolo su un'impugnatura di lunghezza variabile ma in genere più breve rispetto a quella della lancia in uso ai guerrieri (bushi) giapponesi, la yari. L'arma, per forma ed utilizzo, ricorda i "falcioni" del medioevo europeo.
Apparso nei campi di battaglia del Periodo Kamakura (1185-1333), durante l'Era Tokugawa il naginata divenne un'arma desueta in battaglia ma continuò ad essere utilizzata per il combattimento individuale e per la difesa degli edifici o delle dimore private. Probabilmente per questo il suo uso si diffuse specialmente tra le donne della classe militare, le buke, vere amministratrici della casa. L'arte marziale (detta naginata-do o naginatajutsu) che ne trasmette l'uso faceva comunque parte del bagaglio tecnico classico del guerriero (bujutsu) e nel budō moderno esistono alcuni stili indipendenti che ne tramandano una forma stilizzata analoga alla scherma kendō trattasi dell'Atarashii Naginata.
Un modello di arma simile al naginata ma con una lama pressoché dritta e spesso più lunga è detto nagamaki (letteralmente: "[lama con] inastamento lungo").

Storia

Origini

Il naginata è stato molto probabilmente sviluppato in Giappone a partire da un'arma cinese, il Guan dao, sorta di equivalente sinico del falcione in uso alle forze di fanteria dell'Europa medievale. Archetipo di partenza per la forma finale del naginata sarebbe stata la lancia hoko.
Identificare il momento esatto in cui l'arma fece la sua comparsa sui campi di battaglia giapponesi risulta ad oggi arduo. Il naginata viene tradizionalmente affiancato alla figura del Sōhei, il "monaco-guerriero"; conseguentemente, si ritiene che l'arma sia stata inventata durante gli anni di maggior potere di tale casta, il Periodo Nara (VIII secolo). In realtà, i primi dati certi sull'esistenza del naginata datano al 1146 (Periodo Heian) e la diffusione dell'arma può essere ritenuta compiuta solo nel medio Periodo Kamakura (1185-1333).
La menzione di armi a lama lunga, utilizzate per contrastare le cariche di cavalleria, nelle fonti del X e XII secolo, è con buona probabilità da riferirsi all'uso delle nodachi, le grandi spade (tachi) da campo. In queste fonti, infatti, il verbo utilizzato per descrivere l'atto dello sguainare l'arma è nuku, associato alla spada, invece che il verbo hazusu poi utilizzato per il naginata. Nulla però vieta di supporre che già nell'XI secolo fossero in uso le lance hoko da cui sarebbe poi derivato il naginata. L'accostamento naginata-sōhei è a sua volta poco chiaro. Se infatti il naginata appare quale parte della panoplia del monaco-guerriero nel materiale iconografico del XIV secolo, del pari l'arma figura anche nelle mani dei samurai che si oppongono ai monaci. Ciò nonostante, l'iconografia dei secoli successivi ricorse spesso alla raffigurazione del naginata per distinguere i monaci-guerrieri dai normali bushi nelle mischie.

Diffusione

Fu durante la Guerra Genpei (1180–1185) tra il Clan Taira ed il Clan Minamoto, guidato da Minamoto no Yoritomo, che il naginata dimostrò la sua efficacia sui campi di battaglia. L'aumentato utilizzo di forze di cavalleria valorizzò infatti l'uso, nella fanteria, di un'arma inastata capace di colpire il guerriero in sella e/o fermare la carica del cavallo. Proprio in questo periodo, l'armatura del bushi si arricchì degli schinieri (sune-ate) per prevenire i colpi portati dal basso verso il ventre del cavallo.
Causa la massiccia diffusione dell'archibugio (Tanegashima-teppō), il naginata cadde in disuso quale arma di battaglia nel corso del XVII secolo. Durante l'Era Tokugawa l'arma venne riconfigurata come arma da duello e come parte della panoplia dei bushi destinati alla difesa delle fortezze o degli edifici privati. Ciò nonostante, l'arte marziale che trasmetteva l'uso del naginata (detta naginata-do o naginatajutsu) restò parte integrante del bagaglio tecnico classico del guerriero, il bujutsu.
Importantissimo esito del riutilizzo in ambiente domestico del naginata fu il cambio dell'utenza cui l'arma era destinata. L'uso attivo del naginata passò dai bushi alle loro donne, le buke, cioè le vere amministratrici della casa. Sebbene non use al mestiere delle armi come i loro uomini, le donne dei samurai erano tenute a provvedere alla sicurezza propria e della dimora durante l'assenza del marito, del padre o dei figli. Arma inastata che permetteva di tenere l'avversario ad una distanza tale da vanificare, almeno in parte, squilibri dovuti a significative differenze di peso, altezza e forza, il naginata era ritenuta una delle armi migliori per le buke. Non a caso, il naginata figurava spesso nella dote della figlia di un samurai. I dati in nostro possesso ci hanno tramandato la memoria di donne-samurai particolarmente mortifere nell'uso del naginata, su tutte l'esempio di Hangaku Gozen che difese il Castello di Toeizakayama dall'assalto delle truppe del Clan Hōjō nel 1201.
Furono proprio delle donne guerriere le ultime a scendere in battaglia con dei naginata durante la Battaglia di Toba-Fushimi (1868) e durante le rivolte anti-Tokugawa nella provincia di Satsuma.
La rivalutazione propedeutico-educativa delle arti marziali giapponesi a seguito della Restaurazione Meiji fece sì che lo studio dell'uso del naginata divenisse attività scolastica per le giovani donne giapponesi sin dal 1912. Lo studio in ambito scolastico del naginata proseguì durante tutto il Periodo Shōwa (1926-1989), nonostante i rovesci della seconda guerra mondiale e l'occupazione del Giappone da parte degli Alleati. A partire dal 1950, lo studio tradizionale venne commutato nel Atarashii naginata (letteralmente il "nuovo naginata"), disciplina particolarmente dedita all'etichetta ed alla forma più che alla praticità marziale degli esercizi. Ciò nonostante, sopravvissero scuole più tradizionali di naginatajutsu, alcune delle quali hanno ad oggi rappresentanze ufficiali al di fuori del territorio giapponese: Araki Ryu, Tendo Ryu, Jikishinkage Ryu, Higo Koryu, Tenshin Shoden Katori Shinto Ryu, Toda-ha Buko Ryu e Yoshin Ryu. Si stima la presenza di circa 200 praticanti di naginatajutsu nel territorio degli Stati Uniti d'America.

Famosi utilizzatori di naginata

  • Tomoe Gozen, concubina di Minamoto no Yoshinaka (XII secolo);
  • Hangaku Gozen, morta nel 1201 mentre difendeva il Castello di Toeizakayama durante la Rivolta Kennin;
  • Saitō Musashibō Benkei (1155-1189), leggendario sōhei poi al servizio di Minamoto no Yoshitsune nella Guerra Genpei;
  • Nakano Takeko, (1847-1868), ultima famosa donna-samurai che combatté e perì nella Guerra Boshin.

Costruzione

Il naginata, come molte armi, era spesso costruito su misura per colui che lo doveva brandire. L'impugnatura era solitamente alta quanto l'utilizzatore (in media 150 cm ma alcuni naginata superavano i due metri) ed a sezione romboidale, onde facilitare l'orientamento della lama. La lama misurava 2 o 3 shaku (60–90 cm) era ricurva, in modo particolare al vertice. Come la lama del katana, la lama del naginata era composta da acciaio forgiato con differenti gradi di durezza tra il dorso ed il filo onde coniugare capacità di taglio e di resistenza all'urto. Molte lame di naginata erano lame di katana riciclate. Per controbilanciare la lama, il naginata montava, all'estremità opposta dell'asta, un calzuolo metallico spesso a forma di spillo, lo ishizuki.
Si distinguono tre varianti del naginata:
  • Kozori a lama molto ricurva;
  • Hirumaki con guardia a protezione della mano avanzata (tsuba) e lama di katana;
  • Bisen tō a lama corta e spessa; arma utilizzata dai ninja e dagli agricoltori.

mercoledì 30 dicembre 2015

Devi

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Devī (Devanagari देवी) è un vocabolo sanscrito che significa "Colei che risplende", termine adoperato per indicare una divinità femminile.


Generalità storiche

(EN)
«The history of the Hindu tradition can be seen as a reemergence of the feminine.»
(IT)
«La storia delle tradizioni hindu può essere vista come il riemergere del femminino.»
(C. Mackenzie Brown, The triumph of Goddess, New York, 1990)



Sin dall'epoca vedica nell'Induismo sono menzionate molte dee, quali per esempio Umā, Vāc, Aditī, Sarasvatī, per citare le più importanti. Queste dee non avevano però una funzione rilevante né svolgevano alcun ruolo nel sacrificio, e solo alcune di queste sono sopravvissute nell'Induismo posteriore. Non c'è traccia, inoltre, nella cultura vedica, di una «Grande Dea».
È successivamente, nell'epoca medioevale, coi Purāṇa (le narrazioni mitologiche), con la letteratura epica e soprattutto col diffondersi degli elementi tantrici, che il culto delle Dee assume proporzioni considerevoli e si assiste a una graduale assimilazione nella cultura brahmanica. Questo pluralismo di divinità non deve però trarre in inganno, perché, come recita un detto popolare hindu:
(SA)
« ek hi mātā hain »
(IT)
« Tutte le Madri sono solo Una »
(citato in André Padoux, Tantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011; pag. 81)
Gli hindu considerano tutte le dee come manifestazione di un'unica Grande Dea (Mahā Devī). La Dea è chiamata "Madre": Mātā, , Mātāji nell'India settentrionale, Amma nelle lingue dravidiche del Sud.
Se le statuette in terracotta ritrovate a Mohenjo-daro, Merghar e Sheri Khan, le città principali della valle dell'Indo, sono interpretabili come la testimonianza di un culto rivolto alla Grande Madre, allora l'attuale devozione alla "Madre", sviluppatasi successivamente all'epoca vedica, può essere vista un rinascere di quel culto che gli Ari non avevano e molto probabilmente ostacolavano.

Le tradizioni principali

Gavin Flood distingue tre tradizioni di culto della Dea:
  • Le dee di villaggio
  • Le dee puraniche
  • Le dee tantriche
culti che certamente si sono influenzati a vicenda nel corso del tempo.

Le dee di villaggio

Le dee di villaggio risalgono molto probabilmente ad antichi culti del popolo dei Dravida, la cui cultura si sviluppò dopo il III millennio. Sono dee associate a singole località, spesso adorate in forma aniconica, che accettano offerte sia vegetali sia animali, spesso anche alcool e sostanze organiche come il sangue (sostanze considerate impure dai culti brahmanici). Non poche di queste dee rappresentano malattie particolari. Alcune hanno poi avuto una diffusione più ampia, come per esempio Sītalā, dea del vaiolo, venerata in tutta l'India settentrionale.

