martedì 6 febbraio 2018

Battaglie di Kawanakajima

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Le battaglie di Kawanakajima (川中島の戦い Kawanakajima no tatakai) furono combattute durante il periodo Sengoku della storia del Giappone tra Takeda Shingen della provincia di Kai e Uesugi Kenshin della provincia di Echigo. Le battaglie si svolsero nella pianura di Kawanakajima situata nel nord della provincia di Shinano, luogo corrispondete alla parte meridionale della odierna città di Nagano.
Le cinque grandi battaglie ebbero luogo nel 1553, 1555, 1557, 1561 e 1564; la più nota ed aspra di queste, la quarta, si svolse il 10 settembre 1561.
Le battaglie iniziarono dopo che Takeda Shingen conquistò la provincia di Shinano, costringendo alla fuga Murakami Yoshikiyo e Ogasawara Nagatoki, i quali, necessitando aiuto, si allearono con Uesugi Kenshin.

Campagne precedenti Kawanakajima

L'interesse di Takeda Shingen per la provincia di Shinano inizia già dal 1536 quando, sotto ordine di suo padre Takeda Nobutora, cerca di impadronirsi di Umi no Kuchi nella vallata vicina a Saku. La progressiva conquista della parte meridionale di Shinano in una serie di vittoriose campagne, lo porterà più a nord, provocando l'obbligato intervento di Uesugi Kenshin.

Campagna di Suwa, 1542 - 1544

Nel 1542, Takeda Shingen decide di attaccare la regione vicina al lago Suwa. La zona è sotto il controllo di suo cognato, Suwa Yorishige, ma è formalmente indipendente. Dall'altra parte diversi daimyō di Shinano decidono di allearsi con Yorishige ed iniziano a marciare verso la provincia di Kai, lungo la valle di Suwa; ne risulta la Battaglia di Sezawa, da cui Takeda Shingen esce vincitore. Forte della vittoria, Shingen riprende l'iniziativa ed in poco tempo riesce a conquistare gran parte della regione. Il suo avversario più feroce sarà Takatō Yoritsugu, dapprima suo alleato, ma che in seguito cercherà di prendere il controllo della regione di Suwa da solo. Nel 1544 cade l'ultima roccaforte della regione e con essa ogni ulteriore resistenza.

Campagna di Saku, 1543 - 1547

Prendendo come pretesto la defezione di uno dei suoi alleati nella valle di Saku (Oi Sadataka, signore del castello di Nagabuko), Takeda Shingen attacca questa regione con il suo esercito, e riesce a conquistare tutte la valle nonostante l'eroica resistenza e l'intervento del daimyō della vicina provincia di Kozuke, vassallo del Clan Uesugi. La fortezza di Shiga cade nel mese di settembre del 1546, fatto che permetterà a Shingen di controllare gran parte della valle di Saku.
Il consolidamento della posizione nella regione pone Shingen a contatto diretto (e di conseguenza in conflitto) con Murakami Yoshikiyo, il più potente daimyō di Shinano. La prima campagna si rivela un fallimento: il 23 marzo 1548, è sconfitto nella Battaglia di Uedahara e le sue truppe battono in ritirata.
Un altro daimyō, Ogasawara Nagatoki, approfitta dei problemi di Shingen per prendere le armi ed attaccare la regione del lago di Suwa; verrà sconfitto nel maggio del 1548 nella Battaglia di Shiojiritōge, al termine della quale sarà costretto a ritirarsi e lasciare Shingen libero di riprendere il controllo sulla regione. L'avanzata di Takeda nella valle di Saku tuttavia viene interrotta.

Campagne contro Murakami Yoshikiyo, 1550 - 1553

Questa campagna ha inizio nella regione del lago di Suwa, dove le truppe di Shingen schiacciano Ogasawara Nagatoki: quest'ultimo è costretto a fuggire e cercare rifugio presso Murakami Yoshikiyo. Shingen organizza meticolosamente il suo attacco dalla regione di Suwa e, nell'autunno del 1550, passa il colle di Daimon. Una serie di schermaglie e scontri minori si verificano intorno alla posizione chiave del castello di Toishi presidiato dall'esercito di Yoshikyo, ma per la seconda volta consecutiva, Shingen è costretto a ritirarsi ed il suo esercito solo per poco riesce ad evitare l'annientamento.
Nonostante la situazione volgesse a suo sfavore, Shingen lancia una terza offensiva nella primavera del 1551. Questa volta il castello di Toishi cade e questa nuova posizione strategica permette a Shingen di garantirsi il controllo del resto della regione. Saranno necessari tuttavia due ulteriori anni di combattimenti e diverse battaglie, per rendere questo controllo totale. Nel 1553 quasi tutta la valle di Saku è sotto il controllo di Takeda Shingen.
Il passo successivo di Shingen è quello di avanzare lungo la valle di Saku per prendere possesso delle ricche terre situate in prossimità dell'unione del fiume Sai con il fiume Chikuma; questo triangolo di terra tra i due corsi d'acqua prende il nome di Kawanakajima.

Prima battaglia di Kawanakajima, 1553

A seguito della sua sconfitta, Murakami Yoshikyo si rifugia da Uesugi Kenshin chiedendo a questi aiuto e facendogli notare che gli eserciti di Takeda Shingen sono ormai alle porte del suo territorio.
Comprendendo l'importanza di agire in fretta per contrastare le ambizioni del suo nuovo vicino, Kenshin raccoglie un esercito e marcia immediatamente verso Shingen, ancora impegnato a combattere le truppe rimaste dell'esercito di Yoshikyo. Arrivando dalla strada che costeggia il lago Nojiri, Kenshin dirige verso la piana di Kawanakajima e si scontra con il nemico nei dintorni di un guado presso un tempio dedicato ad Hachiman, divinità shintoista della guerra. Lo scontro, di modesta entità, permette a Kenshin di affermare la propria superiorità. Kenshin dirige quindi il suo esercito verso Chikuma con l'intento di attaccare il castello di Katsurao (precedentemente roccaforte di Murakami Yoshikyo). La fortezza si rivela troppo difficile da espugnare e Kenshin deve rinunciare.
Nel frattempo Shingen, non ancora pronto ad affrontare direttamente Kenshin, riunisce il suo esercito nei pressi del castello di Fukashi, ad ovest, e lì attende per tre mesi il momento del contrattacco; sentendosi pronto, marcia verso il castello di Shioda nel quale si era rifugiato Murakami Yoshikyo. In pochi giorni (tra l'8 ed il 12 settembre 1553), Shingen prende il controllo di tutti i castelli della zona, costringendo nuovamente alla fuga Yoshikyo. Il resto della campagna non è ben noto, ma sembra che Shingen riprenda la sua avanzata verso nord e verso Kawanakajima, affrontando direttamente Kenshin prima a Fuse (in quella che viene considerata la prima battaglia di Kawanakajima) e poi nuovamente nei pressi del tempio di Hachiman. Queste due battaglie, a quanto pare, vengono considerate come vittorie di Kenshin, sebbene non decisive. A ciò seguono una serie di incursioni e saccheggi nella valle, interrotti dall'arrivo dell'inverno in cui i due generali cessano le ostilità.
Nell'inverno del 1553 e nell'anno successivo non si registra nessuna grande offensiva: Kenshin fortifica l'accesso a Kawanakajima dal lago Nojiri, costruendo il castello di Katsurayama ed il castello di Motodoriyama sulle omonime colline; Shingen conclude la conquista della valle di Ina adiacente al lago Suwa, per rafforzare le sue retrovie.

