mercoledì 7 dicembre 2011

Jeet Kune Do Bruce Lee's Martial Arts




" La mia arte marziale è il modo, interno e profondo, di  intercettare i colpi dell'avversario..."

Jeet Kune Do

Non considerate gli stili in se stessi, non c'è uno stile cinese, uno stile coreano e via dicendo, c'è un solo stile, il nostro... Per me, parlo per me, le arti marziali indicano un modo per poter esprimere se stessi onestamente, cosa difficile da fare... mi muovo e posso sembrare feroce, ma esprimere me stesso in modo onesto è molto difficile...
L'uomo, la creatura vivente, l'individuo che crea, è sempre più importante di qualunque stile o sistema prestabilito..
Penso che questa sia l'essenza del combattimento: usare ogni parte del proprio corpo.
Per ogni cosa ci sono norme, regolamenti, nel combattimento invece non ci sono regole e, allora, si riesce meglio ad allenare ogni parte del corpo.
Un buon praticante marziale è come l'acqua perchè è senza sostanza, senza forma fissa; quindi siate come l'acqua, flessibili ed armoniosi. Perchè l'acqua non ha forma, la si mette in una coppa e prenderà la forma di una coppa,... se la si mette in una tazza da tè, prenderà la forma del recipiente. Potete scorrere armoniosamente o travolgere, ma siate acqua...
Come nella boxe e nella scherma, il JKD è un'arte che và seguita passo dopo passo, ed ogni movimento dovrà essere ripetuto più volte...
Per raggiungere il vostro scopo, quando combattete con i pugni, non lanciateli alla cieca, ma mirate bene. Nel combattimento la distanza è una relazione che cambia continuamente; essa dipende dalla velocità, dalle tecniche e dalle capacità di entrambi i lottatori...
Poche tecniche, semplici e ben portate, una dimostrazione chiara, sono meglio di una montagna di dati confusi e scritti in disordine... La vera osservazione comincia quando si è privi di schemi prestabiliti, la libertà di espressione esiste solo quando ci spingiamo oltre il sistema..
Il punto non è quanto avete imparato, ma quanto avete assorbito di ciò che avete imparato..
Non c'è miglioramento giornaliero, ma diminuzione giornaliera, liberatevi da quello che non è essenziale...
L'atteggiamento corretto dipende da una buona organizzazione interiore del corpo, che può essere acquisita solo mediante un esercizio prolungato e ben condotto. La posizione di guardia è la posizione più favorevole all'esecuzione meccanica di tutte le tecniche e di tutte le manovre. Consente il rilassamento completo e, nello stesso tempo, fornisce al muscolo il tono occorrente perchè la reazione sia veloce e fluida.
Il combattimento è una questione di movimento. Si tratta di trovare un bersaglio, evitando di diventare un bersaglio... La qualità della tecnica di un atleta dipende dal suo lavoro di gambe...
Nel Jeet Kune Do bisogna trovere la stabilità nel movimento, un movimento reale sciolto e vivo...
Nel JKD il lavoro di gambe tende alla semplicificazione.
Saper combattere significa essenzialmente sapersi muovere...
Fate attenzione che l'avversario non si avvantaggi del vostro colpo.
Cercate di distruggerlo psicologicamente tirandogli colpi violenti che provochino molto dolore. Imparate a controllare il corpo in modo da poter tirare i calci dall'alto, dal basso o dal livello del terreno; mentre siete in movimento: avanzando, indietreggiando oppure girando in circolo verso sinistra o verso destra... Nel Jeet Kune Do si usa il calcio laterale basso alla tibia o al ginocchio inizialmente nel primo incontro.... è un calcio sempre potentissimo e può spezzare il ginocchio con un solo colpo. E' una buona tecnica per accorciare la distanza in modo da poter poi usare una combinazione."
"L'arte del JKD è semplicemente l'arte di semplificare...
Non credo nei sistemi e neanche nei modelli, ma cos'altro si può insegnare se non sistemi e modelli? Sono cosciente della mia ignoranza."
Bruce Lee

martedì 6 dicembre 2011

Considerazioni sugli esami di grado




In primo luogo e prima che qualcuno mi accusi di "eresia" per il fatto di criticare un sistema di gradi al quale partecipo, voglio dire che è mia opinione che le classificazioni o le aggiudicazioni di etichetta, qualsiasi sia la loro forma, sono in principio “un male necessario”. Ed il sistema tradizionale di gradi delle Arti Marziali non è esente da questa controversia.