Le dee puraniche

Poche sono le dee vediche sopravvissute nelle epoche successive, e senz'altro queste hanno poi inglobato contenuti non vedici, oppure sono state identificate con altre dee: è il caso di Vāc, dea della Parola, assimilata in Sarasvatī. Sarasvatī e Lakṣmī, dee già presenti negli inni del Ṛgveda, sono, fra le dee vediche, quelle attualmente più note e venerate. Nei Veda Sarasvatī ("colei che scorre") era una divinità fluviale, è solo successivamente che diventa Dea del Sapere e della Musica, nonché sposa di Brahmā. Anche il culto di Lakṣmī, consorte di Viṣṇu e Dea della Ricchezza e della Fortuna, si è sviluppato nell'epoca puranica, finendo per assimilare anche quello di Śrī ("luminosa").
A partire dal VI secolo CE circa, in epoca medievale quindi, il culto di dee menzionate nelle tradizioni narrative dei Purāṇa era già diffuso in tutta l'India. A Mamallapuram, nel Tamil Nadu, in un tempio risalente al VII secolo vi è rappresentata Durgā mentre uccide il bufalo Mahiṣāsura. Il culto di Kālī sembra invece successivo. Il Mārkaṇḍeya Purāṇa, risalente al V-VII secolo, è un testo ancora molto popolare; uno degli inni, il Devīmāhātmya, è tuttora recitato durante una delle più grandi feste dedicate a Durgā, la Durgā-pūjā. La Dea vi è descritta come realtà ultima e come Mahāmāyā, la Grande Illusione. In un testo successivo, il Devībhāgavata Purāṇa, la Dea è origine assoluta del cosmo, controlla Viṣṇu mediante la sua capacità di indurre il sonno e non è seconda a nessun dio.

Le dee tantriche

Nel culto tantrico della Dea, o tantrismo śākta, si possono distinguere due categorie, o insiemi di tradizioni, facenti rispettivamente capo ai testi Tantra dello śrīkula e a quelli del kālīkula, la prima più vicina all'ortoprassi brahmanica, la seconda che se ne discosta notevolmente.

Śrīkula

Nelle tradizioni dello śrīkula ("della dea fausta") una delle dee più note è la Dea Tripurasundarī ("la bellissima delle tre città"), una forma tantrica delle dee Śrī e Lakṣmī. La tradizione corrispondente è denominata anche śrī-vidyā, e sebbene abbia avuto origine nel Kashmir ebbe maggior diffusione nell'India meridionale.
La Dea è l'assoluto che trascende tutto e, al contempo, il cosmo stesso è una sua manifestazione. Al termine di ogni ciclo dell'universo, la Dea riassorbe il cosmo. Questa ciclicità è vista come espressione e contrazione del suono originale, l'Oṃ, simbolo di energia e coscienza, come manifestazione della Parola.
Connessa a questa visione del cosmo è quella del corpo umano, manifestazione di un corpo supremo, o causale, la cui origine è nella Dea. Nella sua esistenza cosmica, il singolo essere è soggetto a reincarnarsi, cosa che non gli consente di ritornare alla Dea. La salvezza è possibile riconoscendo in sé stessi la presenza della Dea, che usualmente giace inattiva, l'energia dormiente detta Kuṇḍalinī ("avvolta"). Attraverso una serie di tecniche e riti, la Kuṇḍalinī viene attivata e drizzata, e condotta a unirsi all'altro aspetto del divino, Śiva. I metodi sono quelli dello Hatha Yoga classico.

Kālīkula

Sono le tradizioni della Dea Nera, con riferimento a Kālī, il cui culto si affermò con probabilità intorno al VII-VIII secolo CE, culto centrale della religione śaiva del Kashmir. Fanno parte di queste tradizioni numerose dee, come Kubjikā ("la curva") per esempio, la dea gobba e vecchia; o Chinnamastā ("la decapitata"), che si presenta con la propria testa in mano mentre dal collo zampilla il sangue; o le "sette madri", le saptamātṛkā, dee ambigue, associate con l'alfabeto sanscrito, che da un lato cacciano i demoni, dall'altro divorano bambini: tutte dee usualmente caratterizzate da un'iconografia feroce e da una mitologia aggressiva, al contrario di quanto è nello Śrīkula. È l'altro aspetto della Dea che qui prevale: da un lato, nella precedente tradizione, Ella è materna, generosa, anche bella, dispensa beatitudine e abbondanza; dall'altro è aggressiva, sgraziata, pretende offerte di sangue. Altra differenza è nel rapporto col maschile: generalmente le dee dello Śrīkula, e quelle puraniche, sono consorti sottomesse ai rispettivi mariti: Pārvatī e Śiva, Lakṣmī e Viṣṇu, Sarasvatī e Brahmā, Rādhā e Kṛṣṇa. Le dee del Kālīkula sono invece, in genere, indipendenti. Tripurasundarī è un po' un'eccezione: al contempo bella e generosa, ma comunque indipendente.
Le pratiche di questa tradizione prevedono sostanze considerate impure nel brahmanesimo, come alcool e sangue; adottano sacrifici cruenti e riti macabri, come l'offerta agli sciacalli, considerati manifestazioni di Kālī; fanno uso dell'unione sessuale, effettiva o simbolica, quale simbolo del congiungimento di Śiva e Śakti.


La Dea e il Dio

Nei culti dell'Induismo, una singola Dea è spesso considerata personificazione di śakti, l'energia creatrice e immanente del Dio (e questo vale per più di una divinità maschile), e in quanto tale i due termini, Śakti e Devī, sono anche considerati sinonimi.
Questa relazione fra il Dio e la Dea, fra il possessore della potenza creatrice e la potenza stessa, fra ciò che è trascendente e ciò che è immanente, relazione che sussiste sul piano metafisico, trova poi corrispondenza nelle rispettive personificazioni: la Dea diventa allora la compagna del Dio (con poche eccezioni, ogni Dio del pantheon induista ha una compagna); è il suo aspetto femminile senza il quale quello maschile si ritrova incompleto; è l'interceditrice:
«È la dea a permettere la realizzazione dell'opera creatrice. È ancora la dea a controllare l'immaginazione del dio, la sua follia creatrice o distruttrice. [...] È a lei che bisogna rivolgersi.»
(Alain Daniélou, Śiva e Dioniso, traduzione di Augusto Menzio, Ubaldini Editore, 1980; pag. 72)



Le principali dee

«Come Śiva, la Dea incarna il paradosso e l'ambiguità: ella è sensuale ma distaccata, dolce ed eroica, bella e terribile. Poiché è sia l'energia che rende schiavi sia quella che libera, la Dea è la Śakti, ossia l'energia e il potere di Śiva.»
(Gavin Flood, L'induismo, Op. Cit., p. 241)
Il culto della Dea è molto sentito in non poche delle tradizioni hindu. È venerata in molte forme e in vari modi: benevola coi nomi di Pārvatī, Lalitā e altri, terrifica e distruttiva coi nomi di Durgā, Kālī e altri. Elenco delle principali dee:
  • Aditī
    divinità vedica, è la dea Madre
  • Bagalamukhī
    ottava dea delle Mahāvidyā: l'Ingannevole
  • Bhairavī
    sesta dea delle Mahāvidyā: la Terribile
  • Bhuvaneśvarī
    quarta dea delle Mahāvidyā: la Signora dell'Universo
  • Chinnamastā
    quinta dea delle Mahāvidyā: la Decapitata
  • Dhūmāvatī
    settima dea delle Mahāvidyā: la Fumante
  • Durgā
    dea post-vedica: l'Inaccessibile
  • Gaurī
    dea post-vedica: la Signora Bianca
  • Kālī
    prima dea delle Mahāvidyā: la Distruttrice
  • Kamalā
    decima dea delle Mahāvidyā: la Ragazza del Loto
  • Kāmeśvarī
    divinità post-vedica, Dea dell'Amore
  • Kubjikā
    divinità tantrica, la Dea Gibbuta
  • Lakṣmī
    divinità vedica, Dea della Fortuna
  • Matāngī
    nona dea delle Mahāvidyā: la Potenza dell'Elefante
  • Mahāvidyā
    gruppo di dieci divinità tantriche, le Dee delle Conoscenza
  • Mātṛkā
    gruppo di sette dee tantriche, che nella creazione tramite il Verbo, sono identificate con le sette vocali
  • Pārvatī
    divinità post-vedica, Figlia della Montagna
  • Rādhā
    divinità tantrica, Dea del Successo
  • Sarasvatī
    divinità vedica, Dea del Sapere
  • Satī
    divinità post-vedica, la Fedeltà
  • Śoḍashī
    terza dea delle Mahāvidyā: la Sedicenne (conosciuta anche coi nomi: Lalitā, Tripurasundarī)
  • Tārā
    seconda dea delle Mahāvidyā: la Stella
  • Umā
    divinità vedica, Pace della Notte
  • Uṣas
    divinità vedica, l'Aurora
  • Vāc
    divinità vedica, Dea della Parola



Gli aspetti minori della Dea

  • Bhairavī
    sono le assistenti della coppia Śiva e Durgā
  • Dākinī
    sono demoni femminili, compagne di Kālī
  • Grahī
    le streghe
  • Shākinī
    sono demoni femminili, compagne di Durgā
  • Yoginī
    compagne di Durgā

martedì 29 dicembre 2015

Louis Fan




Louis Fan Siu-wong (caratteri cinesi: 樊少皇; pinyin: Fán Shàohuáng; jyutping: Faan6 Siu6-wong4; Hong Kong, 19 giugno 1973) è un attore e artista marziale cinese di Hong Kong. La sua famiglia è originaria di Yucheng, una città nella provincia cinese dello Shandong. L'attore è meglio conosciuto per aver interpretato il ruolo del protagonista Ricky Ho nel lungometraggio Riki-Oh: The Story of Ricky (1991), oltre che per quello di Jin Shanzhao in Ip Man (2008) ed il suo sequel, Ip Man 2 (2010).


Biografia

Vita privata

Nato ad Hong Kong nel 1973, Louis Fan è figlio di Fan Mei-sheng, attore di film di arti marziali negli anni '70. All'età di 14 anni, Louis fu mandato dal padre a Xuzhou per studiare e praticare le arti marziali cinesi, in particolare il wushu.


