sabato 8 dicembre 2018

Arteterapia

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L'arteterapia è un percorso di appoggio e/o cura di indirizzo psichico. Questo tipo di tecnica con risvolti terapeutici è nata attorno agli anni quaranta, e discende da esperienze di psicoterapia dinamica e da pratiche dedotte dall'applicazione della Psicoanalisi.
«L'esperienza estetica affonda dunque le sue radici nel vissuto primario, quando è la madre che dà forma e trasforma - seguendo Bollas - l'esperienza interna ed esterna del neonato, prendendosi cura di lui in modi specifici (lo sfama, lo lava, ecc.). Con la crescita questo potenziale trasformativo viene poi riposto in altri oggetti (oggetti-soggettivati) concreti o concettuali, investiti della capacità di promuovere un profondo cambiamento del Sé; l'esperienza artistica occupa in questo contesto un posto di primo piano.»

L'arteterapia ieri e oggi

Per la musicoterapia e la teatroterapia vi sono origini che risalgono all'antichità. All'epoca, le suddette arti o le loro espressioni più coinvolgenti trovavano applicazione nella cosiddetta "normalità". Un esempio fra i tanti è la struttura del teatro greco che con i suoi rituali, ritmi e coro costituiva un "appoggio arteterapeutico" di massa senza esser stato studiato a tavolino per questo scopo, così come certi canti militari strutturati in determinato modo servivano a togliere, o meglio lenire, la paura dei combattenti allorquando si lanciavano contro l'avversario. Fra i metodi utilizzati, quelli seguiti tramite il travisamento dei partecipanti, presso la nazione delle 5 tribù, erano correlati ad una "situazione teatralizzata". Di questi parla diffusamente Sigmund Freud nella prefazione delle prime edizioni del libro Totem e tabù. Il saggio infatti risente dell'influenza dei lavori dell'antropologo James George Frazer, il cui studio è una delle basi su cui si basa la ricerca riportata nel libro stesso. La tecnica citata di tipo "teatrale", considerata come anticipazione della metodica psicoanalitica, permetteva, anzi, invitava il combattente a convocare un "consiglio degli uomini", nel caso fosse turbato da ansie anche "incomprensibili". Tale consiglio ascoltava timori, fantasie e quant'altro il "guerriero" potesse pensare fossero per lui causa di turbamento e di stati angosciosi che avrebbero, oltretutto, messo a rischio, a causa della sua scarsa o nulla efficienza in determinate circostanze, la vita sociale. Tutti i membri del Consiglio erano tenuti al silenzio, in caso contrario sarebbero incorsi in un perpetuo ostracismo cioè all'allontanamento dalla comunità di colui che avesse infranto tale norma. Si tramanda che il guerriero dopo avere aperto il proprio animo al consesso, ne provasse gran giovamento.
Nei manicomi arabi sembra fossero applicate sedute di musicoterapia, mentre nel XIX secolo il dottor Philippe Pinel (1745-1826) e discepoli introdussero tale tecnica negli Istituti di cura europei per malattie psichiche. Ma è solo dal 1950 che l'arteterapia iniziò ad avere un suo peso nell'appoggio/cura di stati psichici disturbati divenendo terapia individuale per poi espandersi, laddove possibile, al gruppo, e orientandosi con maggior vigore verso metodi di espressione non verbale.
È utile ricordare che fino ad oggi l'arteterapia, in Italia, è stata utilizzata come tecnica riabilitativa e/o di sostegno con il fine di ridurre gli handicap psicofisici di miglioramento delle capacità relazionali e di inserimento di gruppo per personalità affette da patologia che va al di là della nevrosi: è stata applicata da professionisti esperti nei più diversi campi, che vanno dalla musica alla letteratura, non arrivando mai alla psicoterapia in senso stretto, per mancanza di istituzioni che selezionassero e formassero un arteterapeuta professionalmente, con specifiche ed istituzionalizzate nozioni di psicoterapia correlate alla loro applicazione col metodo dell'Arte. Attualmente cominciano a sorgere scuole di questo tipo.
È necessario sottolineare la mancanza di una figura che sappia riunire in modo coerente una solida formazione psichiatrica-psicoanalitica con spiccate ed affermate, anche se relative, si intende, qualità artistiche. In Gran Bretagna tali interventi sono impostati da uno psicoanalista e/o psichiatra, che oltre a possedere rilevanti attitudini artistiche, corredate con bagaglio teorico necessario alla sua cosiddetta "spersonalizzazione artistica", ha la capacità di elaborare in forma terapeutica quanto può assorbire dalla seduta di arteterapia di gruppo e/o di singolo. In tal modo si viene a riunire in un unico soggetto sia lo psicoanalista che il "maestro" artista. Va anche detto che la figura dell'arteterapeuta in Inghilterra si configura come specializzazione autonoma dopo gli studi in psichiatria e psicoanalisi. In Italia la situazione è profondamente differente.
Il luogo preposto all'applicazione della metodica arteterapeutica è generalmente un laboratorio avente in dotazione materiali a basso costo e possibilmente di vario tipo e provenienza. In casi particolari però l'applicazione nella scultura richiede un particolare settore del laboratorio con attrezzi e materiale ben specifici e talvolta costosi nonché misure di protezione e sicurezza. Per le espressioni corporee come gli esercizi ginnici e la danza, lo spazio a disposizione deve esser sicuro ed adeguato alla libertà di movimenti.
In ambito localistico genovese, l'azione iniziata da Claudio Costa con lo psichiatra Antonio Slavich, ex-collaboratore[5] di Franco Basaglia, coinvolse, con gli anni, un sempre maggior numero di artisti e professionisti, Miriam Cristaldi, critico d'arte, Gianfranco Vendemiati, attuale presidente dell'associazione IMFI e l'artista, psichiatra, Margherita Levo Rosenberg, che, a partire dal 1990, conduce i laboratori di arte terapia, coadiuvata da altri artisti che si sono succeduti nel tempo. Tra questi Cea Boggiano, Serena Olivari e Alfonso Gialdini. La terapia col mezzo pittorico ha dunque una lunga storia a Quarto mentre, col mezzo scultoreo, prese avvio solo successivamente. Dopo la morte di Costa, che a Quarto aveva soprattutto portato avanti un'azione di rottura culturale con l'istituzione stessa dell'Ospedale psichiatrico - non aveva infatti competenze specifiche per occuparsi di arteterapia in senso stretto - Margherita Levo Rosenberg, cui competeva già da anni la responsabilità operativa degli atelier di arte terapia, ha assunto anche il ruolo di riferimento culturale nell'ambito dell'IMFI.