Seconda battaglia di Kawanakajima (battaglia di Saigawa), 1555

In preparazione della battaglia del 1555 Shingen, per mezzo di uno dei suoi vassalli, lancia un'offensiva lungo la valle di Itoi; benché non sia un luogo strategico, questa valle si estende verso nord arrivando fino al Mar del Giappone ed il suo possesso può costituire una minaccia per la capitale della provincia di Echigo, governata da Kenshin.
In risposta, Kenshin decide di lanciare l'offensiva direttamente a Kawanakajima ed il suo esercito viene spostato ai piedi della montagna che domina la vallata ad est del Zenkō-ji, uno dei templi buddhisti più sacri in Giappone. Purtroppo per lui, il clan Kurita, a supporto di Shingen, organizza le difese del Castello Asahiyama nelle vicinanze, consolidate dall'invio da parte di Shingen di un ulteriore contingente di 3 000 soldati tra arcieri ed archibugieri.
Il corpo principale dell'esercito Takeda si attesta dall'altra parte del fiume Sai (犀川 Sai-gawa) e fronteggia le truppe di Kenshin il 4 agosto 1555. I quattro mesi successivi ha luogo la seconda battaglia di Kawanakajima: una serie di scontri, attacchi ed incursioni lungo il fiume; nessuno dei due avversari riesce a prendere il sopravvento, ostacolati dal Saigawa, in alcuni tratti ampio un centinaio di metri.
Con l'arrivo dell'inverno molti samurai ed ashigaru premono per tornare ad occuparsi delle proprie terre, ed i due rivali si vedono costretti a concludere un accordo di pace il 27 novembre. L'unica concessione strategicamente importante, è la distruzione del castello di Asahiyama.

Terza battaglia di Kawanakajima, 1557

Con la distruzione del castello di Asahiyama, nella seconda battaglia di Kawanakajima, a Takeda Shingen viene a mancare una solida base per attaccare il nord di Shinano. Decide quindi di riprendere l'offensiva concentrando i propri sforzi sulla presa del castello di Katsurayama (costruito 3 anni prima da Uesugi Kenshin). Nel marzo del 1557, approfittando della recente neve che blocca Kenshin, Shingen attacca il castello; la mancanza d'acqua (di fondamentale importanza poiché il castello non ha una fonte o un fiume all'interno delle sue mura) concorre a determinare la caduta della fortezza, comunque inutilizzabile, perché poco prima della resa i difensori danno fuoco al castello, bruciandolo completamente.
Comunque, approfittando rapidamente del vantaggio acquisito, Shingen continua la sua avanzata verso il confine: cattura il castello di Nagahama sulle rive del lago Nojiri e muove le sue truppe fino al castello di Liyama che si affaccia sulla valle del fiume Chikuma (千曲川 Chikuma-gawa).
La situazione per Kenshin diviene complicata: il confine è sotto la minaccia diretta delle forze Takeda e l'eventuale presa di Liyama significherebbe la fine della presenza del clan Uesugi nella provincia di Shinano. Kenshin decide di mobilitare le sue truppe e passare all'offensiva rendendo chiaro il suo obiettivo: forzare Shingen ad uno scontro diretto e sconfiggerlo una volta per tutte. Decide di non muovere l'esercito per prestare aiuto diretto al castello di Liyama, ma di dirigersi, come nella battaglia precedente, verso il tempio di Zenkō-ji, arrivandovi il 19 maggio; dà quindi ordine di ricostruire il castello di Asahiyama e vi si stabilisce con le truppe.
La situazione diventa evidentemente complessa: Kenshin si trova circondato dalle truppe di Shingen, ma può contare sulla protezione fornita dai castelli di Asahiyama, Motodoriyama e Liyama (che non è ancora caduto). Shingen a sua volta può fare affidamento sulle roccaforti di Nagahama (isolato nei pressi del confine), di Katsurayama (vicino al Zenkō-ji e di fronte ad Asahiyama), e soprattutto di Kasturao, più a sud, che rappresenta il punto di collegamento principale. L'obiettivo di Kenshin è quello di ingannare Shingen simulando un ripiegamento verso Liyama lungo il Chikumagawa, per affrontarlo colpendo con le truppe da Motodoriyama sul fianco, e con quelle da Liyama sulle retrovie avversarie.
Malauguratamente per lui, Shingen non si muove. Per costringerlo a combattere, Kenshin effettua diverse incursioni tra cui una che lo vede risalire quasi fino alla valle del Saku. Shingen rimane imperturbabile; sta sì preparando come risposta un grande attacco, ma in una direzione diversa: la valle di Itoi, situata ad ovest, che offre una porta di accesso verso la provincia di Echigo e la capitale di Kenshin, Katsugayama. Lanciato nel mese di agosto, questo attacco permetterà la presa del castello di Otari; Katsugayama è ora distante non più di 20 chilometri.
L'offensiva progettata inizialmente da Kenshin perde la sua utilità, ed il daimyō decide di ripiegare verso Liyama per rientrare a Shinano; nel contempo Shingen decide di avanzargli contro con le truppe. Sebbene questa fosse la situazione inizialmente auspicata da Kenshin per ingaggiare battaglia, nei fatti lo scontro si rivela come una serie di scaramucce minori tra retroguardie.