Carriera

Louis iniziò la sua carriera come attore a metà degli anni '80, tuttavia fu solo tra il 1995 ed il 1997 che ottenne la popolarità in patria, in quanto ottenne un contratto come attore televisivo dalla stazione TVB di Hong Kong, per la quale recitò in diverse serie televisive. Dopo aver reciso il contratto con la TVB, lavorò in alcune altre fiction a Taiwan e nella Cina continentale, prima di dare una svolta alla sua carriera puntando sul cinema. Il suo ruolo più famoso è quello del protagonista Ricky nel film Riki-Oh: The Story of Ricky, che interpretò all'età di 18 anni. Nel 2008, interpretò un altro ruolo di fama internazionale, quello di Jin Shanzhao in Ip Man, ruolo che riprese nel sequel di quest'ultimo del 2010, Ip Man 2. Di questo film è stato fatto anche un prequel, Ip Man - The Legend Is Born, nel quale tuttavia Louis Fan interpreta un ruolo che non ha nulla a che fare con il precedente.

lunedì 28 dicembre 2015

Niabor

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Il niabor (detto anche beadah, naibor, nyabor, nyabur, parang njabur laki-laki) è una spada tradizionale caratteristica degli Iban del Borneo.

Descrizione

Il niabor si presenta come una spada dalla lama ricurva, ad un solo filo, convessa dalla parte tagliente e concava dalla parte del dorso. La lama si allarga verso la punta per spostare verso di essa il centro di gravità dell'arma. La punta non è molto acuminata. Solitamente non sono presenti nervature di rinforzo lungo la lama, ma possono esservi una o più scanalature. Raramente i niabor presentano lame decorate. In alcuni esemplari è presente una sporgenza dalla parte tagliente che serve per parare a mo' di guardia; questa parte dell'arma è detta kundieng. La parte sottostante la guardia è chiamata sangau, mentre quella tra l'impugnatura e la lama è detta temporian. Il manico, il cui pomolo è intagliato secondo motivi decorativi tradizionali, è realizzato in corno di cervo come nel caso del mandau, e non è mai ornato con ciuffi di peli animali. Il niabor è molto simile ad altre armi tradizionali del Borneo, quali il Langgai Tinggang e il parang nabur.

domenica 27 dicembre 2015

Durgā

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Presso la religione induista, Durgā o Durga (lett. dal sanscrito "colei che difficilmente si può avvicinare"). È una forma di Devi, la Madre Divina (che assume anche molte altre forme, tra cui Sarasvati, Parvati, Lakshmi, Kali). È raffigurata come una donna che cavalca un leone, sebbene più raramente la si trovi raffigurata anche su una tigre, con numerose braccia mani che impugnano diversi tipi di armi e fanno dei mudra (gesti simbolici fatti con la mano). Questa forma della Dea è l'incarnazione dell'energia creativa femminile (Shakti). Di carattere ambivalente, ha in sé entrambi i poteri di creazione e distruzione.

Storia

Secondo il racconto del Devi Mahatmyam del Mārkaṇḍeya Purāṇa, la forma di Durga fu creata come dea guerriera per combattere e distruggere il demone Mahishasura. Grazie ad intense preghiere a Brahma, Mahishasura ebbe la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attaccò i Deva che andarono in aiuto della Trimurti (Brahma, Viṣṇu e Śiva), ma Mahishashur sconfisse tutti gli dèi compresa la triade stessa. Scatenò un regno di terrore sulla terra, in cielo e negli inferi. Infine, dal momento che solo una donna avrebbe potuto ucciderlo, gli dèi e la triade crearono un abbagliante raggio di energia dal quale nacque Durga.
La sua forma era di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e le ginocchia da Varuna (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.
La parola Shakti, che significa "forza", riflette l'aspetto guerriero della dea, incarnando un ruolo tradizionalmente maschile. Ma è anche notevolmente bella e inizialmente Mahishasur tentò di sposarla. In altre sue incarnazioni come Annapurna o Parvati appare più materna, e come Karunamayi (karuna, "gentilezza") è più dolce.
Esistono dieci forme differenti di questa dea raffiguranti dieci sue imprese, tra le quali spicca la lunga guerra contro gli Asura.
Il giorno dell'uccisione di Mahishasura da parte di Durga viene celebrato come Vijaya Dashami (nell'India orientale e meridionale), Dashain (Nepal) o Dussehra (India settentrionale): tutti questi termini significano "decimo giorno". Nel Kashmir è adorata come shaarika (il tempio principale si trova a Hari Parbat nello Srinagar). Il vero periodo di culto, però, può svolgersi nei nove giorni precedenti il Navaratri (India settentrionale) o il cinque giorni (Bengala e Orissa).

Il culto di Durga

Il culto di Durga nel mese autunnale di Sharat costituisce la maggior festività del Bengala. Puja significa culto, e il Durga Puja si celebra dal sesto al decimo giorno di luna piena nel mese di Ashvin, che è il sesto mese del calendario induista. Occasionalmente però, a causa di uno sfasamento tra il ciclo lunare e i mesi solari, si può anche tenere nel mese seguente, Kartik, che nel calendario gregoriano corrisponde ai mesi di settembre/ottobre.
Nel Krittibas Ramayana, Rama invoca la dea Durga durante la sua battaglia contro Ravana. Sebbene ella fosse tradizionalmente adorata in primavera, a causa della battaglia Rama dovette invocarla in autunno (akaal bodhan). Oggi è questa data per il puja stabilita da Rama che ha guadagnato consensi, sebbene anche il puja primaverile, conosciuto come Basanti puja, sia presente nel calendario induista. Siccome la stagione del puja è lo sharat (autunno), è conosciuto anche come shaaradiya.
Il Puja si tiene in un periodo di cinque giorni, che viene tradizionalmente considerato come la venuta della figlia sposata, Durga, a suo padre, nella sua casa sull'Himalaya. È la festa più importante del Bengala, e i bengalesi la celebrano con vestiti nuovi e altri doni, che vengono indossati la sera quando la famiglia va a vedere i pandal. Sebbene sia una festività induista, molti gruppi religiosi partecipano al rituale.
Soltanto a Kolkata vengono approntate centinaia di gallerie (pandal), tutte chiassose per l'attenzione variabile della gente. Nel resto del mondo il Puja serve come raduno comunitario e un ritorno alle radici per la diaspora bengalese. Tokyo ha quasi dieci Puja e in Nord America ce ne sono diverse centinaia. Il Bangladesh con il 10% di popolazione induista ha almeno un migliaio di Puja.

Durga Puja nel Bengala

Su Durga esiste una notevole letteratura in lingua bengalese, tra cui Durgabhaktitarangini di Vidyapati, Durgotsavnirnaya (XI secolo), opere del (XIV secolo), ecc. Il Durga Puja era popolare nel Bengala medievale, e risulta essere stato celebrato nelle corti di Rajshahi (XVI secolo) e del distretto di Nadia (XVIII secolo). Fu durante il XVIII secolo, però, che il culto di Durga divenne popolare tra i proprietari terrieri del Bengala. Oggi la cultura del Durga Puja si è spostata dalle case principesche a forme Sarvojonin (letteralmente, "che coinvolge tutti").
Durante la settimana del Durga Puja, in tutto lo stato del Bengala Occidentale come anche nelle grandi enclave di bengalesi in altre parti del mondo, la vita si ferma. Sui campi da gioco, nelle piazzole del traffico, in pozze d'acqua stagnante, ovunque ci sia un po' di spazio disponibile, vengono montate delle strutture elaborate chiamate pandal, molte con un anno di studio alle spalle. La parola pandal significa "struttura temporanea", fatta di bambù e tessuto che viene usata per il culto (puja) della dea
Da qualche parte dentro questo complesso di edifici, Durga regna, stando seduta sul leone e brandendo dieci armi con le sue dieci mani. Questo è il cuore religioso della festa e la folla si riunisce al mattino per offrirle fiori. Suonatori di tamburo che portano i grandi dhaak in pelle mostrano la loro abilità durante le danze rituali chiamate arati.
Ma oggi la Puja va ben oltre la religione. Infatti, visitando i pandal negli ultimi anni, si potrebbe dire che il Durgapuja sia la più grande mostra d'arte all'aperto del mondo. Negli anni novanta un gran numero di modelli architettonici crebbe sulle parti esterne dei pandal, ma oggi i motivi architettonici si estendono anche agli elaborati interni, eseguiti da artisti provetti, con coerenti elementi stilistici, eseguiti attentamente e firmati dall'artista stesso.
La scultura dell'idolo si è evoluta. Il culto raffigura sempre Durga con i suoi quattro bambini, e occasionalmente due divinità che la servono e alcuni alberi di banano. Una volta le cinque figure venivano dipinte nello stesso quadro, tradizionalmente chiamato pata. Dagli anni ottanta, però, la tendenza è quella di raffigurare ogni idolo separatamente.
Alla fine dei sei giorni l'idolo viene portato in processione in mezzo a canti e rulli di tamburo fino al fiume o in altri luoghi acquatici, e viene messa in acqua per indicare la partenza della dea verso casa sua da suo marito sull'Himalaya. Dopo di che, nella tradizione chiamata Vijaya Dashami, le famiglie si fanno visita l'una con l'altra offrendo canditi agli ospiti (Dashami sta per "decimo giorno" e Vijay per "vittoria").
Associato a Durga c'è anche il mito nel quale Rama invoca la dea durante la battaglia contro Ravana. Per questo motivo lo stesso decimo giorno è celebrato nell India settentrionale come Dussehra, quando enormi effigi in paglia di Ravana vengono bruciate.
Nel Gujarat è celebrata come festa di Navaratri. Durante il periodo di Navratri, viene eseguita la danza Garba in lode dei vari movimenti di Mahishasur-mardini.

Curiosità

  • Durga è uno dei personaggi del videogioco Asura's Wrath

sabato 26 dicembre 2015

Ninjatō

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Il ninjatō (忍刀) era un'ipotetica arma principale di un ninja.
Essa veniva legata alla cintura (sul fianco sinistro, oppure destro se mancini). Nel caso lo shinobi avesse dovuto scalare una parete o compiere azioni, che sarebbero risultate impedite portando il ninjatō al fianco, lo legava alla schiena. La sua lunghezza non doveva superare i 60cm e non doveva essere più corta di 40cm. Differiva dalla katana in quanto non aveva la classica curvatura ma era diritta; l'impugnatura era più lunga per un'estrazione più veloce e i materiali con i quali il ninjatō era costruito erano diversi.
Mentre la katana era forgiata più volte per darle la classica curvatura e l'affilatura, il ninjatō era fatto in acciaio meno elaborato, e l'estrazione veniva eseguita in maniera diversa: in primo luogo un ninja non impugnava il ninjatō con il dorso della mano rivolto verso l'alto ma verso il basso, una volta estratta l'arma era tenuta con una sola mano con la punta rivolta verso il basso. Questa impugnatura inconsueta con la quale lo shinobi impugnava il ninjatō era dettata dal fatto che il ninja eseguiva dei gìri (tagli) totalmente diversi da un normale colpo di spada inoltre prima di ogni gìri vi era un kasumi (annebbiamento) atto a distrarre l'avversario per qualche attimo durante il quale lo shinobi sfruttando quest'apertura nella guardia dell'avversario eseguiva il gìri (mai uno soltanto ma sempre una serie di gìri atti ad uccidere l'avversario).

venerdì 25 dicembre 2015

Ina Tadatsugu

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Ina Tadatsugu (伊奈 忠次; 1550 – 1 agosto 1610) è stato un samurai e daimyō giapponese appartenente al clan Ina durante il periodo Sengoku e primo periodo Edo.