Il gruppo di lavoro

L'artista

Figura centrale, anche se non indispensabile, dell'arteterapia. Può infatti bastare un buon terapeuta con competenze artistiche indirette a curare con il medium artistico. La premessa affinché l'artista possa garantire un solido contributo in interventi di tale genere è "l'annullamento" di parte della "personalità artistica" del "maestro", o per meglio dire di quei dati caratteriali spesso legati alla cosiddetta capacità artistica che non solo possono essere di peso, ma deleteri ed invalidanti (e in primis la tendenza egocentrica dell'artista).
Gli interventi, in tal caso potrebbero essere inutili o addirittura peggiorare la situazione psichica dei discenti (malati), quindi deve esser ben chiaro al "maestro" sia il perché vuole interagire con gruppi di persone che spesso la gente "normale" tende ad evitare, sia il modo con cui intenderà impostare tale interazione.
A questo scopo sono indispensabili una serie di colloqui propedeutici prima dell'inizio del corso con uno o più professionisti, ovvero psichiatri e psicoanalisti, anche a livello personale, se possibile.
Il maestro deve fare in modo che l'allievo possa autocorreggersi limitando al massimo gli interventi diretti su di lui e lasciandogli piena libertà di affrancarsi dai propri tormenti. Lo stesso discente, con l'aiuto discreto, non invadente, del maestro, dovrà col tempo trovare un suo equilibrio applicando a sé stesso una forma di autodisciplina, indotta discretamente, non imposta, dal maestro.
«..... ma nel contempo non investe il fruitore della sua opera con un fluire caotico di manifestazioni (quasi) dirette del proprio inconscio - il processo primario allo stato puro non è dato di percepirlo.....»
(– dice Luca Trabucco, psichiatra psicoanalista)
Importante è anche il momento del consenso, da parte del fruitore, dell'opera svolta e prodotta da questo particolare tipo di rapporto fra discente e maestro. Il momento della comprensione del lavoro svolto e la gratificazione che ne deriva per il discente generano in tal modo o potenziano la sua autostima.
Trabucco prosegue:
«Tendere al contenimento del sentimento rappresenta propriamente a mio avviso il nucleo dell'esperienza del "bello", dell'esperienza estetica. Il sentimento contenuto apre alla creazione in quanto non si ha a che fare solo con l'esperienza rimossa, cioè già in qualche modo vissuta, ma con la rivelazione di aree della mente che devono essere ancora simbolizzate (v. anche Magherini, 1992, 1997), che hanno a che fare con esperienze mentali che devono trovare ancora la loro pensabilità (Tagliacozzo, 1982).»
Quindi è necessario, sotto la guida dello psichiatra-artista, che il "maestro" organizzi (o collabori quantomeno con la sua assidua presenza), incontri e/o mostre dei lavori svolti. Compito specifico dello psichiatra-artista è fare in modo che l'autostima non sfoci nella megalomania da parte dei "discenti". Dovrà altresì prendere, nel contempo, visione per l'utilizzo terapeutico, del caos fuoriuscito dal lavoro del "discente". Compito comune fra "maestro" e psichiatra-artista è dimostrare al gruppo la sussistenza, fra di loro, di rapporti di amicizia e collaborazione nella fase organizzativa degli incontri col pubblico. È questa una dimostrazione ovvia ed indispensabile che deve aver luogo durante lo svolgimento del corso scultoreo.
Uno o due incontri col futuro gruppo di discenti, presente lo psichiatra-artista, che deve osservare e aver funzione di moderatore-mediatore, sono consigliabili prima dell'articolazione della struttura operativa del corso stesso onde poter raggiungere un grado di familiarizzazione soddisfacente all'interno del gruppo. Il "maestro" deve cimentarsi senza preparazione di soggetto, anche a richiesta dei futuri possibili discenti, su un blocco di gesso o cemento che ha preparato prima, tentando di attrarre l'attenzione sul futuro lavoro scultoreo in persone che la lunga degenza nell'ospedale psichiatrico può aver reso "spente" agli stimoli. Tale situazione con i relativi "rischi" di non riuscita (qui interverrà lo psichiatra-artista nella sua funzione di mediatore-moderatore), è molto importante per la formazione del futuro gruppo e per diffondere la credenza sulle possibilità terapeutiche di tali metodi di intervento poggiandosi sull'ambiente della comunità. È inoltre di grande utilità che il "maestro" in prima persona si occupi della preparazione, rinvenimento, aggiustamento, recupero, revisione degli attrezzi necessari per i quali è fondamentale la messa a punto e posizione idonea per poter interagire col gruppo di discenti. È necessaria anche la presenza di pesanti e robusti "cavaletti" ovvero di banconi da lavoro. In tale azione è coinvolta la comunità presente, non solo i futuri discenti, con l'aiuto fattivo e relazionale della comunità degli ausiliari più adeguati e pazienti verso un tipo di lavoro inusuale.
  • Ovvero il "maestro" deve mettere a disposizione la sua capacità tecnica empatica e di immaginazione, ponendosi sempre in secondo piano rispetto allo scopo preposto, che è l'appoggio terapeutico, ed alle indicazioni dello psichiatra-artista conduttore del gruppo, non escludendo il fatto che all'interno di esso vi possano essere dei veri artisti "in nuce". A questo proposito il cui caso più significativo fu quello di Davide Mansueto Raggio seguito personalmente da Claudio Costa, per riferirci solo all'ambito genovese. Certo non può esser fatta l'equivalenza "disturbato" = artista in nuce. Il "maestro" non opportunamente preparato rischia infatti un'oscillazione estremizzante fra i due aspetti suddetti a tutto discapito della riuscita degli obbiettivi del corso.



La figura dello psichiatra-artista

Pianta del Museattivo Claudio Costa, le parti colorate sono i giardini che circondano l'edificio. I cerchietti piccoli son numerati e son serviti indicativa di dove i lavori. I due tondi blu indicano il tavolo delle riunioni (quello più grande) nella "sala Musica", l'altro più in basso il portone interno di passaggio per il corridoio che portava al bar gestito dai pazienti, e, andando avanti, alla sala mostre utilizzata sia per i degenti sia per gli artisti professionisti) posizionata sulla sinistra, dalle quale sempre sulla sinistra si usciva nel "Giardino delle Sculture". Il secondo giardino più piccolo in basso è quello nel quale si tenevano i corsi di scultura mentre il "Giardino delle Sculture" con le opere permanentemente in mostra è rappresentato dalla fascia colorata al di sopra della mappa di interno uscendo dalla sala mostre. Adesso tutto il museo è spostato in uno degli edifici prospicienti al complesso terapeutico casa Michelini mentre il Giardino delle Sculture è stato riposizionato nei diversi giardini di tale complesso; nell'ampio spazio dentro l'edificio fra i primi due corridoi, visualizzati in basso nella mappa, era sistemato il laboratorio arterapeutico della psichiatra-artista Margherita Levo Rosenberg
Il coconduttore del gruppo assieme al "maestro" scultore deve essere inevitabilmente uno psichiatra, ovvero un esperto dei rapporti che dovranno instaurarsi con i vari discenti e che ne conosca la singolare storia. Lo psichiatra si occuperà della scelta del gruppo assieme al "maestro" dopo aver vagliato le capacità del "maestro scultore" che a sua volta vaglia il rapporto empatico che ha con lo psichiatra. Non vi possono essere disaccordi di fondo sulla gestione del gruppo, e la priorità di decisione l'ha lo psichiatra, ovviamente.
Molto spesso si occupa di questo settore uno psichiatra con forti tendenze artistiche, se non artista lui stesso, e non è escluso uno specialista assolutamente al di fuori sia delle problematiche che degli aspetti estetici. In tal caso potrebbe però essere meno agevole il già complesso rapporto empatico fra psichiatra e "maestro" scultore perché verrebbe a mancare una linea di interesse comune al di là del lavoro sul gruppo. Anche se gli stili prediletti da psichiatra e "maestro" possono essere diversi, la loro sensibilità ed esperienza devono comunque guidarli nella scelta ritenuta migliore per i discenti.
«Lo spazio, il luogo in cui viviamo o fantastichiamo di vivere, le strade, gli alberi, i giardini coi quali conserviamo una relazione, assumono nei nostri pensieri una tonalità affettiva, legata alle esperienze ed ai ricordi che in qualche modo vi sono legati.
Così come altri luoghi, anche i giardini dell'ex ospedale psichiatrico di Quarto, legati com'erano, nell'immaginario collettivo, alla realtà storica di emarginazione, circondati da un alone di mistificazione rispetto alla realtà del disagio psichico, vissuti come topoi [Τόποι] della follia e del degrado, abitati da gatti e scarafaggi, contaminati da malattie e malati, non hanno goduto di buona reputazione fino a pochi mesi or sono.»
lo spazio reinventato di Margherita Levo Rosenberg, conduttrice degli interventi con metodo scultoreo, e prosegue
«Ora, da qualche giorno, il "manicomio" è chiuso. Chiuso per sempre con le sue torri che sembravano inespugnabili, chiuse anche le ultime roccaforti della resistenza strenua di chi ha creduto, fino alla fine, nella cura della malattia come nella custodia di un segreto.»
È altresì indispensabile, durante il ciclo di incontri, tenere più o meno brevi riunioni con lo psichiatra-artista, che conduce il corso assieme al "maestro", subito prima e subito dopo ogni incontro. Subito prima, sia affinché lo/la psichiatra renda edotto il maestro delle sue deduzioni sull'incontro precedente sia per la tattica da seguire nell'imminente incontro che può variare a seconda dell'umore anche momentaneo dei "discenti" e della dinamica del gruppo. È anche utile, se non indispensabile, un corso comune fra maestro e psichiatra-artista supervisionato da un terzo psicologo, "direttore" del corso, ma non partecipante al corso. Quest'ultimo può al massimo effettuare rapide visite senza alcun intervento sul gruppo. Ovvero il tipico osservatore esterno, parafrasando il gergo usato nelle scienze fisico-matematiche. Il colloquio personale fra psichiatra-artista e maestro è necessario non solo per analizzare quanto fatto per progettare un successivo incontro ma anche per il "maestro" che se fortemente empatico (cosa utilissima per lo svolgimento del corso a condizione che non faccia trasparire in modo disturbante le emozioni), ha bisogno del supporto della Psichiatra-artista per elaborare il dolore "assorbito" dal gruppo dei malati e dall'ambiente. Più il corso va avanti, più questa fase diventa meno pesante per motivi di adeguamento da parte del "maestro" sia al gruppo che all'ambiente.