Quarta battaglia di Kawanakajima, 1561

La quarta battaglia di Kawanakajima comportò ingenti perdite di truppe da entrambe le parti come percentuale delle forze totali, notevoli se paragonate a qualsiasi altra battaglia del Periodo Sengoku; viene considerata una tra le battaglie tatticamente più interessanti del tempo.
Il 25 settembre del 1561, Uesugi Kenshin lascia il suo castello di Kasugayama con 18 000 guerrieri, determinato a distruggere Takeda Shingen. Mantiene alcune delle sue forze a Zenkoji, ma prende posizione con il contingente principale su Saijoyama, una montagna che sovrasta ad ovest il castello di Kaizu in mano a Shingen. Benché Kenshin ne fosse inconsapevole, il castello di Kaizu non conteneva più di 150 samurai, più gli ausiliari al seguito, e questi erano stati completamente colti di sorpresa. Il generale al comando del castello Kōsaka Danjō Masanobu, tuttavia, attraverso un sistema di segnalazione con fuochi, riesce ad informare il suo signore situato presso la fortezza di Tsutsujigasaki a Kōfu, distante 130 km, della mossa di Kenshin.
Il 27 settembre Shingen lascia quindi Kōfu con 16 000 uomini, che aumenteranno di ulteriori 4 000 unità nel viaggio attraverso la provincia di Shinano; il 3 ottobre arriva a Kawanakajima sulla sponda occidentale del Chikumagawa (fiume Chikuma), mantenendo il fiume tra lui e Saijoyama. Per 5 giorni nessuno degli eserciti prende l'iniziativa, essendo chiaro che la vittoria avrebbe richiesto l'elemento essenziale della sorpresa, consentendo quindi a Shingen di entrare con le proprie truppe nella fortezza di Kaizu insieme al suo gun-bugyō (commissario dell'esercito), Yamamoto Kansuke; quest'ultimo si occuperà di elaborare una strategia che secondo i suoi piani si sarebbe dimostrata vincente contro Kenshin.
Kōsaka Danjo Masanobu lascia Kaizu con 8 000 uomini, avanzando verso Saijoyama con la copertura della notte; il suo intento è quello di spingere l'esercito di Kenshin verso la pianura dove Takeda Shingen lo attende con altri 8 000 uomini in formazione kakuyoku o "ala di gru". Tuttavia Kenshin, sia attraverso spie a Kaizu che esploratori appostati a Saijoyama, intuisce le intenzioni di Shingen: sposta i suoi uomini verso la pianura scendendo dal fianco occidentale del Saijoyama, strisciando silenziosamente ed utilizzando pezzi di stoffa per attutire il rumore degli zoccoli dei cavalli. Con l'arrivo dell'alba del 18 ottobre 1561, gli uomini di Shingen trovano l'esercito di Kenshin schierato e pronto a caricare, contrariamente a quanto previsto.
Le forze di Uesugi Kenshin iniziano ad attaccare ad ondate, in una formazione detta "Kuruma Gakari", nella quale ogni unità è sostituita da un'altra appena diventa stanca o subisce sufficienti perdite. A guidare l'avangaurdia di Uesugi è uno dei suoi storici ventotto generali, Kakizaki Kageie. L'unità di samurai a cavallo di Kakizaki si scontrerà con le truppe di Takeda Nobushige, con la conseguente sfortunata morte di quest'ultimo. Mentre la formazione kakuyoku tiene sorprendentemente bene il campo, i comandanti di Takeda iniziano a cadere, uno ad uno. Vedendo che la sua tattica a tenaglia aveva fallito, Yamamoto Kansuke decide di caricare da solo nella massa di samurai Uesugi, subendo più di 80 ferite da proiettile prima di ritirarsi verso una vicina collina e commettere seppuku.
Alla fine, le forze Uesugi raggiungono il posto di comando Takeda ed ha seguito uno dei più famosi combattimenti tra due samurai nella storia del Giappone, raccontato nel Kōyō Gunkan. Uesugi Kenshin in persona irrompe a cavallo nel quartier generale, attaccando Takeda Shingen che, sebbene colto alla sprovvista, riesce a parare diversi colpi con il suo ventaglio da combattimento, ed a tenere a bada Kenshin fino all'arrivo del vassallo Hara Torayoshi, che impugnata una picca riesce a ferire il cavallo di Kenshin, costringendolo a ritirarsi.
Il contingente principale di Takeda resiste, nonostante i feroci attacchi ad ondate di Uesugi: Obu Saburohei respinge le truppe guidate da Kakizaki, ed Anayama Nobukimi sconfigge le truppe del clan Shibata di Echigo, costringendo ad indietreggiare la forza principale di Uesugi fino al Chikumagawa.
Nel frattempo le truppe di Kōsaka, raggiunta la cima del Saijoyama e trovata la postazione Uesugi deserta, marciano giù per la montagna verso il guado del fiume; si scontrano con le 3 000 truppe poste sotto il comando del generale Amakazu Kagemochi, sconfiggendolo, ed avanzano ulteriormente per accorrere in aiuto del corpo centrale dell'esercito Takeda, attaccando da dietro le truppe Uesugi in ripiegamento.
Al termine dello scontro, numerosi furono i generali di Takeda che rimasero sul campo, tra cui suo fratello minore Takeda Nobushige e suo zio Murozumi Torasada; l'esercito Uesugi subì perdite intorno alle 3 000 unità, mentre quello Takeda contò circa 4 000 vittime. Le cronache del tempo indicano che Takeda non fece alcuno sforzo per contrastare la ritirata delle truppe Uesugi dopo la battaglia, che bruciarono l'accampamento a Saijoyama, tornarono al Zenkoji, e di lì nella Provincia di Echigo.

Quinta battaglia di Kawanakajima, 1564

Negli anni successivi, il confronto tra Kenshin e Shingen si evolve su diversi altri fronti. Nel 1564, Shingen riesce a far aderire alla sua causa il clan Ashina della provincia di Mutsu, vicino alla provincia di Echigo. Il nuovo alleato attua un'offensiva nelle terre di Kenshin, coordinandosi con gli attacchi di Shingen nella provincia di Shinano. L'obiettivo finale è quello di chiudere in una tenaglia la capitale di Kenshin, Kasugayama. Il 18 maggio, con l'aiuto di forze ribelli locali, viene catturato il castello di Warigadake sul lago Nojiri; nel periodo a seguire, le truppe di Shingen cominciano a condurre incursioni nei territori di Echigo.
Le truppe del clan Asahina, tuttavia, sono sconfitte da Kenshin, e la strategia del clan Takeda diventa inattuabile a causa della perdita dell'alleato. Kenshin decide di muovere nuovamente il suo esercito verso Kawanakajima per contrastare Shingen: riconquista il castello di Warigadake e, il 4 settembre, schiera le sue truppe sulla collina presso il Zenkō-ji.
Takeda Shingen decide di non prendere alcuna iniziativa e Kenshin, spazientito, effettua la prima mossa verso la valle di Saku. All'inizio di ottobre Shingen decide di intervenire, ed il suo esercito giunge da ovest a Fukashi. Ancora una volta le grandi doti tattiche sviluppate dai due generali non concederanno il predominio di una parte: la posizione di Kenshin è ben difesa, ma Shingen gli impedirà di portare a termine ogni azione pericolosa. Dopo 60 giorni di scontri, Kenshin si ritira lascia la regione di Kawanakajima definitivamente nelle mani di Takeda Shingen.

Curiosità

La rivalità tra i due daimyō è trattata nel film giapponese Heaven and Earth, che tra i vari eventi descrive anche la quarta battaglia di Kawanakajima. Questo epico scontro è anche un episodio chiave in diverse serie televisive incentrate sulla vita di Takeda Shingen, come Fūrin Kazan.
Nonostante la quarta battaglia di Kawanakajima sia la più famosa tra le cinque combattute, è uno dei primi scenari nel videogioco Samurai Warriors. Nel combattimento 1 contro 1 tra Shingen e Kenshin, l'arma utilizzata dal primo è un dansen uchiwa.
Nel gioco per PC Total War: Shogun 2, una delle battaglie storiche è la quarta battaglia di Kawanakajima.

lunedì 5 febbraio 2018

Leung Ting

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Leung Ting (Hong Kong, 28 febbraio 1947) è un artista marziale cinese di wing chun.