Il senso originale dei Dan nelle Arti Marziali
In principio, l'insegnamento delle Arti Marziali come il Karate-Dô o quello dei suoi predecessori (Tode o Okinawa te, Chuan fa, etc.) erano realizzati con un marcato carattere individuale, oppure in piccoli gruppi o clan familiari.
È per questo motivo che un sistema di classificazione dei praticanti per gradi o livelli non aveva ragione d’essere, poiché la metodologia era la seguente: l'allievo confidava ciecamente nel suo maestro e quest’ultimo non insegnava tecniche di un livello superiore, finché il discepolo non aveva imparato a dominare in maniera conveniente i precedenti insegnamenti. Perciò, si potrebbe dire che l'unica classificazione esistente era quella del suo progresso in relazione con se stesso (che è poi l'ideale e la più onesta).
Tuttavia, prendendo come riferimento il Karate, quando questo giunge in Giappone, si diffonde come metodo di addestramento collettivo nelle università, si adotta una struttura d’insegnamento molto influenzata dal sistema militare e scolastico del paese del Sol Levante. Qualcosa di simile accade nel resto dell’Asia ed è con questi cambiamenti che diviene palese la necessità di un sistema di classificazione del livello dei praticanti.       Si stabilivano, così, gli esami di grado, con il fine di valutare il progresso dell'allievo in relazione al dominio di una serie di contenuti tecnici corrispondenti ad ogni cintura o grado. E’ mia opinione che la valutazione dell'insegnamento finì di verificare, il progresso dell’allievo in relazione a se stesso, per trasformarsi nella valutazione del suo progresso in relazione ad altri.
Riassumendo: il senso originale degli esami di grado nasce con il bisogno di standardizzare l'insegnamento e facilitare il lavoro dell’istruttore, dandogli l’opportunità di classificare gli elementi che insegna in funzione del grado dell'allievo, visto che il grado determina il tempo di pratica dei praticanti. Per concludere, a mio avviso, il maggior valore di queste "etichette o classificazioni" risiede sul fatto che servono come orientamento quanto al tempo di anzianità dei praticanti, ma non sempre sono garanti del livello che vi si suppone. Quindi, sebbene vi siano molti che ai loro tempi furono degni di questo riconoscimento, con il passare del tempo si sono assopiti disonorando il pregiato titolo. Perciò, un buon budoka deve rispettare i gradi e la gerarchia, ma non dare nulla per scontato ed allenarsi sempre con vigore, chiunque abbia a lato o di fronte.

Credibilità degli esami di Cintura Nera
Gli esami di grado soprattutto nell'ambito istituzionale (come Associazioni, federazioni o altro) patiscono di solito una serie di mali che, a volte, possono far dubitare della loro equanimità. Anche se non è sempre generalizzabile, è frequente che una stessa normativa d’esame serva per differenti stili o scuole, all’interno di una stessa collettività. È per questo motivo che si devono stabilire chiaramente i contenuti, i mezzi e le attività più idonei, con i quali valutare e successivamente qualificare i praticanti, lasciando una maggiore libertà nell'elaborazione e nella realizzazione dell’esame stesso: in modo che ogni persona possa dimostrare, mediante il lavoro caratteristico del proprio stile, che possiede l'adeguato livello tecnico per un determinato grado.
D’altra parte, se il colui che presiede l’esame ufficiale è troppo rigido, può beneficiare coloro che più si rifanno a questa idea di lavoro, svantaggiando gli altri. Già di per sé è abbastanza difficile discernere la relazione reale tra la potenzialità di una persona, cioè quello a cui può arrivare, e quello che realmente dimostra.
Pertanto, a volte, è possibile che la qualifica finale non sia giusta, poiché influiscono troppe variabili interne ed esterne, di natura oggettiva o soggettiva, che fanno sì che il compito di conferire un grado risulti molto difficile e da non prendere, senza dubbio, alla leggera. Più ancora, se la persona che viene bocciata in un determinato "grado o livello" deve ripagare alla seguente convocazione, nasce a chiunque spontaneo il dubbio sul vero valore di questi gradi e sugli evidenti interessi di queste organizzazioni.   