Gli ausiliari

Nelle prime fasi la presenza di ausiliari è dovuta a motivi di sicurezza e di intervento immediato vista la pericolosità degli attrezzi utilizzati nello specifico della scultura. L'esperienza dimostra comunque che pur con tensioni non ci son stati mai episodi che richiedessero un intervento diretto degli ausiliari, la cui presenza può essere sempre meno indispensabile e anche sparire del tutto se il corso ottiene buoni risultati. Da questo si deduce che anche il personale ausiliario dovrà avere un ottimo rapporto con i malati in questi tipi di interventi. Gli ausiliari possono "sparire" del tutto, ma la loro presenza è generalmente gradita e utile per aumentare il peso del rapporto empatico positivo di gruppo.
Le prime azioni che misero in contatto diretto i malati con strumenti utilizzabili come armi sotto il controllo di ausiliari specializzati in tale tipo di terapie di gruppo furono poste in atto dagli operatori psichiatrici di Pratozanino (ospedale psichiatrico di Cogoleto) che diedero vita con i malati a una comunità agricola. Tale intervento, pur non essendo "arteterapico" ha avuto un'importanza storica proprio perché, come si è già accennato, si avvaleva di tecniche scultoree, ponendo i malati a contatto diretto con attrezzi usabili come armi: l'intervento ebbe pieno successo e permise alla comunità stessa di prosperare per lungo tempo.
Bisogna mettere in evidenza che tale intervento, fra i più efficaci del settore, non è stato sottolineato mediaticamente in maniera proporzionale al suo peso, forse perché (ricordando Sigmund Freud col suo detto sulla Saggezza della Balia, che dopo tanti anni di studio si rese conto quanto capisse una buona balia per istinto ed intuizione) partì in maniera pratica, di intuito, da "subalterni", anche se successivamente fu poi supportato anche da una parte dei medici dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto.

Il gruppo dei discenti

Il gruppo formato dai discenti non può andare oltre le cinque unità, visto che il "maestro" dovrà tendere a seguirli in modo equo (in considerazione anche della complessità e della particolarità dell'intervento nel senso tecnico della parola), ovviamente con le dovute eccezioni per le quali è instradato dallo psichiatra-artista.

Il problema del vandalismo nel suo risvolto originale dell'aggressività

Una chiarezza su questa problematica è indispensabile sia per la scelta e la strutturazione del gruppo sia per il buon rendimento del gruppo stesso. Ciò è diretta conseguenza della metodica usata, in quanto gli attrezzi vengono impiegati per colpire ovvero "offendere" il materiale duro, che pur sicuri che non è niente di vivo, per alcuni degenti rappresenta un atto collegato ad aspetti del loro carattere che ha bisogno di esser tenuto sotto controllo in modo ferreo. Accade infatti che, per coloro che possiedono un'aggessività superiore alla media nel gruppo discente, ci siano difficoltà a colpire il sasso in quanto hanno paura loro stessi della propria potenziale aggressività e di usare gli attrezzi non solamente per lavorare il sasso.
Ricapitolando, nel corso preparatorio per un intervento di tipo scultoreo, e durante il suo sviluppo, assume fondamentale importanza, il problema dell'aggressivisità. Non tanto per il banale motivo che si utilizzano attrezzi che potrebbero anche essere mezzi di offesa, ma piuttosto per il correlato psichico che invece permette di sfruttare, opportunamente guidato e controllato, il moto aggressivo. La relazione fra vandalo ed artista ha radici molto antiche nel vissuto personale, ed il vandalismo è strettamente legato all'aggressività, per cui è indispensabile aver nozioni sull'argomento inerenti aspetti psichici della scultura e nello specifico in riferimento al correlato aggressivo prima di poter intervenire mediante una tecnica scultorea come mezzo di appoggio terapeutico.
Si sono occupati di questi aspetti numerosi studiosi della mente e un buon numero di scultori. Dal relativo saggio di Simona Argentieri, studiato nella sua estensione, si traggono utilissime indicazioni, visto anche che come soggetto di studio è considerato fondamentalmente Michelangelo:
«Creatività artistica e creatività del sé. La scultura - secondo il detto leonardesco che tanto piaceva a Sigmund Freud - è un'arte "per via di togliere", nella quale è più evidente il contrappunto tra il "creare" ed il necessario parallelo "distruggere" la forma precedente della pietra: a colpi violenti di scalpello il marmo si infrange e si frantuma per lasciare emergere la nuova immagine [...] Ogni creazione (lo dice anche Giulio Carlo Argan) è un atto distruttivo.»
(Simona Argentieri, membro dell'International Psychoanalytical Association; analista didatta dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi SPI)
Ovvero l'opera attaccata dal vandalo o creata dall'artista, oltre ad aver basi comuni a livello di azione fisica può essere anche una sintesi fra azione di distruttività e creatività nel caso dell'artista. Simona Argentieri spiega tali concetti focalizzando l'attenzione sulla Pietà Rondanini.
Secondo la studiosa vi sono collegamenti simbolici a ricordi molto più antichi della mente, difficilmente recuperabili in modo cosciente, sia in senso distruttivo, che riparatorio, che in entrambi i sensi. Tali collegamenti, essendo indissolubilmente legati fra di loro, sono talvolta difficilmente recuperabili verbalmente anche con tecniche psicoanalitiche del profondo.
L'impulso "vandalico", quindi, è utilizzabile se guidato ed instradato verso la creatività, in senso lato non strettamente artistico, ovvero la costruzione di un oggetto che soddisfi l'autore e permetta di esser mostrato e quindi entrare in relazione col fruitore: tale elaborazione dell'impulso vandalico, ovvero aggressivo, per tornare alla sua radice, ricorda il verso:
«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori»
(Fabrizio De André - Via del campo)
La definizione di atto distruttivo data da Giulio Carlo Argan, per indicare sinteticamente il processo creativo, è da prendere nel contesto del discorso di Argan e non nel senso letterale del termine, ovviamente, e viene espresso con forza per sottolinearlo; Simona Argentieri analizza poi nel dettaglio le evoluzioni della pietà di Michelangelo fino alla Rondanini.
D'altro canto Sir Herbert Read, poliedrico scrittore, critico e poeta, parla della possibilità di trasformare un impulso aggressivo in maniera creativa e la sua intuizione è stata rielaborata e sviluppata in modo da poter essere utilizzata come parte del sostrato teorico per gli interventi con la tecnica scultorea su materiale duro. Secondo Herbert Read l'impulso aggressivo-distruttivo può essere trasformato in qualcosa di creativo. Un'evoluzione della sua intuizione prende atto che l'impulso di per sé stesso non si può, in generale, trasformare ma si può utilizzare in modo diverso, così come un'ascia può servire per spaccar teste come facevano i Frisoni o si può usare per far legna da ardere per cuocere i cibi.
Quando il malato psichico con tendenze aggressive spezza un blocco di materiale duro, certo che c'è il piacere distruttivo, così come c'è nel "maestro" scultore, ma vedendo che quel gesto se instradato può fare "cose belle", nel senso anche soggettivo del termine, (ovvero sculture nello specifico in questione), il piacere distruttivo viene soppiantato, in parte, ma mai azzerato, dal piacere della riuscita dell'opera e quindi vi è come logica conseguenza una forma di controllo e finalizzazione creativa della distruttività stessa, ed in prima istanza dell'aggressività generatrice della distruttività: il piacere di spezzare il sasso, in quanto gesto distruttivo, rimane, ma è subordinato alla costruzione del lavoro scultoreo.
La comprensione, ovvero il prender atto della realtà, cioè che l'impulso aggressivo non è trasformabile interamente e/o tout court è fondamentale per il buon fine dell'intervento di appoggio terapeutico. Questa conclusione può infastidire il "maestro" stesso, perché può essere vista sminuente della "purezza" e "l'importanza", soprattutto, del "risultato" dell'intervento "artistico" sui particolari discenti. Torniamo quindi alla necessità della preparazione sul retroterra psichico, nel campo specifico della scultura, ma non solo, che deve possedere il "maestro", d'altro canto in generale è sempre meglio prendere atto dei limiti che la realtà impone e l'intervento di appoggio terapeutico, proprio per i suoi fini, deve esser ben radicato nella realtà.
A prescindere dal problema dell'aggressività, ma comunque correlato, in quanto riguarda problemi di vissuto personale del discente specifico o dell'artista in genere, hanno altresì importanza fondamentale gli scritti di Henry Moore sulla figura guida, che, a suo dire, confermato da Sir Herbert Read, è la figura di donna, il breve scritto di Émile-Antoine Bourdelle sul problema del rapporto fra lo scultore ed il "Dio" (o "Dei", volendo), la "confessione" di Arturo Martini inerente alla fonte fondamentale della plastica della sua opera, il lavoro (sulla Sindrome di Stendhal) di Graziella Magherini Psicoanalisi e arte tra emozione e ricerca Michelangelo e il linguaggio degli affetti, il lavoro di Luca Trabucco Edvard Munch. Arte e trasformazione della sofferenza mentale. Riflessioni psicoanalitiche su un percorso artistico, per citarne solo alcuni.