Biografia

Leung Ting è un maestro di wing chun che iniziò la pratica con Leung Sheung, primo allievo di Yip Man a Hong Kong, per poi continuare con suo zio. Alla morte di quest'ultimo, nel 1972, cominciò ad insegnare wing chun nel Baptist College di Hong Kong, dove lui stesso era studente di anglistica e sinologia. Fino a quel momento il wing chun non aveva avuto larga diffusione, bensì era stato insegnato solo nell'ambito di ristrette cerchie familiari e in pochissime scuole di massa. Nel 1975 fu invitato per la prima volta in Europa da Keith R. Kernspecht, che divenne suo allievo, fondando così la federazione EWTO e registrando il marchio Wing Tsun. Da allora il loro wing chun, si è diffuso dapprima in Germania, poi nel resto d'Europa e in America.
Leung Ting continua a insegnare nel suo quartier generale a Hong Kong, e varie volte l'anno compie viaggi in Europa e negli Stati Uniti. Presiede la International Wing Tsun Association (IWTA), cui afferiscono varie organizzazioni europee.
Leung Ting è attivo anche nell'industria cinematografica, come istruttore e coordinatore di stunt men.
Il 20 novembre 2009, Leung Ting viene condannato a due mesi di prigione per aver aggredito fisicamente la sua amante. Regina Lip Sik-ying dichiaro' che Leung Ting la spinse per terra, le sbatte la testa per terra, colpendola con un calcio nello stomaco per poi afferrarla per il collo. Leung dichiaro' invece che Lip cadde per terra sbattendo la testa dopo che lui la trascinò via dalla finestra da cui aveva minacciato di suicidarsi. Il 29 aprile 2010 Leung venne dichiarato innocente.

Curiosità

Fu maestro di Wing Chun di Jackie Chan.

sabato 3 febbraio 2018

Takeda Katsuyori

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Takeda Katsuyori (武田 勝頼; 1546 – 3 aprile 1582) è stato un militare giapponese, conosciuto per essere stato capo del clan Takeda nell'epoca Sengoku e successore del leggendario signore Takeda Shingen. Katsuyori era nato dall'unione di quest'ultimo e Suwa goryōnin (諏訪御料人 il cui vero nome è ignoto), figlia di Suwa Yorishige. Ebbe a sua volta due figli: Takeda Nobukatsu e Katsuchika.
Katsuyori, inizialmente conosciuto come Suwa Shirō Katsuyori (諏訪四郎勝頼) succedette a sua madre nel clan Suwa e fece del castello Takatō la sede del suo dominio. Dopo la morte del fratello maggiore Takeda Yoshinobu, Nobukatsu, il figlio di Katsuyori divenne erede del clan Takeda, nominando il padre capo di fatto della famiglia. Fu accusato dal clan dopo la morte di Shingen e combatté Tokugawa Ieyasu a Takatenjin nel 1574 e a Nagashino nel 1575. Prese anche possesso di Takatenjin, e questa vittoria gli assicurò l'appoggio di tutto il clan.
Commise seppuku nella battaglia di Temmokuzan del 1582, incalzato dalle truppe nemiche dei clan Oda e Tokugawa, che distrussero completamente il suo esercito.
Le gesta militari del clan Takeda, dalla nascita di Takeda Shingen fino alla morte di suo figlio Katsuyori sono trattate nel Kōyō Gunkan.

venerdì 2 febbraio 2018

Rokkaku Yoshikata

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Rokkaku Yoshikata (六角 義賢; 1521 – 19 aprile 1598) è stato un militare giapponese capo del clan Rokkaku durante il periodo Sengoku. Fu shugo (governatore) e successivamente daimyō nel sud della provincia di Ōmi. Divenne successivamente monaco buddista e prese il nome di Shōtei.

Biografia

Figlio di Rokkaku Sadayori, Yoshikata combatté in molte delle battaglie per il controllo dell'area di Kyoto durante il periodo Sengoku. Nel 1549 si alleò con Hosokawa Harumoto contro Miyoshi Chōkei e succedette al padre come capo del clan nel 1552. Dopo varie vittorie contro il clan Miyoshi la sorte cambiò; Yoshikata e i suoi alleati Hosokawa al servizio dello shōgun Ashikaga Yoshiteru iniziarono a subire una serie di sconfitte. Nel 1558 lo shōgun concluse una pace con il clan Miyoshi mettendo fine al conflitto.
Vedendo i Rokkaku indeboliti Azai Hisamasa dai confini settentrionali invase il territorio di Yoshikata. Sconfitto, il clan Azai fu costretto a diventare vassallo dei Rokkaku. Yoshikata entrò nel sacerdozio buddhista nel 1559, passando l'eredità all'interno del clan a suo figlio Rokkaku Yoshiharu anche se rimase comunque attivo nelle battaglie della famiglia. Yoshikata condusse le sue forze del clan a combattere l'anno seguente contro Azai Nagamasa cercando di mantenere il controllo sugli Azai e sul loro territorio. Fu decisamente sconfitto nella battaglia di Norada che segnò l'inizio del declino del clan Rokkaku.
Nel 1563 uno dei loro principali vassalli, Gotō Katatoyo, uccise qualcuno all'interno del castello di Kannonji, roccaforte del clan. La sfiducia tra i servitori Rokkaku e i loro capi raggiunse il culmine e Yoshikata e suo figlio furono cacciati dal castello. Fecero ritorno poco dopo attraverso la mediazione di Gamō Sadahide e Gamō Katahide.
Nel 1565, i Rokkaku furono nuovamente attaccati dagli Azai anche se le forze invasori erano modeste.

Sconfitta

Nel 1569 Oda Nobunaga, al servizio dello shōgun Ashikaga Yoshiaki chiese al clan Rokkaku di unirsi al suo esercito, ma essi rifiutarono. Sconfitti nella battaglia che seguì i Rokkaku furono cacciati dal loro castello, stabilendosi a Kōka e il loro clan perse definitvamente lo stato di daimyō.
Nel 1570, i Rokkaku furono sconfitti da Shibata Katsuie nell'assedio di Chōkō-ji e nuovamente nel castello di Bodaiji, sottomettendosi definitivamente a Nobunaga. Su ordine di Nobunaga, Yoshikata fu imprigionato nel castello di Ishibe, detenuto da Sakuma Nobumori. Scappò quattro anni dopo fuggendo a Shigaraki. Lì visse in isolamento, aiutando i ribello locali, e l'Ishiyama Hongan-ji, contro Nobunaga.
Imparò l'utilizzo dell'arco da Yoshida Shigekata e a cavalcare da Saitō Jogen e lui stesso fondò una scuola (Sasaki-ryū) che insegnava l'arte della guerra.
Yoshikata morì all'età di 74 anni nel 1598.

Battaglia di Kanegasaki

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La battaglia di Kanegasaki (金ヶ崎の戦い Kanegasaki no tatakai), talvolta chiamata assedio di Kanegasaki, o anche ritirata di Kanegasaki, fu un evento bellico avvenuto nel 1570 nel quadro della campagna di Oda Nobunaga contro i clan Asai e Asakura per la conquista del Giappone centrale, in particolare in risposta all'alleanza formata dallo shōgun Ashikaga Yoshiaki nel tentativo di contrastare l'apparentemente inarrestabile ascesa degli Oda.
Lo scontro si svolse nella fortezza e nelle foreste di Kanegasaki, nella provincia di Echizen, e rappresenta uno dei momenti più difficili per la campagna di conquista di Nobunaga, in quanto fu una delle poche occasioni in cui il signore di Owari, colto di sorpresa dal tradimento del cognato Azai Nagamasa, arrivò molto vicino ad essere ucciso.