Premesse basilari degli esami di grado
Affinché un sistema di gradi sia rispettato da tutti, deve avere il minor numero di punti deboli nella sua normativa e solo dopo aver raggiunto questo risultato può essere utilizzato. Deve, inoltre, soddisfare una serie di premesse basilari, cioè:
- Validità: ossia che l'esame valuti realmente quanto stabilito dallo stesso, cioè che l'aspirante possa sapere esattamente i punti importanti che dovrà dimostrare e, allo stesso modo, l'esaminatore conoscerà le differenze e le peculiarità più importanti di ogni livello.

- Affidabilità: ossia che l'esame sia indipendente dal momento o dalla circostanza in cui si realizza. Questo punto solitamente è il più discusso, giacché i praticanti si concentrano troppo nella pratica del programma stabilito, lasciando da parte quei contenuti importanti della pratica quotidiana.

- Oggettività: il risultato deve essere indipendente dalla persona che supera l'esame e, per quanto è possibile, dai giudici che formano la giuria. In esso non deve influire il numero di aspiranti vagliati, né altri fattori che non siano di natura meramente tecnica.

- Adeguato grado di libertà ed adattamento alla normativa e al programma d’esame: di modo che ogni persona possa dimostrare la sua abilità in sintonia con la sua fisionomia, la sua linea tecnica ed il suo stile e ciò che considera più importante nella pratica della sua Arte.
 
- Idoneità degli esaminatori. Per mantenere intatta la credibilità di un sistema di gradi, è molto importante che gli incaricati alla valutazione e alla qualifica siano maestri con un riconoscimento che non lasci spazio a dubbi e che i loro gradi e i loro titoli siano frutto di una pratica seria e continuata. D’altra parte, quando questi, in alcuni casi, derivano da altri meriti differenti dalla pratica e dal cammino tecnico di una persona, smettono di essere rispettati e, pertanto, i gradi che concedono perdono credibilità.
Gli incarichi di direzione o altri compiti simili non devono facilitare il conseguimento dei gradi o dei titoli di natura tecnica o professionale.
Riassumendo, se non si esige un’ottima preparazione dagli esaminatori e dai giudici, con quale criterio questi potranno emettere una valutazione giusta che sia accettata e rispettata da tutti?

Sopravvalutazione di gradi, Dan o livelli
È un commento abituale di molti budoka l’affermare che si attribuisca troppa  importanza al conseguimento dei gradi, essendo questo l'unico obiettivo di alcuni praticanti, fino al punto che alcune persone cercano solo di soddisfare il proprio ego e di dimostrare che sono migliori di altri praticanti, ostentando il loro grado o il compito che svolgono. Tuttavia, queste persone è da molto tempo che hanno smesso di utilizzare il keikogi (l’uniforme da allenamento), sostituendola spesso con un’altra uniforme meno impegnativa:
“la giacca e la cravatta”.
Coloro che la pensano come colui che scrive, di certo non sostengono che non debbano esistere gestori o dirigenti, ma, per lo meno, deve essere chiaro il ruolo di ognuno e non confondere la posizione che essi occupano nelle loro funzioni, con la vera conoscenza empirica di un'Arte Marziale. Ancor di più nei casi in cui queste persone siano incaricate di valutare e qualificare l'atteggiamento e le attitudini di altre persone.
Giacché, se non si allenano con sincerità tentando di migliorarsi sempre, come possono permettersi di giudicare, arbitrare o qualificare altri che con i loro difetti e le loro virtù proseguono nell’incessante ricerca del migliorare il loro livello tecnico e la loro condizione umana? Come possono essere giudici in esami di alto livello persone che hanno dimenticato che cos’è un ematoma o la bellezza di sentire la fatica e lo sforzo in se stessi?
Perciò, si deve essere realisti e non attribuirsi un livello che, forse, non si possiede. Con ciò, non voglio dire che non esistano persone nella cupola di federazioni o associazioni che continuino ad allenarsi duramente o che riconoscano le loro limitazioni, ma sfortunatamente queste non abbondano. Perciò, coloro che lavorano incessantemente devono far conoscere le loro opere, di modo che, poco a poco, siano tenuti in considerazione e possano apportare la loro conoscenza a coloro che ancora hanno sete di conoscere.
  