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venerdì 7 dicembre 2018

Raijin

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Raijin (雷神 raijin) nella mitologia giapponese è il nome che indica il dio del tuono e dei fulmini. Il nome deriva dalla parola giapponese rai ( tuono) e shin ( dio). Viene rappresentato spesso con sembianze di demone e con dei tamburi con i quali crea i tuoni.
Raijin è conosciuto anche con i nomi seguenti:
  • Kaminari-sama: kaminari (, tuono) e -sama (, una forma onorifica giapponese)
  • Raiden-sama: rai (, tuono), den (, luce), e -sama
  • Narukami: naru (, Tonante) e kami (, dio)
Nell'iconografia giapponese viene ritratto anche assieme a Fūjin, il dio del vento.


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giovedì 6 dicembre 2018

Ankō

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Ankō (安康天皇, Ankō Tennō; ... – ...) è stato il 20º imperatore del Giappone secondo la lista tradizionale di successione.
Nessuna data certa può essere assegnata al suo regno, ma si ritiene che abbia governato nella metà del V secolo.
Secondo il Kojiki e il Nihonshoki fu il secondo figlio dell'imperatore Ingyō. Il suo fratello maggiore Kinashikaru no Miko (principe Kinashikaru) era il primo in linea di successione, ma a causa della sua relazione incestuosa con la sua mezza sorella perse il favore della corte. Dopo un tentativo abortito di sollevare delle truppe contro Ankō, Kinashikaru si suicidò insieme alla sorella.
Ankō fu assassinato nel suo terzo anno di regno da Mayowa no Ōkimi (principe Mayowa) come vendetta per l'esecuzione del padre di Mayowa.

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mercoledì 5 dicembre 2018

Religione delle Ryūkyū

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La religione delle Ryūkyū è il sistema di credenze indigeno delle Isole Ryukyu. Mentre le tradizioni e le leggende locali variano da luogo in luogo e da isola in isola, la religione delle Ryukyu è in genere caratterizzata dall'adorazione degli antenati e al rispetto dei rapporti tra i vivi, i morti e gli dei e gli spiriti del mondo naturale. Alcune delle loro credenze, come la presenza di spiriti genius loci e molti altri esseri classificati a metà strada tra divinità e uomini, sono indicative delle antiche radici animistiche, come il loro interesse nel mabui (マブイ), o essenza della vita.
Con il tempo le pratiche della religione di Ryukyu è stata influenzata dalle religioni cinesi (Taoismo, confucianesimo, e dalle credenze popolari), dal Buddismo, dallo Scintoismo e dal cristianesimo. Una delle loro più antiche credenze è l'onarigami (オナリガミ), la superiorità spirituale della donna, che permette la crescita di una cultura noro (priora, prete donna) e un seguito significativo per le yuta (medium femminili).

Famiglia

La religione delle Ryūkyū con la sua attenzione all'adorazione degli antenati, è naturalmente basata sul concetto di famiglia. La donna più anziana della famiglia agisce come celebrante principale, officiando rituali che riguardano gli antenati, le divinità della casa e quei familiari che vivono dentro e fuori casa. Viene offerto incenso quotidianamente e le preghiere sono fatte ad alta voce. La donna più anziana è anche responsabile per la pulizia e la manutenzione della buchidan (altare degli antenati), dell'hinukan (focolare di Dio) e del furugan (bagno di Dio).

PREMURE Mark

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martedì 4 dicembre 2018

Kamikaze

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Kamikaze (神風) è una parola giapponese, di solito tradotta come vento divino (kami significa "divinità" — un termine fondamentale nello shintoismo — e ka-ze sta per "vento"; ka inspirare e ze espirare). Internazionalmente e in generale è riferita agli attacchi suicidi eseguiti dai piloti giapponesi (su aerei carichi di esplosivo) contro le navi alleate verso la fine della campagna del pacifico nella seconda guerra mondiale. Il termine è mutuato dal nome di un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione mongola inviata da Kublai Khan nel 1281. In Giappone la parola "kamikaze" viene riferita a questo tifone.
Gli attacchi aerei furono l'aspetto predominante e meglio conosciuto di un uso più ampio di attacchi — o piani — suicidi da parte di personale giapponese, inclusi soldati che indossavano esplosivo ed equipaggi di navi cariche di bombe. In giapponese il termine usato per le unità che eseguivano questi attacchi è tokubetsu kōgeki tai (特別攻撃隊, letteralmente "unità d'attacco speciale"), solitamente abbreviato in tokkōtai (特攻隊). Nella seconda guerra mondiale le squadre suicide provenienti dalla Marina imperiale giapponese furono chiamate shinpū tokubetsu kōgeki tai (神風特別攻撃隊), dove shinpū è la lettura-on (cinese) dei kanji che formano la parola "kamikaze"; le formazioni kamikaze delle forze aeree dell'Esercito imperiale giapponese erano invece denominata unità Shinbu (神武).
Dalla fine della seconda guerra mondiale, la parola kamikaze è stata applicata a una varietà più ampia di attacchi suicidi, in altre parti del mondo ed in altre epoche. Esempi di questi includono Selbstopfer nella Germania nazista durante la seconda guerra mondiale ed attentati suicidi di natura terroristica e militare. L'uso internazionale corrente del termine kamikaze per identificare attentati suicidi di natura terroristica - o di qualsiasi altra natura - non viene adottato dalla stampa nipponica, che invece gli preferisce jibaku tero (自爆テロ), abbreviazione della locuzione anglo-giapponese jibaku terorisuto (自爆テロリスト, "terroristi autoesplodenti").