Storia

Tadatsugu, un ufficiale civile di notevole capacità, prima servì Takeda Katsuyori, ed in seguito Tokugawa Ieyasu. Dopo l'assedio di Odawara nel 1590 Tokugawa Ieyasu stabilì Ina Tadatsugu nel dominio Komoro, provincia di Musashi, con un ricavo di 13.000 koku e fu responsabile per l'amministrazione dei granai dei territori del Kantō. Dopo la battaglia di Sekigahara nel 1600, l'han fu incrementato a 20.000 koku. Tuttavia il clan fu privato dei loro possedimenti nel 1613 a causa del ruolo avuto da suo figlio Ina Tadamasa nel complotto organizzato da Ōkubo Nagayasu contro lo shogunato Tokugawa.

giovedì 24 dicembre 2015

Arte marziale ibrida



Un'arte marziale ibrida (anche conosciuta in lingua inglese come hybrid fighting systems) indica arti marziali o sistemi di combattimento corpo a corpo nati dalla fusione di più sistemi differenti e che quindi incorporano tecniche o teorie da molte arti marziali particolari.



Caratteristiche

Mentre numerose arti marziali potrebbero anche prendere in prestito o adattarsi ad altre per alcuni punti, un'arte marziale ibrida vera e propria dà rilievo alle sue origini stilistiche. Un esempio di queste è il kajukenbo, nella cui pratica include specifici elementi dal karate, jūdō, jujutsu, kenpo e boxe cinese.
Altri termini come arti marziali miste e combattive forse sono a volte visti come sinonimi di arti marziali ibride, ma come termini hanno in realtà altri significati: arti marziali miste o MMA si riferiscono a un tipo di sport da combattimento in cui si incorporano tecniche da differenti discipline, mentre le combattive sono associate all'esercito degli Stati Uniti.


Esempi

Il primo probabile precedente storico dell'incrocio culturale ibrido delle arti marziali è il bartitsu, nato tra il 1899 ed il 1902 come combinazione di molte forme del jujutsu tradizionale, kodokan judo, boxe inglese, savate e stick fighting.
In tempi più recenti, invece, è stato sviluppato il kudo come arte marziale e sport da combattimento dalla fusione del karate kyokushinkai e del judo, integrandoci elementi presi anche da muay thai, kickboxing e brazilian jiu jitsu.
Alcune delle più famose arti marziali ibride vennero elaborate in Giappone a partire dagli anni '70, grazie ad Antonio Inoki che organizzò degli eventi di combattimento sportivo interstile definiti Ishu Kakutōgi Sen (異種格闘技戦, letteralmente "scontri di sport da combattimento eterogenei"), in seguito conosciuti con il nome di "Shoot Wrestling", all'interno del quale era permesso usare sia tecniche di lotta (wrestling-grappling) che tecniche di "striking" (pugni-calci-ginocchiate-gomitate). Successivamente, a metà degli anni '80, partendo da questo principio di complementarità tra sport da combattimento e lotta, Sensei Satoru Sayama ideò lo Shooto, con l'intento di creare uno sport realistico che potesse competere a livello internazionale con ogni tipo disciplina marziale, "scremando" perciò nel tempo le tecniche ritenute meno efficaci e sviluppando invece le migliori. A partire dal 1989 lo Shooto divenne anche il nome di una delle prime e più importanti organizzazioni di arti marziali miste professionistiche. Parallelamente allo Shooto e allo Shoot Wrestling , le arti marziali miste giapponesi vennero conosciute per molto tempo anche con il termine Shootfighting, fino a quando tale termine non venne registrato da Bart Vale. Attualmente egli lo utilizza per descrivere la sua tecnica di combattimento ibrida derivata dalla fusione tra lo shoot wrestling appreso in Giappone e la sua esperienza nell'American Karate e nella Kickboxing. Va sottolineato che nonostante sia lo Shooto che lo Shootfighting nacquero dalla fusione di alcune delle migliori tecniche di wrestling e di striking, le tecniche e più in generale i principi e le tattiche di lotta risultano prioritari, mentre i colpi e i principi di striking ricoprono perlopiù un ruolo di secondaria importanza. Nel 1985, Caesar Takeshi ideò la Shoot boxing, uno sport da combattimento simile alla kickboxing ma che prevede anche l'utilizzo di proiezioni e tecniche di sottomissione in piedi come strangolamenti e chiavi alle braccia, ma diversamente dallo Shooto e dallo Shootfighting, essa non prevede fasi di combattimento a terra.
Alcuni considerano il sistema di combattimento Jeet kune do un'arte marziale ibrida, oltre che una filosofia. In realtà, nonostante Bruce Lee, il creatore del sistema, analizzò e apprese svariati stili di combattimento, il Jeet Kune non è un mix di tecniche prelevate dalle altre arti marziali, ma è un sistema di combattimento autoctono che possiede una propria struttura ed è costituito da principi e tecniche peculiari . Nonostante ciò, rimane comunque evidente che la Boxe, la Scherma e il Kung fu abbiano enormemente ispirato Lee nella sintesi, intuizione ed elaborazione del Jeet Kune Do.
È corretto invece considerare un'arte marziale ibrida il Jun Fan Gung Fu, ciò che Bruce Lee praticava prima di sintetizzare il JKD.

mercoledì 23 dicembre 2015

Shigeru Egami

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Shigeru Egami (Fukuoka, 1912 – Tokyo, 8 gennaio 1981) è stato un karateka e maestro di karate giapponese.