Antefatti

Nel 1570, a soli dieci anni dall'inizio della sua campagna, Nobunaga aveva già spazzato via due tra i più potenti clan del Giappone centrale, gli Imagawa e i Saitō, forte del ricorso a nuove e spesso spregiudicate tattiche militari che gli avevano permesso di superare la mancanza di esperienza di buona parte del suo esercito.
Oltre al timore da parte degli altri signori della guerra, la sua rapida ascesa era però vista con crescente paura anche dallo shogun Ashikaga Yoshiaki: costui era salito al potere due anni prima, al termine di una faida interna al suo casato che lo aveva visto uscire vincitore proprio grazie all'aiuto di Nobunaga, ma in poco tempo il nuovo shogun si era reso conto di essere nulla più che un sovrano fantoccio il cui unico scopo era legittimare ed approvare tutte le campagne degli Oda.
Desideroso di smarcarsi dal suo scomodo alleato e riconquistare il potere per sé stesso, Yoshiaki iniziò quindi segretamente a tramare contro di lui, raccogliendo attorno a sé un buon numero di daimyo spaventati come lui dal crescente potere degli Oda e trovando in Asakura Yoshikage il suo più fedele alleato.
Gli Asakura, che controllavano la provincia di Echizen, erano alleati, oltre che con lo shogunato, anche con il clan Azai, il cui sovrano Nagamasa era però anche cognato di Nobunaga, avendone sposato alcuni anni prima la sorella minore Oichi. Facendo leva sull'alleanza stipulata con suo padre Hisamasa, Yoshikage tentò di convincere Nagamasa ad aderire alla coalizione che lo shogun stava formando contro gli Oda, ottenendo però, almeno inizialmente, un parziale rifiuto: Nagamasa infatti era consapevole dell'inferiorità del proprio esercito rispetto a quello del genero, e non voleva impegnarsi in un conflitto che, in caso di fallimento, avrebbe visto la fine del suo clan. D'altra parte però, il giovane sovrano sapeva anche che, trovandosi il suo feudo proprio a metà strada tra i domini Oda e Asakura, la neutralità non era un'opzione, e alla fine la molla che lo spinse ad aderire alla coalizione arrivò dallo stesso Nobunaga.
Informato dalle proprie spie a Kyoto dei piani dello shogun, Nobunaga decise di giocare d'anticipo, e messosi personalmente alla testa di una spedizione nella primavera del 1570 marciò verso Echizen per sottomettere gli Asakura, il tutto senza consultarsi o rendere conto di qualcosa con Nagamasa, come invece si era impegnato a fare in situazioni simili.
Offeso da quella che considerava una mancanza di considerazione nei suoi riguardi, e non credendo più alle promesse del suo ambizioso parente acquisito, Nagamasa si risolse infine a rispettare il patto di cobelligeranza stipulato da suo padre e aderì alla coalizione, ordinando al suo esercito di convergere subito verso provincia di Echizen per portare soccorso agli Asakura e colpire Nobunaga alle spalle.

La battaglia

Non sospettando minimamente la minaccia che incombeva su di lui, Nobunaga penetrò facilmente ad Echizen, e il suo generale Hideyoshi Toyotomi mise sotto assedio la fortezza periferica di Kanegasaki. I pochi soldati Asakura a difesa della struttura, colti alla sprovvista, opposero una ben misera resistenza, e la fortezza venne rapidamente occupata, ma la vera battaglia era appena iniziata.
La leggenda racconta che Oichi inviò a Nobunaga un sacchetto di fagioli, legato ad entrambe le estremità con un nastro rosso: ufficialmente era solo un portafortuna, ma in realtà si trattava di un messaggio in codice con il quale la principessa tentava di avvisare il fratello del pericolo che stava sopraggiungendo alle sue spalle. Più probabilmente, le spie e gli esploratori che sorvegliavano la regione attorno all'accampamento Oda si avvidero dell'arrivo dell'esercito Azai, e dal momento che Nobunaga non aveva richiesto rinforzi al cognato le loro intenzioni erano più che ovvie.
Pur potendo vantare una forza d'attacco che sovrastava di quasi seimila uomini i due eserciti combinati di Nagamasa e Yoshikage, Nobunaga sapeva che la difesa del castello e del territorio acquisito nella precedente battaglia era nei fatti impossibile, minacciato com'era su due diversi fronti e molto lontano dal suo feudo, così il signore di Owari non ebbe altra scelta che ordinare una precipitosa ritirata da Kanegasaki prima che le due forze avversarie potessero convergere contro di lui e circondarlo.
Hideyoshi, che aveva già avuto modo di distinguersi nel corso della campagna di Mino (in particolare in occasione dell'assedio di Sunomata, con la costruzione del celebre forte edificato nell'arco di una sola notte), venne scelto per guidare la retroguardia destinata a contenere l'assalto degli Asakura durante la ritirata (secondo altre fonti, si offrì personalmente volontario), e a quel punto, suddivise in piccoli gruppi, le forze degli Oda iniziarono la ritirata attraverso la foresta.
Seppur soverchiate nel numero, le truppe di Hideyoshi riuscirono a tenere la posizione per tutto il corso della battaglia, e contrariamente a quanto molti tra gli Oda avevano pronosticato le perdite furono assai contenute, questo grazie anche alla buona protezione offerta dal fitto degli alberi che circondavano la fortezza. Nel bel mezzo della ritirata, alcune avanguardie Azai giunte in rinforzo degli Asakura tentarono di convogliare nella direzione voluta le truppe Oda in ritirata dando fuoco alla foresta, sperando in questo modo di spingere Nobunaga dritto tra in bocca ai suoi nemici o tuttalpiù di fargli trovare la morte tra le fiamme, ma ogni tentativo di far congiungere le due forze della coalizione andò a scontrarsi con l'efficiente copertura organizzata da Hideyoshi, che a dispetto della difficoltà del proprio compito riuscì incredibilmente a salvarsi abbandonando Kanegasaki assieme al resto dell'esercito.
Informato della battaglia, Nagamasa ordinò al suo esercito di procedere verso Kanegasaki a passo forzato, ma quando il grosso delle sue forze giunse sul luogo della battaglia era già troppo tardi: Nobunaga era già scappato, e assieme a lui quasi tutto il suo esercito.

Conseguenze

Obbligando Nobunaga alla ritirata da Kanegasaki la coalizione aveva costretto gli Oda ad allentare la loro presa su Echizen e impedito loro di assediare il castello natale degli Asakura a Ichijōdani, ma nonostante ciò questa parziale vittoria si rivelò ben presto alquanto effimera. La verità era che Nagamasa, Yoshikage e gli altri daimyo avevano perso la loro più grande, e probabilmente unica occasione per uccidere una volta per tutte Nobunaga sfruttando l'effetto sorpresa, e ora che il tradimento ai suoi danni aveva avuto luogo Nobunaga sapeva con certezza di chi potersi fidare.
Rientrato a Gifu, Nobunaga riorganizzò in fretta il proprio esercito, e nell'estate di quello stesso anno, supportato dal clan Tokugawa, sconfisse nettamente le forze Azai e Asakura nella battaglia di Anegawa, dando inizio al rapido e inesorabile declino dei clan ancora fedeli allo shogun. Sia Nagamasa che Yoshikage vennero infine sconfitti ed uccisi nel 1573, e nello stesso anno Yoshiaki, ormai rimasto solo, non ebbe altra scelta che accettare un umiliante esilio nel sud, anche se seguitò a mantenere formalmente la propria carica fino al 1588 sotto la protezione del clan Mori.
Ironia della sorte, quelle stesse fiamme a cui Nobunaga era fortunosamente scampato a Kanegasaki avrebbero comunque reclamato la sua vita dodici anni dopo, quando il 21 giugno del 1582 il signore di Owari finì bruciato vivo all'interno del tempo Honno-ji a Kyoto in seguito al tentativo di colpo di Stato orchestrato da uno dei suoi generali, Akechi Mitsuhide.