Seconda guerra mondiale

Situazione

Le forze giapponesi, dopo la loro sconfitta nel 1942 alla battaglia delle Midway avevano perso l'iniziativa che avevano dal principio della guerra scoppiata nel Pacifico a dicembre 1941 (conosciuta ufficialmente in Giappone come "Grande Guerra dell'Asia Orientale"). Nel 1943-44 le forze alleate, sostenute dalla potenza industriale e dalle risorse naturali degli Stati Uniti d'America stavano avanzando costantemente verso il Giappone.
I caccia giapponesi erano ormai messi in minoranza e surclassati dai nuovi caccia USA, particolarmente l'F4U Corsair e il Grumman F6F Hellcat e, a causa delle perdite in combattimento, i piloti di caccia abili stavano diventando sempre più rari. Infine la scarsezza di parti di ricambio e di carburante rendevano problematiche anche le normali operazioni di volo.
Il 15 luglio 1944, l'importante base giapponese di Saipan venne occupata dalle forze alleate. Ciò rese possibile l'uso dei bombardieri a lungo raggio B-29 Superfortress per colpire direttamente il Giappone. Dopo la caduta di Saipan l'alto comando giapponese predisse che il prossimo obiettivo degli alleati sarebbero state le Filippine, strategicamente importanti per la loro posizione tra il Giappone ed i campi petroliferi del sud est asiatico.
Questa predizione si avverò il 17 ottobre 1944 quando le forze alleate assaltarono l'isola di Suluan iniziando la battaglia del Golfo di Leyte. Alla 1ª Flotta Aerea della Marina imperiale giapponese con base a Manila venne assegnato l'incarico di assistere le navi giapponesi che avrebbero tentato di distruggere le forze alleate nel golfo di Leyte. La 1ª Flotta aerea disponeva di soli 40 aerei: 34 Mitsubishi A6M imbarcati su portaerei e 3 aerosiluranti Nakajima B6N Tenzan, 1 Mitsubishi G4M, 2 bombardieri Yokosuka P1Y Ginga e un aeroplano da ricognizione. Il compito che dovevano affrontare le forze giapponesi pareva totalmente impossibile. Il comandante della Prima Forza Aerea, il viceammiraglio Takijirō Ōnishi decise di formare una "Forza d'Attacco Speciale Kamikaze"; Onishi divenne il "padre dei kamikaze". In un incontro all'aeroporto di Mabacalat (Clark Air Base) vicino a Manila, Onishi che stava visitando i quartieri del 201º Corpo Navale di Volo suggerì: «Non penso che ci sia un'altra maniera di eseguire l'operazione che mettere una bomba da 250 kg su uno Zero e farlo sbattere contro una portaerei per metterla fuori combattimento per una settimana.»

La prima unità kamikaze

Il comandante Asaiki Tamai chiese a un gruppo di abili studenti di volo che aveva personalmente addestrato di unirsi alla forza di attacco speciale. Tutti i piloti alzarono entrambe le mani, dando pertanto l'assenso a unirsi all'operazione. Più tardi Asaiki Tamai chiese al tenente Yukio Seki di comandare la forza di attacco speciale.
Si dice che Seki Yukio abbia chiuso gli occhi ed abbassato la testa per dieci secondi prima di chiedere: «La prego di lasciarmelo fare».
Yukio Seki divenne pertanto il 24° pilota kamikaze ad essere scelto.
Dunque, il 20 ottobre 1944 è la data di nascita del reparto kamikaze, formato da 24 piloti del 21º Stormo:
  • Unità d'Attacco Speciale Tokkoutai (abbreviazione di Tokubetsu Kougekitai) "Shinu"
    • Unità Shikishima (Isola Bella)
    • Unità Yamato (Razza Giapponese)
    • Unità Asahi (Sol Levante)
    • Unità Yama-zakura (Fiori di Ciliegio Selvatico di Montagna)
Questi nomi furono tratti da un poema patriottico (waka o tanka) dello studioso giapponese classico Motoori Norinaga, scritta nel XVIII secolo:
Shikishima no
Yamatogokoro wo
Hito towaba
Asahi ni niou
Yama-zakura bana
(in italiano: Se mi chiedete cos'è l'anima della razza giapponese della bella isola, rispondo che è come fiore di ciliegio selvatico ai primi raggi del sol levante, puro, chiaro e deliziosamente profumato.)

I primi attacchi

Almeno una fonte cita un episodio di aeroplani giapponesi scontratisi con la portaerei USS Indiana e l'incrociatore leggero USS Reno a metà del 1944, considerandoli come i primi attacchi kamikaze della seconda guerra mondiale, ma le prove che questi scontri fossero intenzionali e non collisioni accidentali, possibili durante intense battaglie aeronavali, sono scarse.
Secondo le testimonianze del personale alleato, il primo attacco kamikaze — nel senso generalmente accettato del termine — non venne eseguito dall'unità di Tamai, ma da un pilota giapponese non identificato. Il 21 ottobre 1944 l'ammiraglia della Marina Reale Australiana, venne colpita da un aeroplano giapponese armato con una bomba da 200 kg (441 libbre), dopo che il pilota giapponese aveva tentato di attaccare l'altro incrociatore australiano HMAS Shropshire che navigava a poca distanza; l'aereo era stato danneggiato seriamente dal fuoco antiaereo della Shropshire e se ne allontanò a bassissima quota (50 piedi, meno di 20 metri) in direzione della Australia. Le mitragliere a 8 canne di tipo pom-pom, due cannoni Bofors da 40mm e due da 20mm della nave cercarono di impegnare l'aereo senza risultato ma probabilmente disturbando il pilota, e questo colpì l'albero anteriore, sopra il ponte di comando; vennero danneggiati il ponte di comando che era scoperto come in genere nelle navi britanniche dell'epoca, la centrale di controllo del tiro antiaereo e la piattaforma della girobussola, spargendo carburante e detriti su una vasta area. La bomba non esplose, altrimenti la detonazione avrebbe potuto effettivamente distruggere la nave. Nell'attacco morirono almeno 30 membri dell'equipaggio incluso l'ufficiale comandante, il capitano Emile Dechaineux, e la maggior parte del personale del ponte rendendo la nave di fatto inoperativa; tra i feriti ci fu il commodoro John Collins, comandante della forza australiana. Alcuni ritengono che l'attacco fosse suicida senza alcun dubbio ma non frutto di una tattica preordinata, come altri episodi verificatisi fin dal 1942.
Il 25 ottobre l'Australia venne colpito nuovamente e forzato a ritirarsi nelle Nuove Ebridi per le riparazioni. Quello stesso giorno cinque caccia Zero condotti da Seki attaccarono una portaerei di scorta: la USS St. Lo. Sebbene solo un kamikaze riuscì a colpirla con efficacia, la bomba a bordo dell'aereo causò un incendio che fece esplodere il deposito bombe, affondando la portaerei. Altri colpirono e danneggiarono altre navi alleate, tra cui le portaerei di scorta USS Santee, USS Suwannee, USS Kitkun Bay e USS Kalinin Bay. Poiché molte portaerei americane avevano ponti di volo in legno, furono considerate più vulnerabili agli attacchi kamikaze rispetto alle portaerei britanniche della Flotta Britannica del Pacifico, dotate di ponti in acciaio.
L'Australia ritornò nella zona di combattimento nel gennaio 1945, prima della fine della guerra subì (e sopravvisse) sei diversi attacchi di kamikaze, con una perdita totale di 86 vite. Tra le navi principali che sopravvissero ad attacchi multipli di kamikaze durante la seconda guerra mondiale, vanno ricordate l'Intrepid e la Franklin, entrambe della classe Essex.

