Nel Giappone feudale, tra i secoli XIV e XIX, poche immagini evocano con tanta potenza la figura del samurai quanto quella di un uomo in kimono e armatura, con due spade alla cintura. Non era un vezzo estetico, né un segno di vanità, ma l’espressione di una filosofia di vita e di una struttura sociale rigidamente codificata. Le due lame — la katana, lunga e affilata, e la wakizashi, corta e maneggevole — formavano insieme il daishō (大小), letteralmente “grande e piccolo”. Portarle significava appartenere a una classe superiore, a una casta di guerrieri il cui onore valeva più della vita stessa.
Nel periodo Edo (1603–1868), solo i samurai potevano portare entrambe le spade. Il daishō non era solo un’arma, ma un distintivo di rango, un lasciapassare sociale e spirituale. La katana, lunga in media tra i 70 e gli 80 centimetri, rappresentava il fulmine della giustizia, la lama che difendeva la verità e l’ordine. La wakizashi, più corta (30–50 cm), era invece la custode della dignità personale, sempre presente al fianco del samurai, anche quando la katana doveva essere deposta all’ingresso di una casa o di un palazzo.
La combinazione delle due spade costituiva una dichiarazione di
appartenenza, ma anche un impegno: vivere e morire secondo il
Bushidō, la via del guerriero.
Il daishō incarnava una
dualità profonda: forza e misura, vita e morte, azione e
contemplazione. Portarlo significava comprendere che ogni gesto,
anche il più piccolo, doveva essere in armonia con l’universo.
Forgiata con metodi quasi rituali, la katana era considerata una
creatura viva. Il fabbro, durante la lavorazione, pregava e
purificava il proprio spirito, perché si riteneva che la lama
assorbisse una parte dell’anima del suo creatore.
Con il suo
inconfondibile profilo curvo e la lama monofilare, la katana era
progettata per tagliare con un solo, fluido movimento. L’arte del
kenjutsu, la scherma giapponese, era fondata sul
principio dell’“ichigeki hissatsu”: un colpo,
una morte.
In battaglia, la katana era l’estensione del corpo e della
mente. L’addestramento mirava a unire movimento e intenzione, fino
a raggiungere uno stato di vuoto mentale chiamato mushin
— l’assenza di pensiero, dove la spada si muove da sola, guidata
dall’intuizione pura.
Per i samurai, questa lama era molto più
di un’arma: era l’anima stessa del guerriero, la
prova tangibile della sua rettitudine. Perdere la katana significava
perdere la faccia, l’onore e il diritto stesso di esistere come
samurai.
Se la katana era il sole, la wakizashi era la luna. Compagna
inseparabile, la si portava sempre, anche durante il sonno.
Nei
castelli, dove la katana doveva essere lasciata all’ingresso, la
wakizashi restava al fianco del samurai come ultima difesa.
Le sue dimensioni ridotte la rendevano ideale negli spazi chiusi,
nelle lotte corpo a corpo o nei corridoi stretti dove la lama lunga
era d’impaccio.
Ma la sua funzione più simbolica era quella rituale:
la wakizashi era la spada del seppuku, il suicidio
d’onore. Quando un samurai falliva il proprio dovere, tradiva il
suo signore o perdeva la faccia, poteva riscattare la sua vergogna
aprendo il ventre con la lama corta, dimostrando coraggio e purezza
d’intenti fino all’ultimo respiro.
In questo atto estremo, la
wakizashi diventava l’ultima parola dell’uomo libero,
l’affermazione suprema del controllo su sé stesso e sul proprio
destino.
Contrariamente a quanto spesso si crede, le due spade non erano
usate simultaneamente da tutti.
La katana era
l’arma principale nei duelli o negli scontri in campo aperto,
mentre la wakizashi entrava in gioco in situazioni
più ravvicinate. Tuttavia, alcune scuole svilupparono l’arte di
usarle insieme.
Il più celebre fu Miyamoto Musashi (1584–1645),
leggendario spadaccino e autore del Libro dei Cinque Anelli.
Nella sua scuola, la Niten Ichi-ryū, egli insegnava
a brandire katana e wakizashi contemporaneamente: la mano destra
manovrava la spada lunga, la sinistra la corta.
Per Musashi,
questa tecnica non era solo strategica ma filosofica:
rappresentava l’armonia tra yin e yang, tra il cielo e la terra.
Due lame, due forze complementari in perfetto equilibrio.
Ogni spada era unica. La sua creazione richiedeva giorni di lavoro
e una ritualità quasi sacra. Il fabbro usava il tamahagane,
un acciaio prodotto da sabbie ferrose, riscaldato, piegato e battuto
centinaia di volte per ottenere una lama dura all’esterno e
flessibile all’interno.
La linea ondulata della tempra, il
celebre hamon, era la firma del maestro e la prova
del perfetto bilanciamento tra bellezza e funzionalità.
Molte katane avevano nomi propri — come esseri viventi. Si diceva che una spada avesse “sete di sangue” o fosse “benedetta”. Alcune venivano tramandate di generazione in generazione, altre sepolte con il loro proprietario.
Il daishō non era solo un’arma: era un microcosmo di valori
morali e simbolici. La katana insegnava disciplina, la
wakizashi introspezione.
Insieme rappresentavano il perfetto
equilibrio tra azione e riflessione, tra la forza
visibile e quella invisibile.
Ogni samurai conosceva l’adagio zen:
“Quando estrai la spada, fallo con compassione. Quando la riponi, fallo con purezza.”
Questo equilibrio era la chiave del Bushidō, la via dell’uomo
che vive e muore in armonia con se stesso e con il mondo.
Anche
nelle epoche di pace, quando le battaglie cessarono, il samurai
continuò a portare le sue due spade, come testimonianza di
un ideale che andava oltre la guerra.
Con la Restaurazione Meiji (1868), la classe dei samurai fu
abolita e il porto delle due spade vietato. Ma il mito del daishō
non morì: si trasformò in simbolo culturale, artistico e
spirituale.
Oggi, le katane sopravvissute sono tesori nazionali,
custodite nei musei o nelle famiglie dei discendenti dei guerrieri.
Le wakizashi, più modeste, sono reliquie d’intimità, frammenti di
una storia che parla di coraggio e sacrificio.
Il Giappone moderno ha mantenuto vivo il legame con queste lame: nel cinema, nella letteratura e nelle arti marziali come il kendō o lo iaidō, dove il gesto di estrarre e riporre la spada è ancora una forma di meditazione.
Il daishō non era solo l’equipaggiamento di un
guerriero, ma una metafora dell’esistenza.
La
katana rappresentava il mondo esterno — la battaglia, l’azione,
il dovere.
La wakizashi era il mondo interno — la riflessione,
l’onore, la scelta finale.
Insieme formavano un principio di totalità: affrontare la vita
con fermezza e morire con dignità.
Il samurai portava due lame,
ma in fondo ne impugnava una sola: la lama della
consapevolezza.
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