giovedì 1 febbraio 2018

Buddhismo Mahāyāna




Con il termine sanscrito composto Mahāyāna (devanāgarī: महायान, cinese: 大乘, dàchéng, giapponese: daijō, tibetano: ཐེག་པ་ཆེན་པོ།, theg-pa chen-po, vietnamita: Đại Thừa; coreano: 대승, taesŭng o dae-seung; Grande veicolo) si intende un insieme di insegnamenti e di scuole buddhiste che rifacendosi, tra gli altri, ai Prajñāpāramitā sūtra e al Sutra del Loto, proclamano la superiorità spirituale della via del bodhisattva rispetto a quella dell'arhat, quest'ultima proclamata nel Buddhismo dei Nikāya.
Il termine mahāyāna si compone dei termini sanscriti maha con il significato di "grande" e yāna con il significato di "veicolo", quindi "Grande veicolo" da intendersi come ciò che "conduce" gli esseri senzienti verso la liberazione spirituale.
Attualmente tutte le scuole buddhiste esistenti sono di derivazione Mahāyāna, fatta salva la scuola Theravāda, la quale non ha mai accolto la canonicità degli insegnamenti riportati nei sūtra mahāyāna.

Origine del termine

Il termine "Mahāyāna" (Grande Veicolo) è comunque piuttosto tardo, probabilmente successivo alla stesura dei Prajñāpāramitā sūtra e alle prime stesure del Sutra del Loto. Forse persino successivo alla nascita della scuola Madhyamaka fondata da Nāgārjuna nel II secolo d.C. Le sue origini non sono certe.
La prima menzione di questo termine sembrerebbe apparire in una edizione del Sutra del Loto, ma il filologo Seishi Karashima ritiene che il termine mahāyāna lì utilizzato sia una errata resa in sanscrito del termine gāndhārī mahājāna a sua volta resa del sanscrito mahājñāna ("grande conoscenza"). Quando il termine in lingua gāndhārī fu reso in sanscrito, per errore e forse perché condizionati dalla dottrina degli yāna (veicoli) riportata nella "parabola della casa in fiamme" inserita nel III capitolo del Sutra del Loto, fu reso come mahāyāna.
Tuttavia l'origine di questo termine resta controversa ed esso non compare nelle iscrizioni indiane prima del V-VI secolo d.C..
È probabile invece che gruppi di monaci buddhisti che avevano accolto la canonicità degli insegnamenti dei Prajñāpāramitā sūtra e che convivevano nei monasteri insieme ad altri monaci che ne rifiutavano invece la canonicità, abbiano incominciato, dopo il II secolo d.C., a denominarsi come seguaci del Mahāyāna (Grande Veicolo) indicando gli altri come seguaci dello Śrāvakayāna (Veicolo degli ascoltatori della voce, ovvero di coloro che fondavano la propria dottrina sulla comprensione delle Quattro nobili verità) e, successivamente, Hinayāna (Veicolo inferiore).