L'ondata principale degli attacchi kamikaze

I primi successi, come l'affondamento della St. Lo portarono a uno sviluppo immediato del programma e nel giro dei mesi successivi vennero lanciati oltre 2000 attacchi suicidi. Nel computo vanno compresi le azioni di guerra eseguite con le bombe razzo Yokosuka MXY7 Ohka ("Bocciolo di ciliegio", ribattezzate Baka: "folle" dagli statunitensi), pensate come una sorta di missili a guida umana e costruite appositamente per questo scopo, e gli assalti condotti con piccole barche imbottite d'esplosivo, o torpedini guidate dette kaiten.
Gli aerei kamikaze espressamente costruiti come tali, a differenza dei caccia o bombardieri in picchiata convertiti allo scopo, non possedevano meccanismi di atterraggio. Un aeroplano progettato specificamente, il Nakajima Ki-115 Tsurugi, era realizzato con una struttura in legno, semplice da costruire e pensato per utilizzare le scorte di motori rimanenti. Il carrello non era retrattile e veniva sganciato poco dopo il decollo per consentire il riutilizzo con altri aeroplani.
Il picco dell'attività venne toccato il 6 aprile 1945 durante la battaglia di Okinawa, quando varie ondate di aeroplani condussero centinaia di attacchi durante l'Operazione Kikusui (Crisantemi galleggianti). A Okinawa gli attacchi dei kamikaze si focalizzarono all'inizio sui cacciatorpediniere in servizio di protezione e quindi sulle portaerei al centro della flotta. L'offensiva, per cui vennero utilizzati 1465 aeroplani, seminò distruzione: i resoconti delle perdite variano, ma per la fine della battaglia almeno 21 navi americane erano state affondate dai kamikaze, insieme a navi alleate di altra nazionalità e dozzine di altre erano state danneggiate.
L'offensiva comprese la missione di sola andata della nave da battaglia Yamato, che non riuscì a raggiungere le vicinanze dell'operazione perché affondata dagli aerei alleati a diverse centinaia di miglia di distanza.
A causa della scarsità del loro addestramento, i piloti kamikaze tendevano ad essere facili prede per gli esperti piloti alleati, che pilotavano aerei di molto superiori. Anche gli equipaggi navali alleati iniziarono a sviluppare tecniche per neutralizzare gli attacchi dei kamikaze, come sparare con i cannoni navali di grosso calibro nel mare lungo la direzione di attacco, per poterli inondare. Queste tattiche non potevano essere usate contro gli Okha ed altri attacchi veloci portati in picchiata dall'alto, ma questi ultimi aerei erano più vulnerabili al fuoco antiaereo e ai caccia Alleati.
Nel 1945 l'esercito giapponese iniziò ad accumulare scorte di centinaia di Tsurugi, di altri aerei a elica, di Ohka e di navi suicide per fronteggiare le forze alleate, che si aspettavano avrebbero invaso il Giappone. Pochi di essi vennero usati.


L'uso come difesa contro i raid aerei

Quando il Giappone iniziò ad essere soggetto al bombardamento strategico da parte dei bombardieri B-29 Superfortress dopo la cattura di Iwo Jima l'esercito giapponese tentò di usare attacchi suicidi contro questa minaccia.
Comunque questa si dimostrò molto meno fruttuosa e pratica, poiché un aeroplano era un bersaglio molto più piccolo, manovrabile e veloce di una tipica nave da guerra. Aggiungendo a ciò il fatto che il B-29 possedeva un formidabile armamentario difensivo, gli attacchi suicidi contro questo tipo di aeroplano richiedevano un'abilità di volo considerevole per avere successo. Ciò era contrario allo scopo fondamentale di usare piloti sacrificabili e incoraggiare i piloti abili a balzare fuori prima dell'impatto era inefficace causando spesso la morte di personale vitale che calcolava male il tempo di uscita e falliva l'impatto e/o ne restava ucciso.

Effetti

Alla fine della seconda guerra mondiale il servizio aeronautico della marina giapponese aveva sacrificato 2.526 piloti kamikaze, mentre quello dell'esercito ne aveva sacrificati 1.387. Secondo un dato ufficiale, di fonte giapponese, le missioni affondarono 81 navi e ne danneggiarono 195, ammontando (rispetto al conteggio giapponese dei danni inflitti) all'80% delle perdite USA durante le fasi finali della guerra nel Pacifico. Secondo una fonte delle forze aeree americane:
«Approssimativamente 2.800 attaccanti kamikaze affondarono 34 navi della marina, ne danneggiarono altre 368, uccisero 4.900 marinai e ne ferirono oltre 4.800. Nonostante l'allarme dei radar, l'intercettazione in volo ed un massiccio fuoco antiaereo il 14% degli attacchi Kamikaze giungeva fino all'impatto contro una nave; circa l'8,5% delle navi colpite dagli attacchi kamikaze affondò»
(Airforcehistory)

Tradizioni e folklore

«Voi siete il tesoro della nazione; con lo stesso spirito eroico dei kamikaze, battetevi per il benessere del Giappone e per la pace nel mondo.»
(Dalla lettera scritta dal viceammiraglio Takijirō Ōnishi, principale fautore dei kamikaze, e indirizzata ai giovani giapponesi, prima di suicidarsi il 15 agosto 1945)



L'esercito giapponese non ebbe mai problemi nel reclutare volontari per le missioni kamikaze; in effetti ci fu il triplo di volontari rispetto agli aerei disponibili. In conseguenza di ciò i piloti esperti venivano scartati, in quanto considerati meglio impiegati in ruoli difensivi e di insegnamento. Il pilota kamikaze medio aveva circa 20 anni e studiava scienze all'università. Le motivazioni nell'offrirsi volontario andavano dal patriottismo, al desiderio di portare onore alle proprie famiglie, al mettersi alla prova in maniera estrema.
Venivano spesso tenute cerimonie speciali, immediatamente prima della partenza delle missioni kamikaze, nelle quali ai piloti che portavano preghiere delle loro famiglie venivano date decorazioni militari. Queste pratiche aiutavano a romanzare le missioni suicide, attraendo pertanto altri volontari. I kamikaze giapponesi inoltre indossavano la nota bandana bianca con dei motivi patriottici disegnati, chiamata hachimaki.
Secondo la leggenda i giovani piloti delle missioni kamikaze spesso volano a sud-ovest dal Giappone sopra il monte Kaimon, alto 922 metri. La montagna è anche detta "Satsuma Fuji" (indicando una montagna bella simmetricamente, come il Monte Fuji, ma situata nella regione di Satsuma). I piloti delle missioni suicide vedevano questo guardandosi alle spalle, la montagna più a sud del Giappone mentre erano in aria, dicendo addio al proprio paese e salutavano la montagna.
I residenti dell'isola di Kikajima, ad est di Amami Ōshima, dicono che i piloti delle missioni suicide lanciavano fiori dall'aria mentre partivano per la loro missione suicida. Presumibilmente le colline sopra l'aeroporto di Kikajima hanno campi di fiordalisi che sbocciano all'inizio di maggio.