I "Dan, gradi o livelli". Frutti caduchi o perenni?
Per rispondere a questa domanda, allegoricamente posta, utilizzerò un bell'aforisma che dice: "Il Karate-dô (o un’altra Arte) deve essere come una giara d’acqua calda, la quale va mantenuta sul fuoco affinché l’acqua non si freddi”. Dalla sua morale si apprende che una persona che ha ottenuto un determinato "grado o livello", deve continuare una pratica sincera ed esigente, al fine di preservare e migliorare le capacità e le virtù che un giorno lo fecero meritevole di quel riconoscimento.
Se non fosse così, che valore può avere un 3º, 4º, 5º o 6º Dan? Per caso dobbiamo dormire sugli allori dei successi del passato? Non è infantile pensare che ostentare un determinato grado ci garantisca, agli occhi degli altri, un certo livello, un insieme di conoscenze o una superiorità da manifestare?
Colui che crede che queste classificazioni garantiscano l'eccellenza tecnica per tutta la vita o è un ignorante o un presuntuoso o ambedue le cose. E sebbene non sia mia intenzione offendere nessuno, che considerazione merita l'individuo che praticando con un avversario di grado uguale o inferiore, si lamenta per il fatto che questi lo attacca o si difende con troppa forza? Qualcuno dirà che esagero, anche se queste situazioni esistono, soprattutto in quelle persone che un bel giorno "riuscirono" ad ottenere un certo livello tecnico, che dimenticarono, poi, di mantenere e con il passare del tempo - che trascorre lento ma sicuro -, vedono quelli che erano alle loro spalle, che li superano abbondantemente. È triste vedere come queste persone si allontanino progressivamente dal cammino retto e come alcune di esse, ostinatamente, vogliano far valere la loro posizione gerarchica. Ma i "gradi, i livelli o i Dan” non hanno poteri occulti e queste persone, nel peggiore dei casi, finiranno per smettere di allenarsi, o appariranno di tanto in tanto per sfoggiare la cintura nera e consolarsi del loro declivio consentito. Nessuno dovrebbe sorprendersi che ad una persona di grado minore sia resa difficile la pratica, a causa di quelli che ancora stanno scalando il sentiero scosceso afferrandosi con unghie e denti. Tuttavia, quelli che già si vedono sulla cima, si rilassano e nella loro trascuratezza possono arrivare a cadere, patendone poi le conseguenze. Perciò, coloro che come me percorrono il cammino del Budo, non devono lasciarsi raggirare dalla “falsa sicurezza” che può trasmettere il grado, il titolo o i successi ottenuti, poiché questi possono essere un mezzo per aiutarci ad evolvere, ma non un fine ultimo.