Il dibattito storiografico sulle origini del Mahāyāna

Gli storici del Buddhismo hanno elaborato diverse ipotesi sulla nascita degli insegnamenti mahāyāna. Richard H. Robinson e Williard L. Johnsons ritengono che i loro primi testi di riferimento, segnatamente l'Aṣṭa-sāhasrikāprajñā-pāramitā (Sutra della perfezione della saggezza in ottomila stanze; risale al I secolo a.C.), siano frutto di una reazione di alcuni monaci esegeti che rifiutavano l'impostazione degli Abhidharma delle scuole del Buddhismo dei Nikāya prodotti nello stesso periodo. Questo rifiuto era motivato dal fatto che, a detta di questi primi monaci mahāyāna, gli Abhidharma tradivano l'insegnamento del Buddha dimenticandone gli aspetti essenziali.
Come rileva Paul Williams, i primi Prajñāpāramitā sūtra consistono essenzialmente in esortazioni agli altri monaci a non dimenticare alcune dottrine buddhiste, come la vacuità, già evidenziate negli Āgama-Nikāya e ritenute, in questi sūtra, a fondamento dello stesso Dharma buddhista.
È opinione di Paul Williams, che in questo richiama anche Heinz Bechert che nonostante le differenze dottrinali con gli esponenti buddhisti non-Mahāyāna la nascita del Mahāyāna non sia comunque in alcun modo attribuibile ad uno "scisma" (saṅghabeda) all'interno delle scuole buddhiste indiane: "uno scisma non ha niente a che vedere con divergenze dottrinali, ma è il risultato di divergenze riguardanti la disciplina monastica".
Quindi per questi autori:
«Il buddhismo è un'ortoprassi, più che un'ortodossia. Ciò che importa è l'armonia del comportamento, non l'armonia delle dottrine»
(Paul Williams. Op.cit. pag.97)
A controprova di queste tesi Williams ricorda anche l'evidenza che non esiste un codice disciplinare (vinaya) Mahāyāna oltre al fatto che i pellegrini buddhisti cinesi recatisi in India raccontassero nelle loro cronache di viaggio giunte fino a noi di come monaci mahāyāna condividessero con monaci non-mahāyāna, e in tutta tranquillità, gli stessi monasteri.
Condividendo gli stessi monasteri, lo stesso codice monastico e lo stesso comportamento monastico i monaci mahāyāna si differenziavano dai monaci non-mahāyāna unicamente per una diversa visione del fine ultimo del Buddhismo.
Sempre Williams in tal senso richiama l'opera di Atiśa, un dotto missionario indiano in Tibet dell'XI secolo, il Bodhipathapradīpa. In questa opera Atiśa suddivide i praticanti buddhisti in tre classi in base alle loro motivazioni religiose: nella prima sono collocati coloro che cercano di acquisire meriti per migliorare le loro esistenze presenti o future; nella seconda coloro che cercano di uscire dalla prigione del Saṃsāra guadagnando il Nirvāṇa conseguendo lo stato di arhat; nella terza si collocherebbero invece solo coloro che hanno come obiettivo religioso la liberazione della sofferenza per tutti gli esseri senzienti e che quindi mirano ad un Nirvāṇa superiore rispetto a quello degli arhat considerato 'inferiore' come la loro via spirituale (hinayāna). Il Nirvāṇa di questi, detti i bodhisattva, è indicato come "non dimorante" (apratiṣṭhitanirvāṇa) ovvero oltre la dualità tra Saṃsāra e Nirvāṇa e che non abbandona gli altri esseri senzienti nella sofferenza.
«Il punto determinante che rende seguaci del Mahāyāna non è quindi l'abito, le regole monastiche o una filosofia: è la motivazione, l'intenzione»
(Paul Williams. Op.cit. pag.99)
In questo senso
«il termine Mahāyāna è usato semplicemente a scopi pratici. È un 'termine gruppo' che raccoglie una gamma di pratiche e di insegnamenti non necessariamente identici fra loro, e forse neppure compatibili. Il Mahāyāna non costituisce una scuola di buddhismo. Gli manca l'unità necessaria»
(Paul Williams. Op.cit. pag.101)
Atteso che inizialmente il Mahāyāna sembra condividere gli stessi luoghi di pratica del Buddhismo non-Mahāyāna occorre chiarire quando queste due correnti buddhiste si separarono. Dopo un'accurata analisi dei reperti archeologici disponibilie Gregory Schopen conclude:
«Siamo in grado di ritenere che ciò che oggi chiamiamo Mahāyāna non iniziò a emergere come gruppo separato e indipendente sino al IV secolo»
(Gregory Schopen. Op.cit. pag.15)
Quindi, fatto salvo una iscrizione epigrafica scoperta nel 1977 che fa riferimento al Buddha mahāyāna Amithāba nonché di una iscrizione che menziona l'esistenza di "tre veicoli" (yāna) rinvenuta a Charsadda e risalente al 55 d.C., non ci sono prove di una "istituzione" mahāyāna separata dalla restante comunità prima del IV secolo, nonostante sia evidente per gli studiosi che la letteratura scritta che va sotto l'alveo dottrinale mahāyāna fosse già presente in India da diversi secoli. Paul Williams ritiene improbabile una presenza della letteratura Mahāyāna prima della stesura per iscritto della letteratura buddhista riguardante gli Āgama-Nikāya ovvero prima del I secolo a.C., contro questa ipotesi si pone Tilmann Vetter per il quale vi sarebbero prove evidenti di una trasmissione orale del più antico materiale Mahāyāna.
Se quindi c'è generale consenso tra gli studiosi nel ritenere che le prime opere scritte contenenti dottrine mahāyāniste compaiano nei secoli a cavallo della nostra Era e che, fatto salvo casi sporadici, non siano presenti rilevanze archeologiche che testimonino una presenza istituzionalizzata del Mahāyāna se non a partire dal IV secolo, resta da comprendere l'origine del movimento mahāyānista che si diffuse lentamente nei monasteri buddhisti.
Akira Hirakawa ritiene che tale movimento sia di origine prevalentemente laicale e legato al culto degli stūpa. Schopen è di tutt'altro avviso notando che le iscrizioni archeologiche sono quasi tutte monastiche, concludendo che:
«Il Mahāyāna era un movimento dominato dai monaci»
(Gregory Schopen. Two problems in the history of Indian Buddhism: the layman/monk distinction and the doctrines of the transference of merit. In Studien zur Indologie und Iranistik. 1985, X, pag.26)
Anche Paul Harrison e Sasaki Shizuka ritengono che il movimento mahāyānista sia di stretta origine monastica.
Paul Williams ricorda come i recenti lavori di Paul Harrison sui frammenti della letteratura mahāyāna nonché i suoi antichi sūtra conservati nel Canone cinese, e solo recentemente studiati, nonché le conclusioni degli studi archeologici effettuati da Gregory Schopen, possano far concludere che il nucleo centrale del Mahāyāna sia certamente monastico e che il punto centrale del Mahāyāna primitivo corrisponda all'aspirazione della perfetta buddhità ovvero al voto del bodhisattva da contrapporre a coloro che seguivano un sentiero 'inferiore' mirando alla liberazione della sola propria sofferenza invece di mirare a quella di tutti gli esseri senzienti.
Questi monaci mahāyāna corrisponderebbero a degli asceti della foresta tesi a tornare allo spirito buddhista primitivo:
«Una certa spinta ai primi sviluppi del Mahāyāna venne dai monaci dimoranti nella foresta. Lungi dall'essere il prodotto di un movimento urbano, laico e devozionale, molti sūtra mahāyāna rivelano un radicale tentativo ascetico di ritornare all'ispirazione originaria del buddhismo: la ricerca della buddhità o della conoscenza risvegliata»
(Paul Harrison.Searching for the origins of the Mahāyāna : what are we looking for? In Eastern Buddhist. 1995, XXVIII, 1, 65)
Il fatto che i primi mahāyānisti fossero dei monaci asceti delle foreste spiegherebbe, secondo Harrison, la scarsità di testimonianze archeologiche nei loro confronti.
La tesi di un Mahāyāna fondato da monaci conservatori e asceti delle foreste sarebbe dimostrata, secondo Gregory Schopen, anche dall'analisi di un sūtra mahāyāna molto antico, il Maitreyamahāsiṃhanāda (Ruggito del Leone di Maitreya), risalente al I secolo d.C. dove viene raccomandata l'ascesi monastica nelle foreste, la svalutazione della vita laicale e la denigrazione dell'adorazione degli stūpa.
Anche l'origine geografica del "movimento" mahāyānista è stata a lungo dibattuta tra gli studiosi.
Così Luis O. Gòmez:
«Discordanti sono le opinioni degli studiosi occidentali riguardo all'epoca e alla collocazione geografica delle origini del Mahāyāna. Alcuni propendono per una origine antica, intorno agli inizi dell'era volgare, tra le comunità dei Mahāsāṃghikā della regione sud-orientale dell'Andhra. Altri propongono un'origine nordoccidentale, tra i sarvāstivādin, tra il II e il III secolo d.C. Ma forse è più verosimile, per la formazione del Mahāyāna, pensare a un processo graduale e complesso, sviluppatosi in varie regioni dell'India»
Mario Piantelli evidenzia come
«Vi sono due distinti focolai di cui abbiamo notizia: le scuole degli andhaka fiorite attorno ad Amarāvati, presso una delle quali (i pūrvaśaila) sembra fosse conservato un testo dei Prajñāpāramitāsūtra ancora in pracrito, e l'ambiente ricco di fermenti dei sarvāstivādin dell'India di Nord-Ovest; importanti carovanieri congiungevano queste regioni e una continua migrazione di "bhikṣu" e di idee può aver avuto luogo nei due sensi: non è un caso che la presenza di una comunità del Mahāyāna sia segnalata un po' dappertutto lungo tali itinera: Kapiśa (l'attuale Kabul), Takṣaśila, Jalaṃdara (l'attuale Lahore), Kankyākubja, Mathurā...»

L'emergenza simultanea della rivoluzione cristiana e del Grande veicolo buddista nel primo secolo dopo Cristo: gli studi di François-Marie Périer