Rappresentazioni artistiche ed influenza

Cinema

Il regista statunitense Steven Spielberg inserì tra i personaggi del suo film L'impero del sole un giovane giapponese, amico del protagonista, che tenta inutilmente di partecipare a una missione suicida alla fine della guerra.
Un altro film di discreto successo è l'Eien no Zero, di produzione giapponese.

Arti figurative

Lo scultore Sergio Zanni espose kamikaze di grandi dimensioni nella mostra personale al PAC (Padiglione di Arte Contemporanea) di Palazzo Massari, Ferrara, dal 4 giugno al 29 agosto 2004.

Musica

La cantante veneta Donatella Rettore e il paroliere Claudio Rego s'ispirarono largamente alle missioni dei kamikaze per il loro album Kamikaze Rock 'n' Roll Suicide (1982).
Il cantautore di musica alternativa italiana Sköll dedicò la canzone Unità di attacco Shikishima del disco Sole e Acciaio ai soldati kamikaze.


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lunedì 3 dicembre 2018

Li Shizhen

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Li Shizhen (李时珍, 李时珍, Lǐ Shízhēn, Li Shih-Chen), nome cinese di cortesia Dōngbì (東璧, 东璧), chiamato anche Bīnhúshānrén (瀕湖山人, letteralmente "Persona della Montagna del Lago") nei suoi ultimi anni, (Qizhou, 3 luglio 1518 – Qizhou, 1593) è stato uno scienziato, farmacologo e botanico cinese. Il suo contributo fondamentale alla medicina è rappresentato da un lavoro di classificazione di erbe officinali, durato quarant'anni, contenuto nella sua opera più famosa: il Běncǎo Gāngmù (本草綱目, 本草纲目, letteralmente "Compendio di Materia Medica"). Il libro ha informazioni su oltre 1.800 farmaci (medicina tradizionale cinese), contenendo 1.100 illustrazioni e 11.000 ricette. Considerato il più grande naturalista della Cina, ha descritto il tipo, la forma, il sapore, la natura e l'applicazione di 1.094 erbe officinali. La sua Materia Medica è stata tradotta in molte lingue diverse, e rimane il riferimento principale per la medicina a base di erbe. Il suo trattato contiene vari temi connessi, come la botanica, la zoologia, mineralogia e della metallurgia. Il libro è stato ristampato più volte e cinque copie dell'originale esistono ancora.

Biografia

Li Shizhen visse durante la dinastia Ming ed è stato influenzato dai pensieri del neo-confucianesimo del tempo. È nato a Waxiaopa, un piccolo villaggio a nord di Qizhou sul Fiume Giallo in quello che era Huguang settentrionale ed è oggi la provincia di Hubei, dove è morto.

Origini e infanzia

Il nonno di Li Shizhen, che è morto quando Shizhen era ancora piccolo, era stato un medico ambulante; portava con sé varie pillole mediche e aghi per agopuntura mentre viaggiava da un posto all'altro, vendendo i suoi servizi di esperto in diagnosi e guaritore. Tali medici, detti zoufang (medici erranti), perché offrivano i loro servizi visitando vari posti, particolarmente i bazar in cui si riuniva molta gente, erano anche denominati lingyi, medici del campanello, perché annunciavano la loro presenza suonando il campanello. Il nonno di Li Shizhen doveva spesso attraversare fiumi e laghi della regione di Qizhou per visitare città lontane dalla sua casa per lavorare.
Anche se questi medici itineranti erano spesso ben visti dal popolo, i medici studiosi li ritenevano semplici ciarlatani o addirittura truffatori. Il padre di Li Shizhen, Li Yenwen, aveva deciso di fare una vita migliore diventando un medico tradizionale, guaritore e studioso. Aveva raggiunto il rango di ufficiale subalterno medico della Accademia medica imperiale, essendo ampiamente rispettato dai suoi colleghi. Li Yenwen è famoso in Cina anche oggi per aver scritto la prima monografia sul ginseng, ma oltre a questo ha anche scritto libri sulle quattro tecniche diagnostiche, sul vaiolo, sulla diagnosi del polso (un metodo nel quale era pioniere), e sulle artemisie di Hubei. Nonostante ciò, i medici stessi non erano molto rispettati nella società cinese, e Li Yenwen spesso incoraggiava il suo figlio Li Shizhen a cercare una posizione burocratica nel governo. Di sua sorella e suo fratello non si sa nulla.
Nel 1531 il quattordicenne Li Shizhen superò gli esami imperiali a livello distrettuale, quindi partecipò a tre esami a livello provinciale, ma senza successo. Di conseguenza ereditò la professione del padre, studiando la medicina e curando i poveri, anche se il padre inizialmente era contrario. In una lettera, egli scrisse al padre "Il mio corpo è come una barca in controcorrente e la mia determinazione non può essere cambiata affatto. Aspetto con ansia la tua risposta e non ho paura. " In pochi anni, divenne un medico molto famoso.

Prosieguo della carriera medica

Aspirando a diventare un medico migliore, Li Shizhen visitava spesso pescatori, cacciatori, taglialegna, contadini e coltivatori di erbe medicinali, raccogliendo molte ricette popolari. Con meticolose osservazioni e ripetuti esperimenti, si impadronì di profonde conoscenze sulla natura delle varie sostanze medicinali.
Nel 1551 Li Shizhen era già un medico famoso. Una volta il figlio del re di Chu, Zhu Xian, ammalatosi improvvisamente, guarì subito dopo essere stato curato da Li Shizhen. Il re di Chu ne fu così felice che presentò Li Shizhen all'ospedale imperiale. Pochi anni dopo, ha ottenuto una posizione di governo, come assistente presidente presso l'Istituto imperiale di medicina di Pechino. Tuttavia, nonostante l'importante posizione sociale acquisita, lasciò la posizione di assistente presidente un anno dopo averla ottenuta per tornare a essere un medico tradizionale.
Li Shizhen si era appassionato degli studi medici e si chiuse nella casa dei suoi genitori per parecchi anni, leggendo con attenzione tutti i classici medici di quel tempo; inoltre studiava aree di storia e filosofia relative alla medicina e scriveva poesie. Nel campo della farmacologia, si è particolarmente interessato alla creazione di ricette che fossero tutte caratterizzate da un'erba dominante in proporzioni o misure diverse che contribuisse all'efficacia terapeutica. Un tal metodo di prescrizione richiede la conoscenza approfondita di diverse erbe che potrebbero servire da misure nelle formule, conducente al suo studio della Materia Medica.
I suoi brevi soggiorni nelle due corti reali gli hanno fornito un notevole vantaggio per il suo lavoro successivo, in quanto gli hanno fornito un'occasione di leggere rari libri di medicina, presenti nelle biblioteche mediche imperiali, estendendo così la sua conoscenza della storia della medicina, delle teorie e delle pratiche. Scoprì presto che gli erbari del passato non erano del tutto affidabili. In alcune parti la classificazione non era chiara e l'efficacia farmacologica registrata non era esatta, con contenuti superstiziosi e errati, anzi addirittura assurdo. Li Shizhen si rese conto che era suo dovere compilare un nuovo dizionario farmacologico e nel 1522, a 35 anni, cominciò allora a immergersi nella compilazione del suo Compendio di materia medica.
Il Bencao Gangmu è stato completato nel 1578, quando Li Shizhen aveva 60 anni, e fu corretto e rivisto due volte dall'autore, nel 1580 e nel 1587. Il testo finale illustrato è stato completato con l'aiuto dei suoi figli e nipoti, i quali sono stati citati come collaboratori nel libro stesso. Dopo aver affidato la stampa del libro a Hu Chenglong, muore senza vedere il libro ufficialmente pubblicato.