Il Titulitis, una malattia endemica
Con questo enunciato e tornando ad abusare della metafora, voglio riferirmi al problema che sorge quando si valutano più i gradi o i titoli che le effettive conoscenze che in realtà questi apportano. È triste vedere come alcune persone fissino come loro mete il conseguire questo o quel titolo, per il semplice fatto di essere alla pari o migliori di altri. Di fatto, al momento di partecipare ad un corso, la decisione di molte persone dipende dal fatto che questo includa o meno un certificato o un diploma accreditante, invece di valutare se esso possa aiutarle a migliorare il loro livello, o se possa conferire loro qualche nuova conoscenza: fino al punto che molti praticanti o istruttori concentrano tutta la loro pratica su quei contenuti che dovranno dimostrare all'esame di grado.
Con ciò, nel cammino rimarrà una gran quantità di lavoro irrealizzato e temi realmente importanti da approfondire, ma che non essendo richiesti dal programma d’esame sono messi da parte. Quanto tempo si perde a preparare alcuni esami di grado! Quando questi dovrebbero essere la pratica quotidiana di ognuno.
Quanti aspetti importanti sono omessi, dimenticati o semplicemente sconosciuti, se si basa il tirocinio sul conseguimento di determinati gradi, titoli, o successi sportivi? Molti pensano di essere troppo giovani per approfondire l'Arte, altri che già sono troppo vecchi o stanno lavorando da troppo tempo in un determinato modo per mettere in discussione o ripianificare il senso della loro pratica o del loro insegnamento: anche se sono coscienti di questo o anche se intuiscono che percorrono la direzione sbagliata, pensano che ormai è tardi per rinunciare alla sicurezza del conosciuto, alla protezione del sistema stabilito. E rinunciano ad un tipo di pratica che può essere, secondo il loro punto di vista, sacrificata, per avere la ricompensa e la soddisfazione di credere in quello che fanno e, se il caso lo richiede, in quello che trasmettono agli allievi. Di tutto questo, quello che più mi da pena, è il momento in cui si perde la gioia di migliorarsi, tanto nella nostra pratica quanto nella conoscenza teorica che può aiutarci a mettere a fuoco correttamente il nostro allenamento, dato che non si tratta solo di praticare, ma anche di farlo correttamente. Quindi, alcune persone si allenano di più o utilizzano i libri solo quando devono ottenere un qualche titolo e si vedono costretti a farlo.
Qual è la medicina se i dottori una volta ottenuti i loro titoli, perdono l'interesse di ampliare la loro conoscenza per migliorare le loro tecniche chirurgiche o per ricercare migliori trattamenti? Dunque, se consideriamo le   Arti Marziali un'arte ed una scienza, perché non praticarle in modo esigente e responsabile?
E concludendo, una citazione di “Ippocrate” che si adatta perfettamente all'idea che ho voluto trasmettere in queste poche righe: "La vita è breve, l'arte lunga, l'occasione fugace, vacillante, l'esperienza ed il giudizio difficili”.