Biografia

Shigeru Egami nacque nella Prefettura di Fukuoka (isola di Kyūshū) nel 1912, in una famiglia di commercianti e costruttori edili.
In gioventù praticò Jūdō e Kendō. Nel 1924, studente delle scuole secondarie, vide per la prima volta alcune tecniche di Karate. Scrisse a tal proposito:
«Gli strani movimenti e le tecniche di un capomastro di lavori edili, originario di Okinawa, mi sembrarono misteriosi e mi incuriosirono, solo in seguito ho capito che egli era solo un principiante...»
Nel 1931 entrò alla facoltà di Commercio dell'Università Waseda e per un breve periodo praticò Aikidō. Nello stesso anno incontrò il M° Funakoshi, diventandone allievo e aiutandolo a fondare il club locale di Karate all'Università Waseda. Sempre lo stesso anno un suo compagno di Università iniziò la pratica nel medesimo club. Il suo nome era Genshin (Motonobu) Hironishi e la loro amicizia divenne talmente salda da durare tutta la vita. Hironishi scrisse:
«Non posso dire esattamente come, ma sin dall'inizio nacque tra noi una comunicazione molto spontanea, un tipo di unione che includeva anche altri aspetti della vita quotidiana.»
Nei primi anni trenta venne coinvolto nella divulgazione del Karate-dō in Giappone e partecipò, prima con Takeshi Shimoda poi, dopo la morte di quest'ultimo, con Yoshitaka Funakoshi, a numerose dimostrazioni. Scrisse a tal proposito:
«Ricordo i viaggi che noi, allievi del maestro Funakoshi, facemmo nella zona di Kyōto-Ōsaka e nell'isola di Kyūshū sotto la guida di Takeshi Shimoda, il nostro istruttore e il migliore tra gli studenti di Funakoshi. Questo accadeva attorno al 1934, circa dodici anni dopo la prima dimostrazione che il maestro fece a Tōkyō. Il Karate, in quei giorni, era considerato una mera tecnica di combattimento ma aveva un'aura di segretezza e mistero. Di conseguenza sembra che la curiosità fosse l'unico motore a spingere gruppi di persone ad assistere alle nostre dimostrazioni. Sebbene non conosca bene la carriera di Shimoda, so per certo che fu un esperto della scuola Nen-ryū di Kendō e studiò anche Ninjitsu. Per uno sfortunato volere del fato si ammalò dopo una delle nostre dimostrazioni e morì poco dopo. Shimoda era l'assistente del maestro Funakoshi e si occupava dell'insegnamento quando quest'ultimo era impegnato. Il suo posto venne preso dal terzo figlio del Maestro, Gigō (Yoshitaka), che non era solo un uomo dal carattere eccellente ma anche un grande esperto dell'arte. Sicuramente non c'era persona più qualificata per l'insegnamento ai giovani studenti. Comunque, poiché all'epoca era tecnico radiologo all'Università Imperiale di Tokyo e al Ministero dell'Educazione, si dimostrò piuttosto riluttante ad assumere anche questo incarico. Dopo le numerose pressioni da parte del padre e dei suoi studenti finì comunque per accettare e, di lì a poco, attirò la nostra ammirazione ed il nostro rispetto.»
A dispetto di un'apparente eccellente forma fisica, Egami, come anche Yoshitaka Funakoshi, soffriva già di seri problemi di salute. Fu scartato alla visita di incorporazione per il servizio militare in quanto aveva seri problemi polmonari e più tardi, all'età di 24 anni, contrasse la tubercolosi. A seguito della morte del fratello maggiore, Egami si sentì in dovere di tornare nell'isola di Kyūshū per seguire l'azienda familiare.
Presto però lasciò questa occupazione in quanto non si sentiva adatto alla vita del commerciante e fece ritorno a Tōkyō impegnandosi, con Yoshitaka Funakoshi e Genshin Hironishi, allo sviluppo del Karate-dō. Erano state create nuove posizioni, come il fudo dachi, e nuove tecniche di calcio quali yoko geri (kekomi e keage), alcune forme di mawashi geri, fumikomi e ushiro geri. Le posizioni, in generale, erano divenute più basse e più ampie.
Nel 1935 Egami aderì al comitato creato da Kichinosuke Saigo per la raccolta dei fondi per la costruzione di un dōjō dedicato esclusivamente alla pratica del Karate. Come già ricordato questo comitato costituì l'embrione del gruppo Shōtōkai. Riguardo alla costruzione del dōjō scrisse:
«Verso il 1936 i giovani allievi si sono riuniti attorno al M° Yoshitaka Funakoshi per costruire il dōjō centrale, che fu chiamato Shōtōkan partendo dallo pseudonimo in calligrafia del Maestro Funakoshi. Tuttavia, all'epoca non si ricorreva a tale appellativo, noi tutti chiamavamo questo dōjō semplicemente "Honbu dōjō" (dōjō centrale). Che gioia allenarsi in un dōjō così bello e per di più costruito con i nostri sforzi! La sensazione era quella di essere consanguinei e lo spirito con il quale ci esercitavamo risultò ancora più vigoroso. Naturalmente anche la felicità del vecchio maestro Funakoshi (Gichin) e del giovane (Yoshitaka) era grande; ogni volta che comparivano nel dōjō ci offrivano la loro guida con un sorriso in più.»
Sempre considerato uno degli allievi più attivi del M° Funakoshi, Egami iniziò ad insegnare Karate alle Università di Gakushuin, Toho e Chuo e fu l'istruttore più giovane ad essere eletto Membro del Comitato di Valutazione da Gichin Funakoshi. Nel corso della seconda guerra mondiale insegnò inoltre alla Nakano School che era un centro di addestramento per spie e commando giapponesi che il Maestro Mitsusuke Harada definisce una via di mezzo tra il MI5/MI6 (servizi segreti) e le SAS (Special Air Service) britannici.
Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, Egami assistette in meno di un anno alla distruzione della casa e del dōjō del M° Funakoshi e alla morte del maestro e grande amico Yoshitaka Funakoshi. Dopo la morte di Yoshitaka Funakoshi, Egami iniziò a sentirsi assillato dalla necessità di perseguire la Via da sempre indicata dal suo Maestro e individuata nel lavoro che aveva iniziato con Yoshitaka Funakoshi e Genshin Hironishi: la trasformazione dell'arte di Okinawa in un'arte del Budō giapponese, partendo dal Karate per giungere al Karate-dō. Fu proprio nell'ambito di questa sua ricerca che, per sciogliere il dubbio sull'efficacia dello tsuki, si fece ripetutamente colpire l'addome (con questo probabilmente aggravando il suo già compromesso stato di salute) dai colpi di pugno di diverse persone e concludendo che il tipo di attacco dei Karateka appariva essere quello meno efficace. Scrisse in proposito:
«Mi sono chiesto per molto tempo se i colpi frontali del Karate fossero veramente efficaci. Ho fatto di tutto, dallo spezzare tavole e tegole al rompere mattoni, ma nonostante queste operazioni fossero andate a buon fine, rimaneva il dubbio circa l'effetto prodotto dagli stessi colpi su un corpo umano. L'esperienza personale mi ha insegnato che quest'ultimo è più resistente di quanto si possa pensare; le sue caratteristiche sono totalmente differenti da quelle di tavole e tegole, in più possiede uno "spirito" sottilmente inspiegabile. Quando non siamo certi della reale efficacia dei nostri colpi allora ci assale uno stato d'ansia non indifferente. Ho provato a porre il quesito che mi assillava a parecchie persone e le risposte sono state varie ma nessuno ha dichiarato d'esser certo del potere delle proprie azioni nonostante sembra che molti posseggano la forza sufficiente per infliggere un "colpo mortale". Un'antica tradizione giapponese, presa alla lettera, dice che o si crede ciecamente, oppure si mette da parte l'inquietudine interiore e ci si sforza di credere; io decisi di seguire il consiglio. In pratica non è così semplice pensare di trovare cavie disponibili né tantomeno persone pronte a infierire su di noi nonostante il palese consenso; qualcuno ci ha provato senza ottenere un gran risultato, e poi bisogna tenere conto del fatto che pochi sarebbero quelli inclini a rendere pubblico un esito di cui si vergognano. Affinché il colpo andasse a segno era indispensabile che il tempismo fosse perfetto, non approssimativo. Quando il rischio era la vita, peraltro quasi mai, mi è capitato di far mostra di colpi efficaci eppure ben lontani dall'essere letali; tuttavia, nei Kata e nelle tecniche messe in pratica in quelle occasioni c'era qualcosa di diverso dai Kata e dalle tecniche dell'allenamento abituale. Non c'è dubbio che i colpi andati a segno furono tali per puro caso, e questa non è solo la mia opinione, è il parere di persone che, come me, decine di migliaia di volte hanno percosso e si sono fatte picchiare l'addome e l'epigastrio: è la voce dell'esperienza che parla. Per rimuovere l'insicurezza ci si sforzò, si cercò di approfondire, migliorare, e ne emerse che "il Karate è la tecnica della concentrazione". Prima di tutto, fisicamente è nato dalla concentrazione della forza su un punto ben preciso; ciò significa che, in termini pratici, sia in caso di attacco che di difesa bisogna riunire tutta la potenza laddove intendiamo colpire l'avversario. Da qui ebbero inizio ulteriori ricerche che, condotte contemporaneamente alla disciplina di sempre, mi consentirono di capire che la "concentrazione" non è un fenomeno esclusivamente fisico bensì necessariamente e inevitabilmente "mentale". Come fare per rendere le proprie tecniche efficaci? Quali sono i colpi che funzionano davvero? Vorremmo proprio saperlo, e vorremmo anche conoscere il potere delle nostre azioni, peccato che nessuno ce ne offra l'occasione. Al sottoscritto non rimase che mettere a disposizione il proprio addome affinché più persone lo colpissero; sulla base degli effetti prodotti potei chiarire i miei dubbi. Il mio stomaco venne picchiato a volontà da svariati karateka, judoka, kendoka e boxer e la cosa più deplorevole fu il risultato: i meno efficaci furono i primi della lista, nonostante si trattasse di veterani del Karate, mentre i pugni maggiormente andati a segno furono quelli dei praticanti la boxe. Ciò che mi sconvolse alquanto, però, fu l'esito sorprendente di perfetti incompetenti, persone che non avevano mai affrontato un allenamento. Rimasi sbalordito chiedendomi il perché, cercando le ragioni di una cosa simile, facendo confronti e tentando di scovare le differenze. Nel corso delle mie ricerche mi resi improvvisamente conto che l'allenamento portato avanti fino a quel momento in realtà irrigidiva, bloccando i movimenti, con l'illusione che producesse forza. Una volta scoperto il difetto si trattava di sciogliere le parti indurite rendendole elastiche, ragion per cui decisi di rimettere tutto allo studio.»
Intanto, il primo maggio 1949, veniva fondata la già citata Nihon Karate-dō Kyōkai (Japan Karate Association). Nonostante la fondazione e la supervisione da parte di uomini della corrente più tradizionale, Obata, Saigo, Hironishi, la JKA iniziò a poco a poco ad essere guidata da princìpi commerciali e da metodi e pratiche simili a quelli degli sport occidentali che culminò con l'emanazione del regolamento per le competizioni agonistiche (1955). Per questo motivo i tradizionalisti, tra cui i tre maestri sopracitati, lasciarono l'organizzazione. Il Maestro Funakoshi che inizialmente aveva gradito la popolarità che questo nuovo organismo stava riscuotendo, iniziò ad esserne preoccupato in quanto vedeva i valori essenziali del Karate-dō in forte rischio. Il 13 ottobre 1956, nella prefazione alla seconda edizione del libro Karate-dō Kyōhan scrive:
«...Non posso negare che vi siano momenti in cui diventò dolorosamente consapevole del pressoché irriconoscibile stato spirituale al quale il mondo del Karate è giunto rispetto a quello che prevaleva all'epoca in cui, per la prima volta, ho introdotto ed iniziato l'insegnamento del Karate...»
Egami avverte questa preoccupazione e decide di seguire gli incoraggiamenti del proprio maestro e degli allievi più anziani a continuare nella Via del Budō. Già nel 1953 la ricerca di Egami aveva avuto una svolta positiva. Nel ricevere uno tsuki dal giovane Tadao Okuyama notò che quell'attacco era straordinariamente più efficace di tutti quelli che aveva ricevuto fino ad allora. Allora, a poco più di quarant'anni di età, Egami prese la decisione di cambiare radicalmente i concetti e le forme convenzionali di esecuzione. Iniziò ad adottare tecniche eseguite in decontrazione, evitando l'uso di forza non necessaria. Ricominciò così a pensare al modo di colpire apparentemente leggero e rilassato ma estremamente efficace che distingueva le tecniche di Takeshi Shimoda, Yoshitaka Funakoshi e dello stesso Maestro Gichin Funakoshi.
Allo stesso tempo venne in contatto con Hoken (o Shōyō o Noriaki) Inoue, fondatore dello Shinwa Taidō (poi Shinei Taidō) e nipote del fondatore dell'Aikidō, Morihei Ueshiba. Dai contatti con Inoue iniziò ad interessarsi all'energia vitale e alla sua circolazione nel corpo umano. Nel 1955, in piena fase di ricerca, dovette essere sottoposto a due operazioni allo stomaco. Tali operazioni, a distanza ravvicinata, lo portarono all'impossibilità di nutrirsi normalmente tanto che giunse a pesare solo 37 chili.
L'indebolimento era tale da non rendergli possibile alcun tipo di allenamento fisico. Il ricovero e lo stato di precarietà finanziaria legate all'impossibilità di svolgere una qualsiasi attività furono sorpassate con grande difficoltà e solo grazie all'aiuto di amici come Hironishi, Okuyama e Yanagizawa. Scrisse di quel periodo:
«...fui sottoposto ad un intervento per la rimozione di parte del mio stomaco e, dopo meno di un anno, ad un'altra simile operazione. Poiché persi la forza di cui andavo così fiero, non potei più praticare Karate. Ancora più serie erano le difficoltà a condurre una vita normale. Ripenso a quel periodo, durante il quale ero caduto in una forte disperazione, come al peggior periodo della mia vita. Ma allora ricordai le altre parole del Maestro Funakoshi: "l'allenamento nel Karate deve essere quello praticabile da tutti, dai vecchi come dai giovani, dalle donne, dai bambini e dagli uomini." Con queste parole in mente presi la decisione di vedere se mi fosse possibile praticare anche se mi trovavo in pessime condizioni fisiche. I risultati furono rassicuranti e trovai che mi era possibile praticare grazie all'oculata scelta di certi metodi. Avendo successo decisi di votare il resto della mia vita alla pratica del Karate.»
Nel 1956 fu tra i fondatori della Nihon Karate-dō Shōtōkai insieme al proprio maestro, a Hironishi, Obata e Noguchi. La morte di Gichin Funakoshi colpì profondamente Egami che era presente, con i familiari del proprio maestro, al capezzale di quest'ultimo quando questi esalò l'ultimo respiro. Questo triste evento e gli accadimenti che caratterizzarono i giorni immediatamente seguenti furono la scintilla che spinse Egami a proseguire con ancor maggiore determinazione nella propria ricerca. Dopo la morte del M° Funakoshi, Shigeru Egami divenne istruttore capo dello Shōtōkan, il dōjō del M° Funakoshi, nel frattempo ricostruito. Nel 1963, probabilmente stimolato dagli effetti del suo debole stato di salute, Egami scoprì tecniche che andavano oltre la mera esecuzione fisica, in particolare il tōate o colpo a distanza senza contatto fisico.
Nel 1967, mentre conduceva una sessione di allenamento estivo all'Università di Chuo, fu colpito da attacco cardiaco e salvato in extremis grazie ad una tecnica di rianimazione applicatagli dal suo allievo Hiroyuki Aoki (futuro fondatore dello Shintaidō). Fu così che si trovò nuovamente per un lungo periodo confinato in un letto di ospedale. Questa esperienza però gli offrì una nuova visione delle cose. L'agonia della morte fisica provata per qualche minuto lo risvegliò ad un nuovo significato per la propria vita e per la pratica del Karate-dō. Egli, a tal proposito scrisse:
«Una volta sono morto. Sono già trascorsi più di tre anni da allora. Si è trattato di un attimo, forse di una decina di secondi. Ciò che ho capito in seguito è che si è trattato di una specie di attacco cardiaco. In quel fuggevole istante ho fatto un'esperienza straordinaria e preziosa. Le condizioni erano quelle di un uomo di fronte alla morte. Indicibile dolore, sofferenza, malinconia - non fu cosa facile né tantomeno paragonabile all'amore per l'isolamento - e poi afflizione, paura e angoscia messe insieme sì da diventare una cosa acuta, penetrante. La partecipazione emotiva fu pressoché assoluta, io che avevo sempre ostentato un abituale stato di calma. Anche la gioia di quando ritornai alla vita fu straordinaria: vedevo tutto splendere, fu un'impressione reale, fu la felicità di sentire la vita. Fu l'acme del piacere, tanto che era come se avessi dovuto parlarne con tutti. È probabile che estasi sia il termine più adeguato per questa esperienza che mi fu dato di fare nell'arco di dieci o venti minuti, poiché ho provato di persona la dignità nonché la gioia di vivere. Torniamo a quella decina di minuti. L'amicizia delle persone intorno, i mutamenti dello spirito e poi il prodigio dello scambio tra gli esseri, tra gli animi, tra i corpi: non sono sicuro di essere in grado di raccontare quel che mi fu concesso di apprendere. L'uomo non è fatto per vivere da solo; sostenuto da molti, similmente alla maglia di una fitta rete vive in relazione agli altri, attraverso lo scambio con gli altri. Ecco ciò che compresi.»
Il destino gli concesse altri quindici anni di vita che egli dedicò integralmente alla trasmissione della Via tracciata dal suo maestro e da lui seguita e sviluppata. Inizialmente con gli scritti, poi con la sua presenza e la sua supervisione ai corsi, anni dopo attraverso la pratica adattata alla sua condizione fisica e all'età egli riuscì a trasmettere il suo metodo. Il 10 ottobre del 1980, durante una sessione d'allenamento per istruttori, le condizioni di salute del M° Egami si aggravarono e venne ricoverato in ospedale. Due giorni dopo fu colpito da emorragia cerebrale e da allora non riprese più conoscenza. Morì l'8 gennaio del 1981 in seguito a complicanze causate da una polmonite.