Opere

Avido lettore e di interessi eclettici, Li Shizhen ha inserito nella sua opera Bencao Gangmu, oltre a fatti strettamente legati alla medicina, "prescrizioni per l'osso del drago, storie di demoni e cani di fuoco, istruzioni per l'utilizzo degli specchi magici, consigli per eliminare le locuste e addirittura ricette per i piatti di pesce." Oltre al Bencao Gangmu, Li ha scritto undici libri, tra cui Bīnhú Màixué (濒湖脉学, letteralmente "Uno studio del polso"), Qíjīng Bāmài Kǎo (奇经八脉考S, letteralmente "Un esame di otto meridiani in più"), "Poesie di Suo Guan", "Casi clinici", "La chiave del passaggio delle energie interne", "Discussione di cinque organi", "Difficoltà di Sanjiaoke", "La ricerca di Mingmen," e trattati sulla poesia.

L'opera principale: il Bencao Gangmu

Li Shizhen fece stampare l'opera completa a Nanchino, accontentandosi in un primo momento delle modeste risorse di Hu Chenglong. In seguito, affinché fosse pubblicato ufficialmente, si rivolse al governo imperiale dell'imperatore Wanli, che regnò dal 1573 al 1620, il quale ricevette il libro da Li Qianyuan, dopo la morte del padre. Alla fine del libro, l'imperatore ha aggiunto la notazione: "Preso in considerazione: per essere tenuto presso il Ministero dei Riti". Il libro è stato ignorato per molti anni per essere finalmente apprezzato con un riconoscimento formale da parte del imperatore successivo. La mancanza di interesse verso il libro non è stato a causa di eventuali difetti dell'opera stessa, ma del disordine generale nel palazzo imperiale. La dinastia Ming aveva già un passato poco brillante per la pubblicazione di testi medici imperiali: vi era una sola Materia Medica ordinata durante la dinastia Ming (all'inizio del XVI secolo, poco prima della nascita Li Shizhen), e pure quella era rimasta inedita. La prima edizione ufficiale del Bencao Gangmu è stata infine pubblicata nel 1596, tre anni dopo la morte di Li Shizhen. La stampa di Hu Chenglong del libro a Nanchino è stata fatta con noncuranza, raggiungendo solo una distribuzione limitata. Delle sette copie della prima edizione che ci erano pervenute, una è stato distrutta a Berlino durante la Seconda guerra mondiale. La seconda edizione del 1603 è stata pubblicata nel Jiangxi, dopo che l'ordine dei libri dell'opera è stato modificato. Edizioni successive erano in forma migliore, anche se la maggior parte ha seguito la sistemazione della edizione del 1603.
Una piccola parte dell'opera è basata su un altro libro che era stato scritto nel quindicesimo secolo, Jingshi Zhenglei Beiji Bencao ( "Materia Medica classificata per le emergenze") che, a differenza di molti altri libri, aveva formule e ricette per la maggior parte delle voci. Nella scrittura del Bencao Gangmu, Li viaggiò molto, acquisendo un'esperienza di prima mano con molte erbe e rimedi locali e consultando oltre 800 libri che contenevano quasi tutta la medicina scritta cinese.
Il Bencao Gangmu comprende in totale "un milione e 900 000 caratteri, è suddiviso in 16 parti, 60 categorie e 50 volumi, e raccoglie 1892 medicinali e oltre 11 000 ricette." Contiene più di mille disegni che raffigurano le complesse configurazioni delle varie sostanze medicinali, in modo da facilitarne la distinzione. I successi ottenuti dal Compendio sono incarnati in vari campi. In primo luogo, riclassifica i medicinali registrati, per esempio le categorie delle sostanze vegetali ed animali, mentre solo nel 1741 gli europei avanzarono un metodo di classificazione analogo, con un ritardo di circa 200 anni. Il Compendio di materia medica revisiona e chiarisce molti contenuti errati e confusi dei predecessori, introducendo medicinali o funzioni medicinali appena scoperti. Li Shizhen criticò anche i modi di dire superstiziosi e assurdi contenuti nei testi di medicina del passato. Nell'epoca di Li Shizhen era molto diffuso il Taoismo e propagandata l'alchimia, mentre il settore medico era impregnato di idee superstiziose. Li Shizhen confutò queste errate affermazioni pseudo-scientifiche con il suo punto di vista di materialistico.
Il compendio di Materia Medica è inoltre molto più di un testo farmaceutico, dato che contiene le informazioni che riguardano aree della biologia, chimica, geografia, mineralogia, geologia, storia e perfino l'astronomia, che a prima vista sembrerebbero avere poco da fare con la farmacologia. È stato tradotto in più di 20 lingue e diffuso per il mondo. Le ristampe si stanno facendo ancora ed è usato come libro di consultazione anche oggi.
Il Bencao Gangmu era un'impresa letteraria voluminosa. L'intera opera di Li comprendeva quasi 900 libri. A causa delle dimensioni, non era facile da usare, benché fosse organizzato molto più chiaramente degli altri, che avevano classificato le erbe soltanto secondo resistenza. Ha diviso i farmaci in farmaci animali, minerali ed erbali, ed ha diviso quelle categorie a seconda della loro fonte. Dott. S. Y. Tan dice: "le sue piante sono state classificate secondo l'habitat, per esempio acquatico o roccioso, o dalle caratteristiche speciali, per esempio tutte le piante di odore gradevole sono state raggruppate insieme." Li Shizhen aveva un padronanza superba delle tecniche di registrazione. A ogni voce Li ha aggiunto:
  • "Le informazioni riguardo ad una classificazione precedentemente falsa;
  • Le informazioni sui nomi secondari, compreso le fonti dei nomi;
  • Spiegazioni, commenti e citazioni raccolti nell'ordine cronologico, compreso l'origine del materiale, apparenza, periodo dell'accumulazione, parti medicinale utili, somiglianze con altri materiali medicinali;
  • Le informazioni riguardo alla preparazione del materiale;
  • Spiegazione dei punti dubbiosi;
  • Correzione degli errori;
  • Gusto e natura;
  • Enumerazione delle indicazioni principali;
  • Spiegazione degli effetti; ed
  • Enumerazione delle prescrizioni in cui il materiale è usato, compreso la forma ed il dosaggio delle prescrizioni. „

Cultura di massa

Li Shizhen è uno dei medici più famosi della storia della medicina della Cina, e il suo contributo alla medicina continua ad essere riconosciuto. Poche sono le facoltà di medicina che non hanno il suo volto sui muri, e oltre ad essere ampiamente lodato da storici ed esperti di medicina tradizionale cinese, è ampiamente rappresentato in media più popolari e accademiche. Il suo nome appare nei discorsi di Mao Zedong, e l'attore Jet Li di recente lo ha nominato uno dei suoi eroi personali. È stato al centro di fumetti, canzoni popolari, fiction TV e film, tra i quali "Li Shizhen" di Shen Fu (Cina, 1956, b/n), "una grande epopea biografica, diretto da Shen Fu (già sceneggiatore di Crows and sparrows) e interpretato dalla grande stella dell'epoca Zhao Dan."




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domenica 2 dicembre 2018

Áo bà ba

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L'Áo bà ba è un tipo di abbigliamento tradizionale vietnamita. È principalmente associato con la parte meridionale del Vietnam, soprattutto le zone rurali.
L'áo bà ba consiste semplicemente in un paio di pantaloni di seta ed una camicia a maniche lunghe, abbotonata fino in fondo. In alcuni modelli la camicia si divide alla vita, formando due lembi distinti. Sulla parte anteriore più bassa della camicia sono tradizionali due taschini.
La semplicità e la versatilità di questo indumento hanno contribuito alla sua popolarità, ed è attualmente utilizzato da gran parte della popolazione vietnamita, sia delle zone di campagna che di quelle urbane. Le versioni più moderne dell'áo bà ba abbracciano diversi stili di design, di colori e di tessuti.



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