lunedì 5 dicembre 2011

ALLE ORIGINI DELLO SHOTO-KAN



Sarebbe stato difficile per chiunque prevedere la vastità della catastrofe che colpì Tokyo il primo giorno di settembre del 1923. Fu quello il giorno del Grande Terremoto di Kanto.
Tutte le costruzioni della zona erano fatte di legno, e nelle ore di fuoco furibondo che seguirono il sisma, la grande capitale fu ridotta in rovina. Il mio dojo, fortunatamente, scampò alla distruzione, ma molti dei miei allievi semplicemente svanirono nell'olocausto di edifici caduti e bruciati.
Noi che sopravvivemmo facemmo tutto il possibile per soccorrere i feriti e i senzatetto nei giorni immediatamente successivi al terribile disastro. Con quelli dei miei allievi che non erano stati mutilati o uccisi, mi unii ad altri volontari per aiutare a procurare cibo per i profughi, per rimuovere macerie e per assistere nell'opera di sistemazione dei corpi dei defunti.
Naturalmente, l'insegnamento del karate era stato temporaneamente rinviato, ma salvare una vita non poteva esserlo altrettanto. Dopo poco, una trentina di noi trovò lavoro al ciclostile della Banca Daiichi Sogo. Non ricordo più quanto fossimo pagati né quanto tempo lavorammo, ma, mi ricordo, quel viaggio quotidiano dal dojo di Suidobata alla banca di Kyobashi sembrava non finisse mai.
Mi ricordo un particolare di quel pendolarismo quotidiano. A quei tempi, pochissima gente indossava scarpe nelle strade delle città giapponesi; ognuno calzava sandali o zoccoli di legno chiamati "geta". C'è un tipo di questi ultimi chiamato "hoba no geta", che sotto ha due denti estremamente lunghi e talvolta uno solo, ed io calzavo sempre questi ultimi per rafforzare i muscoli delle gambe.
Lo facevo da giovane ad Okinawa, e non vedevo alcun motivo per cambiare ora che facevo il pendolare per il mio lavoro alla banca. I "geta" ad un dente che calzavo erano tagliati in legno molto duro e facevano un gran rumore ad ogni passo, forte quanto quello dei "geta" di metallo di alcuni di coloro che si allenano nel karate oggi. Indubbiamente i passanti nelle strade mi guardavano ridendo fra sé e sé, divertiti dal fatto che un uomo della mia età dovesse essere così vanitoso da voler aumentare la sua altezza. Dopo tutto, avevo ben più di cinquant'anni all'epoca. Assicuro comunque i miei lettori che il mio scopo non era la vanità, consideravo i miei "geta" ad un dente una necessità per il mio allenamento quotidiano.
Col passare delle settimane e dei mesi, Tokyo cominciò ad essere ricostruita, ed alla fine arrivò il momento in cui ci rendemmo conto che il nostro dojo era in uno stato di vera rovina. Il Meisei Juku era stato costruito intorno al 1912 o 1913, e niente gli era stato fatto per molto tempo. Fortunatamente, ci fu concesso del denaro dal governo prefettizio di Okinawa e dalla Società di Cultura di Okinawa per attuare le riparazioni più urgenti.
Ma naturalmente dovevamo trovare nuovi ambienti mentre il Meisei Juku fosse stato rimesso a nuovo. Avendo sentito che avevo bisogno di locali per l'allenamento, Hiromichi Nakayama, grande istruttore di scherma e buon amico, mi offrì l'uso del suo dojo quando non era usato per la pratica della scherma. Inizialmente affittai una piccola casa vicino al dojo di Nakayama , ma presto potei affittarne una più grande con un vasto cortile dove io e i miei allievi potevamo allenarci.
Venne comunque, il giorno in cui questa sistemazione divenne inadeguata. Il numero dei miei allievi cresceva, ma così pure il numero degli allievi di scherma. La conseguenza era che io recavo disturbo al mio benefattore. Sfortunatamente, la mia situazione finanziaria era ancora precaria e non potevo fare ciò che era logicamente desiderabile, costruire un dojo specificatamente per il karate.
Fu intorno al 1935 che un comitato nazionale di sostenitori del karate sollecitò abbastanza fondi per il primo dojo di karate mai eretto in Giappone. Non fu senza un minimo di orgoglio che, nella primavera del 1936, entrai per la prima volta nel nuovo dojo (a Zoshigaya, quartiere Toshima) e vidi sulla porta un'insegna recante il nuovo nome del dojo: Shotokan.
Era questo il nome che aveva deciso il comitato; non pensavo mai che esso volesse scegliere lo pseudonimo che usavo da giovane per firmare i poemi cinesi che scrivevo.
Ero triste, anche perché avrei voluto sopra a ogni cosa che i miei maestri Azato e Itosu venissero ad insegnare nel nuovo dojo. Ahimè!, nessuno dei due era più su questa terra, così il giorno che il nuovo dojo fu aperto ufficialmente, bruciai dell'incenso nella mia stanza e pregai per le loro anime. Agli occhi della mia mente, quei due grandi maestri sembravano sorridenti, mentre dicevano: " Buon lavoro Funakoshi, buon lavoro! Ma non fare l'errore di compiacerti di te stesso, poiché hai molto da fare. Oggi, Funakoshi, è solo l'inizio! ".