martedì 22 dicembre 2015

Ganesha

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Presso la religione induista, Ganesha o Ganesh (Sanscrito गणेश IAST Gaṇeśa) è una delle rappresentazioni di Dio più conosciute e venerate; figlio primogenito di Shiva e Parvati, viene raffigurato con una testa di elefante provvista di una sola zanna, ventre pronunciato e quattro braccia, mentre cavalca o viene servito da un topo, suo veicolo. Spesso è rappresentato seduto, con una gamba sollevata da terra e ripiegata sull'altra, nella posizione della Lalitasana. Tipicamente, il suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Shri.
Il culto di Ganesha è molto diffuso, anche al di fuori dell'India; i devoti di Ganesha si chiamano Ganapatya.

Etimologia ed altri nomi

Formato dalle parole sanscrite gana e isha (signore), Ganesha significa letteralmente "Signore dei gana" dove gana può essere interpretato come "moltitudine", facendo assumere al nome il significato di "Signore di tutti gli esseri", ma con gana nella tradizione induista si possono intendere anche dei piccoli demoni deformi che corteggiano Śiva.
Ganesha viene a volte chiamato anche Vighnesvara, "Signore degli ostacoli", Vinayaka, "colui che rimuove" o anche Pillaiyar.



Simbologia

Come per ogni altra forma con la quale l'Induismo rappresenta Dio, inteso come l'aspetto personale di Brahman (detto anche Īśvara, il Signore), anche la figura di Ganesha è un archetipo carico di molteplici significati e simbolismi che esprimono uno stato di perfezione, e il modo per raggiungerla; Ganesha è infatti il simbolo di colui che ha scoperto la Divinità in se stesso.
Egli rappresenta il perfetto equilibrio tra energia maschile (Śiva) e femminile (Shakti), ovvero tra forza e dolcezza, tra potenza e bellezza; simboleggia inoltre la capacità discriminativa che permette di distinguere la verità dall'illusione, il reale dall'irreale.
Una descrizione di tutte le caratteristiche e gli attributi di Ganesha si può trovare nella Ganapati Upaniṣad (una Upaniṣad dedicata a Ganesha) del rishi Atharva, nella quale Ganesha è identificato con il Brahman e con Ātman. In questo inno, inoltre, è contenuto uno dei mantra più famosi associati a questa divinità: Om Gam Ganapataye Namah (lett. Mi arrendo a Te, Signore di tutti gli esseri).
Nei Veda si trova anche una delle più salmodiate preghiere attualmente attribuite a Ganesha, che costituisce l'inizio del Ganapati Prarthana:
Gaṇānāṃ tvā ganapatiṃ havāmahe kavim kavīnām upamaśravastamam
jyeṣṭarājam brahmaṇām brahmaṇas pata ā nah śṛṇvann ūtibhiḥ sīda sādanam
(Rig Veda 2.23.1)



Il Signore del Buon Auspicio

In termini generali, Ganesha è una divinità molto amata ed invocata, poiché è il Signore del buon auspicio che dona prosperità e fortuna, il Distruttore degli ostacoli di ordine materiale o spirituale; per questa ragione se ne invoca la grazia prima di iniziare una qualunque attività, come ad esempio un viaggio, un esame, un colloquio di lavoro, un affare, una cerimonia, o un qualsiasi evento importante. Per questo motivo è tradizione che tutte le sessioni di bhajan (canti devozionali) comincino con una invocazione a Ganesha, Signore del "buon inizio" dei canti.
È inoltre associato con il primo chakra, che rappresenta l'istinto di conservazione e sopravvivenza, la procreazione ed il benessere materiale.

Attributi corporei

Ogni elemento del corpo di Ganesha ha una sua valenza ed un suo proprio significato:
  • la testa d'elefante indica fedeltà, intelligenza e potere discriminante;
  • il fatto che abbia una sola zanna (e l'altra spezzata) indica la capacità di superare ogni dualismo;
  • le larghe orecchie denotano saggezza, capacità di ascolto e di riflessione sulle verità spirituali;
  • la proboscide ricurva sta ad indicare le potenzialità intellettive, che si manifestano nella facoltà di discriminazione tra reale ed irreale;
  • sulla fronte ha raffigurato il Tridente (simbolo di Śiva), che simboleggia il Tempo (passato, presente e futuro) ne attribuisce a Ganesha la padronanza;
  • il ventre obeso è tale poiché contiene infiniti universi, rappresenta inoltre l'equanimità, la capacità di assimilare qualsiasi esperienza con sereno distacco, senza scomporsi minimamente;
  • la gamba che poggia a terra e quella sollevata indicano l'atteggiamento che si dovrebbe assumere partecipando alla realtà materiale e a quella spirituale, ovvero la capacità di vivere nel mondo senza essere del mondo;
  • le quattro braccia di Ganesha rappresentano i quattro attributi interiori del corpo sottile, ovvero: mente, intelletto, ego, coscienza condizionata;
    • in una mano brandisce un'ascia, simbolo della recisione di tutti i desideri, apportatori di sofferenza;
    • nella seconda mano stringe un lazo, simbolo della forza che lega il devoto all'eterna beatitudine del Sé;
    • la terza mano, rivolta al devoto, è in un atto di benedizione (abhaya);
    • la quarta mano tiene un fiore di loto (padma), che simboleggia la più alta meta dell'evoluzione umana.



La zanna spezzata

La zanna spezzata di Ganesha, come si è visto, indica principalmente la capacità di superare o "spezzare" la dualità; tuttavia, questo è un simbolo che può assumere vari significati.
«Un elefante ha, di norma, due zanne. Anche la mente propone spesso due alternative: quella buona e quella cattiva, l'eccellente e l'espediente, il fatto e la fantasia che la porta fuori strada. Per fare qualsiasi cosa, la mente deve comunque diventare determinata. La testa di elefante del Signore Ganesha ha quindi una sola zanna per cui Egli è chiamato "Ekadantha", che significa "Colui che ha una sola zanna", per ricordare ad ognuno che si deve possedere la determinazione mentale.»
(Sathya Sai Baba)
Ci sono vari aneddoti che spiegano l'origine di questo particolare attributo (v. paragrafo Come si ruppe la zanna di Ganesha?).



Ganesha e il Topo

La cavalcatura di Ganesha è un piccolo topo (Mushika o Akhu), che rappresenta l'ego, la mente con tutti i suoi desideri, la bramosia dell'individuo; Ganesha, cavalcando il topo, diviene padrone (e non schiavo) di queste tendenze, indicando il potere che l'intelletto e la discriminazione hanno sulla mente. Inoltre il topo (per natura estremamente vorace), viene spesso raffigurato a fianco di un piatto di dolci, con lo sguardo rivolto a Ganesha mentre tiene un boccone stretto tra le zampe, come in attesa di un suo ordine; rappresenta la mente che è stata completamente assoggettata alla facoltà superiore dell'intelletto, la mente sottoposta ad un ferreo controllo, che fissa Ganesha e non si accosta al cibo se non ne riceve il permesso. C'è anche un altro significato di Akhu, l'astuzia del topo che accompagnata alla saggezza dell'elefante fa compiere grandi imprese e, inoltre, tanto l'elefante quanto il topo, passano dappertutto, quasi senza incontrare ostacoli: uno per via della sua mole e l'altro, per la sua minutezza. Ganesha, infatti, è colui che aiuta a superare gli ostacoli e viene venerato prima di iniziare qualsiasi impresa.


Sposato o celibe?

È interessante notare come, secondo la tradizione, Ganesha sia stato generato dalla Madre Parvati senza l'intervento del marito Śiva; infatti Śiva, essendo eterno (Sadashiva), non sentiva alcuna necessità di avere figli. Così Ganesha nacque dall'esclusivo desiderio femminile di Parvati di creare. Di conseguenza, la relazione di Ganesha con la propria madre è unica e speciale.
Questa devozione è la ragione per la quale la tradizione dell'India del sud lo rappresenta come celibe (v. l'aneddoto Devozione alla Madre). Si dice che Ganesha, ritenendo sua madre Parvati la donna più bella e perfetta dell'universo, abbia esclamato: "Portatemi una donna bella come lei ed io la sposerò".
Nell'India del nord, invece, Ganesha è spesso raffigurato sposato alle due figlie di Brahma: Buddhi (intelletto) e Siddhi (potere spirituale). In altre raffigurazioni le sue consorti sono: Sarasvathi (dea della cultura e dell'arte) e Lakshmi (dea della fortuna e della prosperità), a simboleggiare che queste qualità accompagnano sempre colui che ha scoperto la propria Divinità interiore.


Aneddoti mitologici

Come ottenne una testa di elefante?

L'articolata mitologia induista presenta tante storie che spiegano in che modo Ganesha ottenne una testa di elefante; spesso l'origine di questo particolare attributo si trova negli stessi aneddoti che riguardano la sua nascita.
Nelle storie in questione, inoltre, si raccontano anche varie ragioni che rivelano l'origine dell'enorme popolarità del suo culto.

Decapitato e rianimato da Śiva

La storia più conosciuta è probabilmente quella tratta dallo Śiva Purāṇa: una volta Madre Parvati volle fare un bagno nell'olio, ma sentendosi offesa per una precedente visita improvvisa di suo marito Śiva mentre si stava lavando, creò un ragazzo dalla farina di grano di cui si era cosparsa il corpo e gli chiese di fare la guardia davanti alla porta di casa, raccomandando di non far entrare in casa nessuno. In quel frangente Śiva tornò a casa e, trovando sulla porta uno sconosciuto che gli impediva di entrare, si arrabbiò e lo decapitò con il suo tridente. Parvati ne fu molto addolorata e Śiva, per consolarla, inviò le proprie schiere celesti (Gana) a trovare e prendere la testa di qualsiasi creatura avessero trovata addormentata con il capo rivolto a nord. Essi trovarono un elefante che dormiva in tal modo, e ne presero la testa; Śiva la attaccò al corpo del ragazzo, lo resuscitò e lo chiamò Ganapathi, o capo delle schiere celesti, concedendogli di essere adorato da chiunque fosse in procinto di iniziare una qualsiasi attività importante.

Śiva e Gajasura

Un'altra leggenda riguardante l'origine di Ganesha narra che, una volta, ci fosse un Asura (demone) dalle sembianze di elefante chiamato Gajasura, il quale eseguì una penitenza (o tāpas); Śiva, soddisfatto di questa austerità, decise di concedergli in dono qualsiasi cosa desiderasse. Il demone voleva che dal suo corpo si emanasse continuamente del fuoco, in modo che nessuno osasse avvicinarlo; il Signore glielo concesse. Gajasura proseguì la sua penitenza e Śiva, che gli appariva davanti di tanto in tanto, gli chiese nuovamente che cosa desiderasse; il demone rispose: "Io desidero che Tu risieda nel mio stomaco".
Śiva esaudì la richiesta e vi prese dimora. Infatti, Śiva è anche conosciuto come Bhola Shankara, poiché è una divinità facile da propiziare; quando è soddisfatto di un devoto gli concede qualunque cosa chieda, e questo a volte genera situazioni particolarmente intricate. Fu così che Parvati, sua moglie, lo cercò ovunque senza risultato; come ultima risorsa si recò dal proprio fratello Viṣṇu, chiedendogli di trovare suo marito. Egli, che conosce tutto, la rassicurò: "Non preoccuparti, cara sorella, tuo marito è Bhola Shankara e concede prontamente qualunque grazia il Suo devoto Gli chieda, senza prenderne in considerazione le conseguenze; per cui penso che si sia cacciato in qualche guaio. Scoprirò cosa è accaduto".
Allora Viṣṇu, l'onnisciente regista del gioco cosmico, inscenò una piccola commedia: tramutò Nandi (il toro di Śiva) in un toro danzatore e lo condusse al cospetto di Gajasura, assumendo nel contempo le sembianze di un suonatore di flauto. L'incantevole esecuzione del toro mandò in estasi il demone, il quale chiese al suonatore di flauto di esprimere un desiderio; il Viṣṇu musicante allora rispose: "Puoi darmi quello che ti chiedo?" Gajasura replicò: "Per chi mi hai preso? Io posso darti subito qualunque cosa tu chieda". Il suonatore quindi disse: "Se è così, libera dunque dal tuo stomaco Śiva che vi si trova". Gajasura capì allora come questi non fosse altri che Viṣṇu Stesso, l'unico che potesse conoscere quel segreto, così si gettò ai suoi piedi e, liberato Śiva, Gli chiese un ultimo dono: "Io sono stato benedetto da Te con molti doni; la mia ultima richiesta è che tutti mi ricordino adorando la mia testa quando sarò morto". Śiva condusse allora lì il proprio figlio, la cui testa venne sostituita con quella di Gajasura. Da allora, in India è viva la tradizione per cui qualunque iniziativa, per essere prospera, deve cominciare con l'adorazione di Ganesha; questo è il risultato del dono di Śiva a Gajasura.



Lo sguardo di Shani

Una storia poco celebre riguardante le origini di Ganesha si trova nel Brahma Vaivarta Purana: Śiva chiese a Parvati, la quale desiderava avere un figlio, di compiere un particolare sacrificio (punyaka vrata) per un anno, in modo da appagare Viṣṇu.
Dopo il completamento del sacrificio, il Signore Krishna promise a Parvati di incarnarsi come suo figlio, all'inizio di ogni kalpa o era cosmica. Così Krishna nacque come un bellissimo bambino, con grande gioia di Parvati che volle celebrare la miracolosa nascita. Tutti gli dèi e le dee si riunirono per gioire della nascita. Shani, figlio di Surya (il deva del sole), era presente ma si rifiutò di guardare il neonato; disturbata dal suo comportamento, Parvati gliene chiese la ragione, e Shani rispose che se avesse guardato il bambino lo avrebbe ferito. In seguito all'insistenza di Parvati, Shani volse lo sguardo e, non appena i suoi occhi si posarono sul neonato, la sua testa fu tagliata all'istante. Tutte le deità presenti si disperarono, per cui Viṣṇu si precipitò sulle rive del fiume Pushpabhadra e tornò con la testa di un giovane elefante, e la unì al corpo del bambino infondendogli nuova vita. Viṣṇu benedì il bambino, promettendogli che egli sarebbe stato adorato prima di qualunque altra deità, e che sarebbe stato il migliore tra gli yogi; allo stesso modo Śiva lo pose a capo delle sue truppe e lo benedì, affermando che qualsiasi ostacolo, di qualsiasi entità, sarebbe stato superato pregando Ganesha.

Come si ruppe la zanna di Ganesha?

Ci sono vari aneddoti che spiegano come Ganesha si spezzò una zanna.

Ganesha scriba

La prima parte del poema epico del Mahābhārata dichiara che il saggio Vyāsa chiese a Ganesha di trascrivere il poema sotto la sua dettatura; Ganesha acconsentì, ma solo alla condizione che Vyāsa avrebbe dovuto recitare il poema ininterrottamente, senza alcuna pausa. Il saggio, allora, pose a propria volta una ulteriore condizione: Ganesha avrebbe non solo dovuto scrivere, ma comprendere tutto ciò che udiva ancor prima di scriverlo. In questo modo Vyāsa avrebbe potuto riprendersi un poco dal suo continuo parlare, semplicemente recitando un verso difficile da capire. La dettatura cominciò, ma nella foga della scrittura il pennino di Ganesha si ruppe, così egli si spezzò una zanna e la usò come penna affinché la trascrizione potesse andare avanti senza interruzioni, così da permettergli di mantenere la parola data.

Ganesha e Parashurama

Un giorno Parashurama, un avatar di Viṣṇu, si recò a fare visita a Śiva, ma lungo la strada fu bloccato da Ganesha. Parashurama si scagliò contro di lui con la sua ascia, e Ganesha (sapendo che quell'ascia gli era stata donata da Śiva) acconsentì a farsi colpire, perdendo così una zanna che fu tagliata.

Ganesha e la Luna

Si racconta che un giorno Ganesha, dopo aver ricevuto da moltissimi adoratori una gran quantità di dolci (Modak), per digerire meglio quell'impressionante mole di cibo, decise di fare una passeggiata; salì sul topo che utilizza come veicolo e partì. Era una notte magnifica e la Luna splendeva. All'improvviso spuntò un serpente che spaventò a morte il topo, il quale sussultando fece cadere il suo cavaliere. Il grosso stomaco di Ganesha venne schiacciato e, troppo pieno, scoppiò; tutti i dolci che aveva mangiato si sparsero attorno a lui. Tuttavia, egli era troppo intelligente per prendersela a causa di questo incidente, per cui senza perdere tempo in inutili lamentele, si preoccupò soltanto di risolvere al meglio la situazione: prese il serpente che aveva causato l'incidente e lo utilizzò come cintura per tenere chiuso il suo addome e bendare la ferita; e, soddisfatto, salì nuovamente sul topo e riprese il suo giro. Chandra, il deva della Luna, nel vedere la buffa scena scoppiò a ridere e si prese gioco di Ganesha; questi allora ritenne giusto punire il deva per la sua arroganza, quindi si spezzò una zanna e la lanciò contro la Luna spaccandone a metà il viso luminoso. Egli la maledisse, decretando che chiunque l'avesse guardata sarebbe stato perseguitato dalla sfortuna. Chandra, rendendosi conto del proprio errore, chiese perdono e pregò Ganesha di ritirare la maledizione; ma una maledizione non può essere revocata, soltanto attenuata, così Ganesha condannò la Luna a crescere e calare in intensità secondo cicli di 15 giorni, e stabilì che chiunque l'avesse guardata durante la festività di Vinayaka Chaturthi sarebbe stato colpito dalla sfortuna. Così, in certi momenti la luce della Luna si sarebbe spenta, per poi ricominciare poco a poco ad apparire; ma la sua faccia sarebbe rimasta intera soltanto per un brevissimo periodo di tempo, perché poi si sarebbe nuovamente "spaccata" fino a scomparire.