L'inizio?
Avevo allora quasi settant'anni. Dove avrei trovato il tempo e la forza per fare tutto ciò che ancora doveva essere fatto? Fortunatamente non vedevo né sentivo la mia età, e decisi, come i miei insegnanti mi chiedevano, di non cedere. C'era ancora, mi avevano detto, molto da fare. In un modo o nell'altro, l'avrei fatto.
Uno dei miei primi compiti, con il completamento del nuovo dojo, fu di preparare una serie di regole da seguire ed un programma di insegnamento. Formalizzai anche i requisiti per i gradi e le classi ("dan" e "kyu"). Il numero dei miei allievi cominciò a crescere di giorno in giorno, così che il nostro nuovo dojo, che era sembrato più che adatto ai nostri bisogni all'inizio, ora lo diventava sempre meno.
Benché, come dico, non sentissi la mia età, mi resi conto che non potevo assolutamente adempiere a tutti i doveri che si stavano costantemente accumulando. Non solo c'era il dojo da dirigere, ma anche le università di Tokyo stavano ora formando gruppi di karate nelle loro sezioni di educazione fisica, e questi gruppi avevano bisogno di istruttori. Chiaramente, era troppo per un uomo sovrintendere al dojo e viaggiare da università a università, così incaricai gli allievi anziani di insegnare nelle loro università al posto mio. Nello stesso tempo, assunsi il mio terzo figlio come assistente, delegandogli i compiti quotidiani di amministrazione del dojo, mentre io sovrintendevo l'insegnamento sia li che nelle università.
Dovrei puntualizzare che le nostre attività non erano limitate a Tokyo. Molte cinture nere del mio dojo come molti karateka delle università si impegnarono nei centri e nelle cittadine della provincia, con il risultato che il karate divenne noto in tutto il paese e furono costruiti un gran numero di dojo. Ciò mi conferì ancora un'altra missione, poiché col diffondersi del karate io ero costantemente assillato da gruppi locali per spostarmi qui e là a tenere conferenze e dimostrazioni. Quando ero via per qualche tempo, lasciavo la direzione del dojo nelle buone mani dei miei allievi più anziani.
Mi è stato spesso chiesto come è successo che io scegliessi lo pseudonimo di Shoto, che divenne il nome del dojo. La parola "Shoto" in giapponese significa letteralmente "onde di pino" e così non ha un grande significato arcano, ma vorrei dire perché la scelsi.
La città fortificata di Shuri dove sono nato è circondata da colline con foreste di pini delle Ryu kyu e vegetazione sub-tropicale, fra cui il Monte Torao, che appartenevaal Barone Chosuke (il quale, di fatto, divenne uno dei miei primi mecenati a Tokyo). La parola "torao" significa "coda di tigre" ed era particolarmente appropriata poiché la montagna era molto stretta e così foltamente boscosa che vista da lontano sembrava piuttosto la coda di una tigre. Quando avevo tempo, solevo passeggiare sul Monte Torao, talvolta di notte quando la luna era piena o quando il cielo era così limpido che si stava sotto una volta di stelle. A quei tempi, se accadeva che ci fosse anche un po' di vento, si poteva udire lo stormire dei pini e sentire il profondo, impenetrabile mistero che si trova all'origine di tutta la vita. Per me il mormorio era una specie di musica celestiale.
Poeti di tutto il mondo hanno cantato le loro canzoni sul mistero che si trova nei boschi e nelle foreste, ed io ero attratto dalla seducente solitudine di cui essi sono il simbolo. Forse il mio amore per la montagna era intensificato poiché io ero stato figlio unico e fragile fanciullo, ma penso che sarebbe stato esagerato definirmi un "solitario". Tuttavia, dopo un'intensa seduta di pratica di karate, volevo solo uscire e passeggiare in solitudine.
In seguito, quando fui ventenne e lavoravo come maestro a Naha, andavo frequentemente in una stretta, lunga isola nella baia che vantava uno splendido parco naturale chiamato Okunoyama, con maestosi alberi di pino e un grande stagno con fiori di loto. La sola costruzione sull'isola era un tempio Zen. Anche qui solevo venire frequentemente a passeggiare da solo fra gli alberi.
Da quell'epoca ho praticato karate per alcuni anni, e divenendo più familiare con l'arte sono ora più conscio della sua natura spirituale. Godere la solitudine ascoltando il vento fischiare attraverso i pini era, mi sembrava, un'eccellente maniera per raggiungere la pace della mente che il karate richiede. E dato che ciò è stato parte del mio modo di vivere dalla più tenera fanciullezza, decisi che non c'era nome migliore di Shoto con cui firmare le poesie che scrivevo. Col passare degli anni, questo nome divenne, ritengo, meglio conosciuto di quello che i miei genitori mi diedero alla nascita, e spesso mi sono accorto che se non avessi scritto Shoto accanto a Funakoshi la gente non sarebbe stata portata a sapere chi fossi.


Gichin Funakoshi "Shoto"