Ganesha, Capo delle Schiere Celesti

Una volta fu indetta una grande gara tra i Deva per scegliere tra essi il capo dei Gana (le truppe di semidèi al servizio di Śiva). I concorrenti avrebbero dovuto fare velocemente il giro del mondo e ritornare ai Piedi di Śiva. Gli Dei partirono sui propri veicoli, ed anche lo stesso Ganesha partecipò con entusiasmo alla gara; ma aveva una grossa corporatura, e per veicolo un topo. Naturalmente, procedeva con notevole lentezza e ciò gli era di grande svantaggio. Non aveva ancora fatto molta strada, quando gli apparve davanti il saggio Narada (figlio di Brahma), che gli chiese dove fosse diretto. Ganesha fu molto seccato e andò su tutte le furie, poiché era considerato infausto il fatto che, non appena s'iniziasse un viaggio, si incontrasse un Brahmino solitario. Nonostante Narada fosse il più grande dei bramini, figlio dello stesso Brahma, ciò rimaneva comunque di cattivo auspicio. Inoltre, non era considerato buon segno ricevere la domanda "Dove sei diretto?" quando ci si stava dirigendo da qualche parte; quindi Ganesha si sentì doppiamente sfortunato. Tuttavia, il grande brahmino riuscì a calmare la sua collera. Il figlio di Śiva gli raccontò il motivo della sua tristezza e il suo desiderio di vincere; Narada lo consolò, esortandolo a non disperarsi, e gli diede un consiglio:
"Così come un grande albero nasce da un singolo seme, il nome di Rama è il seme da cui si è sprigionato quell'immenso albero chiamato Universo. Perciò, scrivi per terra il nome "Rama", fai un giro intorno ad esso, e precipitati da Śiva a reclamare il tuo premio."
Ganesha tornò da suo padre, il quale gli chiese come avesse potuto fare così in fretta. Rispose, raccontandogli la storia ed il suggerimento di Narada; Śiva, soddisfatto della saggia risposta alla sua domanda, dichiarò vincitore suo figlio il quale da quel momento fu acclamato con il nome di Ganapati (Conduttore delle schiere celesti) e Vinayaka (Maestro di tutti).

L'appetito di Ganesha

Un aneddoto tratto dai Purana narra che il tesoriere di Svarga (il paradiso) e dio della ricchezza, Kubera, si recò un giorno sul monte Kailāśā per ricevere il darshan (la visione) di Śiva. Poiché era molto vanitoso, lo invitò ad una cena nella sua sfarzosa città, Alakapuri, in modo da potergli esibire tutte le sue ricchezze. Śiva sorrise e gli disse: "Non posso venire, ma puoi invitare mio figlio Ganesha. Ti avverto che è un vorace mangiatore!". Per nulla preoccupato, Kubera si sentiva pronto a soddisfare con la sua opulenza anche una fame insaziabile come quella di Ganesha. Prese con sé il piccolo figlio di Śiva e lo portò nella sua città; lì gli offrì un bagno cerimoniale e lo rivestì di abiti sontuosi. Dopo questi riti iniziali, iniziò il grande banchetto. Mentre la servitù di Kubera si impegnava al massimo per servire tutte le portate, il piccolo Ganesha si mise a mangiare, mangiare e mangiare... Il suo appetito non si arrestò neppure dopo aver divorato i piatti destinati agli altri ospiti; non c'era nemmeno il tempo di sostituire una portata all'altra, che Ganesha aveva già divorato tutto e, con segni di impazienza, attendeva nuovo cibo. Divorato tutto quanto era stato preparato, Ganesha prese a mangiare decorazioni, suppellettili, mobili, lampadari... Atterrito, Kubera si prostrò davanti al piccolo onnivoro e lo supplicò di risparmiargli il resto del palazzo.
"Ho fame. Se non mi dài altro da mangiare, divorerò anche te!", disse a Kubera. Questi, disperato, si precipitò sul monte Kailasa per chiedere a Śiva un rimedio urgente. Il Signore gli diede allora una manciata di riso abbrustolito, dicendo che quello l'avrebbe saziato; Ganesha aveva già ingurgitato quasi tutta la città, quando Kubera gli donò umilmente il riso. Con quel cibo, finalmente Ganesha si saziò e si calmò.


Devozione alla Madre

Una volta, da bambino, il piccolo Ganesha stava giocando con un gatto e inavvertitamente lo ferì. Quando tornò a casa, trovò la madre Parvati dolorante e ferita; le chiese come si fosse fatta male, ed ella rispose che la responsabilità non era di altri se non dello stesso Ganesha. Sorpreso, egli le domandò quando questo fosse successo. Parvati spiegò che, in quanto "Energia Divina" (o Shakti), Lei è immanente in tutti gli esseri; quando Ganesha ferì il gatto, anche Parvati fu ferita. Ganesha si rese conto che tutte le donne erano unicamente manifestazioni di sua Madre, e decise di non sposarsi. Fu così che rimase un Brahmachari, ovvero "celibe a vita"; ma d'altronde, non avendo desideri, Ganesha non sentiva alcuna necessità di avere delle mogli o dei figli.
Ganesha è anche definito Omkara o Aumkara, ovvero "avente la forma della Oṃ (o Aum)". Infatti, la forma del suo corpo ricalca il contorno della lettera sanscrita che indica il celeberrimo Bija Mantra; per questo Ganesha è considerato l'incarnazione del Cosmo intero, Colui che sta alla base di tutto ciò che è manifesto (Vishvadhara, Jagadoddhara).



I nomi di Ganesha

Come per tutte le altre Murti induiste, anche Ganesha è invocato attraverso innumerevoli appellativi che si riferiscono ai suoi attributi e caratteristiche.
Alcuni di essi:
  • Ganapathi, Conduttore delle schiere celesti (Gana)
  • Gananatha, Signore delle schiere celesti
  • Gananayaka, Maestro di tutti gli esseri
  • Omkaresha o Omkareshvara, Signore la cui forma è Oṃ
  • Gajavadana, Signore dalla testa di elefante
  • Gajanana, Signore dal volto di elefante
  • Vinayaka, Colui al di sopra del quale non esistono Maestri
  • Vighneshvara, Signore degli ostacoli
  • Vighna Vinashaka, Distruttore degli ostacoli
  • Vishvadhara o Jagadoddhara, Colui che regge l'Universo
  • Vishvanatha o Jagannatha, Signore dell'Universo
  • Mushika Vahana, Colui che cavalca il topo
  • Lambodhara, dal grosso ventre
  • Vakratunda, dalla proboscide ricurva
  • Ekadanta, dall'unica zanna
  • Shupakarna, dalle larghe orecchie
  • Pillaiyar

Un'altra murti molto amata è quella di Bala Gajanana o Bala Ganesha (lett. piccolo Ganesha o Ganesha bambino), in cui un giovanissimo Ganesha dalla piccola proboscide e dai grandi occhi viene raffigurato in braccio ai Genitori Divini, oppure mentre abbraccia dolcemente il Lingam, simbolo di Śiva.

I Festival ed il culto di Ganesha

Nell'India del sud, si festeggia un'importante festività in onore di Ganesha. Anche se è particolarmente popolare nello stato del Maharashtra, la si esegue in tutta l'India. Si celebra in dieci giorni, cominciando da Vinayaka Chaturti. Fu introdotta da Balgangadhar Tilak come mezzo per promuovere sentimenti nazionalistici quando l'India era occupata dagli Inglesi. Questo festival si celebra e culmina nel giorno di Ananta Chaturdashi quando la murti di Shri Ganesha è immersa nella più vicina riserva d'acqua: a Bombay la murti viene immersa nel Mare Arabico, a Pune nel fiume Mula-Mutha, mentre in varie città indiane del nord e dell'est, come Kolkata, le murti sono immerse nel sacro fiume Gange.
Le rappresentazioni di Ganesha si basano su simbolismi religiosi antichi migliaia di anni che culminano nella figura di una divinità dalla testa di elefante. In India le statue sono espressioni di significati simbolici e quindi non sono mai state spacciate come repliche esatte di una figura vivente. Ganesha non è visto come un'entità fisica, ma come un più elevato essere spirituale e le murti (rappresentazioni scultoree) hanno la funzione di simboleggiare la divinità come figura ideale. L'errore più comune per la concezione giudaico-cristiana occidentale è scambiare il concetto di murti con quello di idolo (culto ad oggetti fine agli oggetti di per sé stessi); c'è una profonda differenza tra i due, poiché presso la filosofia induista le murti sono punti di focalizzazione simbolica attraverso i quali è possibile raggiungere la Divinità. Per questa ragione si intraprende l'immersione delle murti di Ganesha nei fiumi più vicini, poiché questo simboleggia il fatto che esse permettono una comprensione solo temporanea di un Essere superiore; questa concezione è pertanto opposta a quella di idolo, che tradizionalmente indica il culto ad un oggetto per l'oggetto stesso, considerato divino.
Il culto di Ganesha in Giappone è stato datato all'anno 806.

La rinascita della popolarità

Recentemente, si è verificata una rinascita del culto di Ganesha e si è sviluppato un interesse sempre crescente verso questa divinità nel mondo occidentale, in seguito ad una "inondazione" di presunti miracoli: secondo la rivista Hinduism Today ed il libro Ganesha, Remover of Obstacles (di Manuela Dunn Mascetti), il 21 settembre 1995 le statue di Ganesha in India avrebbero cominciato spontaneamente a bere latte, ogni volta che un cucchiaio veniva posto davanti alla bocca di ogni statua per onorare il Dio-elefante. È riportato che il fenomeno si allargò e si verificò anche in altri luoghi, da New Delhi a New York, Canada, Mauritius, Kenya, Australia, Bangladesh, Malaysia, Regno Unito, Danimarca, Sri Lanka, Nepal, Hong Kong, Trinidad, Grenada e Italia. Questi avvenimenti furono considerati miracolosi da molte persone, e vennero interpretati come un ricordo della giocosità di Ganesha, del suo amore per i giochi e gli scherzi.

Ganesha nella cultura di massa

  • Nel noto cartone animato I Simpson, Ganesha è una delle divinità venerate dal negoziante indiano Apu con una statuetta nel suo market. Durante il matrimonio di Apu, Homer si traveste da Lord Ganesha per impedire le nozze, venendo però scoperto a causa della sua goffaggine (Tu non sei Ganesha, Ganesha è aggraziato!, esclamerà un ospite del matrimonio).
  • Ganesha è il nome di un personaggio della serie di videogiochi picchiaduro Bloody Roar, avente la capacità di assumere le sembianze di un elefante.
  • Ganesha è un personaggio giocabile nel MOBA Smite.