Nel novembre 2017, lo scrittore François-Marie Périer, di sensibilità cristiana e buddista, pubblicò il saggio storico "La Porte Étroite et le Grand Véhicule, des Premiers Chrétiens aux Bodhisattvas, Révélations sur les Origines du Mahâyâna" - La Porta Stretta e il Grande Veicolo, dai Primi Cristiani ai Bodhisattva, Rivelazioni sulle Origini del Mahāyāna - (éditions le Mercure Dauphinois, Grenoble, non tradotto). Di padre francese e di madre italiana, l'ex-reporter (per la rivista Bouddhisme Actualités) e fotografo François-Marie Périer mette in evidenza la simultaneità dell'apparizione del Cristianesimo e del Mahāyāna ai due poli della Via della Seta, lungo la quale il greco e l'aramaico erano le lingue internazionalmente parlate e scritte, nei primi decenni dell'era cristiana. Attraverso l'uso congiunto della cronologia, dell'iconografia, dell'archeologia, dell'etimologia, delle vie commerciali, dei testi ebraici, cristiani, gnostici, zoroastriani e buddisti Mahāyāna dei primi secoli dopo Cristo, il ricercatore francese afferma l'incontro e la sintesi del messaggio cristiano e del buddismo presente nell'ambito dell'Impero Kushana, fortemente ellenizzato tre secoli dopo le conquiste di Alessandro, alle sorgenti del Grande Veicolo. Per François-Marie Périer, che precisa che il suo obiettivo è di portare un messaggio di conoscenza reciproca ai Buddisti e ai Cristiani, la vita e l'insegnamento del profeta e buddha di Occidente Gesù, portati dai missionari cristiani, impressionarono fortemente la Sangha e vennero integrati con i nuovi insegnamenti cristiani, nella sintesi mahayanista, ponendo la Compassione e la rinuncia al Nirvana del Bodhisattva con il saluto universalmente portato a tutti gli uomini, al di sopra della dissoluzione nel Nirvana cercata dall'Arhat nel Buddismo delle Origini.
Ecco alcuni elementi delle ricerche di François-Marie Périer:
L'apparizione dei tre buddha o bodhisattva dell'Occidente, chiamati poi in Cina I Tre santi dell'Ovest e spesso rappresentati insieme: Amitâbha, Avalokiteshvara et Mahâsthamaprâpta.
- Amitâbha, (Luce Infinita), un rè chiamato Dharmakara (Colui che porta la legge) che aveva rinunciato al proprio regno per compassione per l'umanità e diventò monaco, portando il Dharma dappertutto e manifestando colla propria luce Avalokiteshvara, anche in tal caso per compassione per l'umanità.
- Avalokiteshvara, (Colui che guarda verso il mondo di quaggiù o Colui che ascolata le suppliche del mondo), emanato da Amitâbha,viene descritto come un buddha dalla pelle bianco, di cui il campo d'influenza si estende verso l'Occidente. Attraversò gli Inferni e ne liberò le anime. Sù una montagna, un giorno, ebbe un dubbio sulla sua capacità a liberare tutte le anime del Samsara come aveva emesso il voto di farlo, e il suo corpo scoppiò in mille pezzi, poi riconstituito da Amitâbha e riprese la sua missione aiutata da Târâ. Avalokiteshvara ha in carica di vegliare sull' Ùmanità nel periodo attuale che va dal buddha storico Shakyamuni fino alla discesa di Maitreya.
- Mahâshtamaprâpta, (Arrivo di una grande potenza), è un buddha più astratto e meno rappresentato. Associato alla Saggezza, se ne ritroveranno caratteristiche in Vajrapani e Manjushri


L'apparizione del Paradiso della Terra Pura d'Occidente
Questi tre buddha aspettano il fedele al centro del Sukhavati, o Paradiso della Terra Pura d'Occidente, dove ci sono tutte le delizie, tranne quelle delle donne, che devono prendere un corpo d'uomo per potere accedere al Sukhavati. Un punto comune con il Regno dei Cieli del Vangelo secondo Tommaso, testo gnostico del primo secolo, in cui Gesù afferma a Pietro che le donne che si faranno uomini entreranno nel Regno dei Cieli.


L'apparizione della Saggezza Suprema femminile e la congiunzione alla Compassione maschile
La Prajñā-pāramitā o Saggezza Suprema femminile non esisteva nel Buddismo delle Origini. Ma era presente nella Bibbia, chiamata Shekhina attraverso i Proverbi, il Libro della Sapienza (Sapienza di Salomone o Sapienza) e più recentemente con il Siracide. Târâ, la Sagezza, era stata manifestata nello stesso momento di Avalokiteshvara, dagli occhi di Amitâbha. La congiunzione amorosa della Sagezza femminile e della Compassione maschile al centro dei mandala tantrici è molto simile alle descrizioni che danno i testi gnostici come la Sapienza di Gesù Cristo, o Sofia di Gesù Cristo (II-III secolo dopo Cristo) ritrovata a Nag Hammadi nel 1947. In questo testo apocrifo, la Sapienza e il Salvatore vennero manifestati insieme dalla Luce infinita e si congiungono misticamente nella Camera nuziale. In Cina, Avalokiteshvara e Târâ diverranno Guan-yin, bodhisattva femminile della Compassione, dalla pelle bianca, vestita di bianco, con un bambino sulle ginocchia, chiamata Colei che porta i bambini. In Giappone, Guan-yin diverrà Kannon.


L'apparizione di Maitreya
Anche il buddha Maitreya, (Colui che ama, anche chiamato buddha del Futuro), apparve al primo secolo dopo Cristo, sintesi del dio persiano Mitra, adorato dai confini dell'Impero Romanoo fino all'India sotto diverse forme, e di Cristo. Maitreya, buddha salvatore, scenderà per ristabilire il Dharma nel mondo e rinnovarlo in un modo molto vicino all'escatologia zoroastriana e cristiana.


La Salvezza portata a l'Umanità intera
Come accennato sopra, la nuova salvezza del Mahâyâna è destinata all'insieme dell'Umanità e non limitata ai monaci. Si tratta di un altro punto comune importante con il Cristianesimo che esce dall'ambito strettamente ebraico per essere portato verso i Gentili al di fuori della comunità ebraica.

Destini del Manicheismo e del Mahâyâna
Appena più di un secolo dopo l'emergenza del Mahâyâna nell'Impero Kushana, Mani, il profeta persiano, realizzò con il Manicheismo, che predicò in aramaico, una sintesi tra lo Zoroastrismo, il Buddismo e il Cristianesimo. Prima accolta favorevolmente, venne in seguito perseguitato e martirizzato e il Manicheismo rimase sempre una fede marginale perpetuata però con grande successo dai Catarri nel Medioevo. Invece, protetto in particolare dall'imperatore Kushana Kanishka il Grande che visse tra il primo e il secondo secolo dell'era cristiana e mandò missionari a predicare il Dharma e costruire monasteri per tutto l'Impero seguendo le Vie della Seta, il Grande Veicolo conobbe un enorme successo in India, in Cina, nel Medio-Oriente e più tardi nel Tibet e in Giappone.


La questione delle precedenza storica dell'influenza tra Cristianesimo e Buddismo nel primo secolo dopo Cristo
Anticipando alcune controversie, François-Marie Périer fa prendere in considerazione il fatto che gli elementi elencati sopra, che apparvero nel Grande Veicolo buddista, non erano presenti nel Buddismo delle Origini o nell'area indiana in precedenza, ma erano invece ben presenti, da secoli in alcuni casi, nell'Antico Testamento, nello Zoroastrismo o nell'Ellenismo. Per altro, anche se la parola Mahāyāna esistette nei primi decenni avanti Cristo, il buddhismo Mahāyāna che emerse dall'improvviso nel primo secolo dopo Cristo e si diffuse con grande velocità, è del tutto diverso di quello che si annunciò in modo molto ipotetico nel secolo precedente: né i sûtra, né i buddha, né gli elementi di cosmologia e di escatologia, né i nuovi valori apparsi nell'Impero Kushana erano presenti né riperibili avanti Cristo. E l'arte greco-buddista o arte del Gandhâra, apparsa in quello stesso periodo, è qui per ricordare con grande bellezza l'incontro tra Occidente ed Oriente nell'Impero Kushana, e l'infondere dei valori filosofici e artistici dell'Ellenismo nel nuovo Dharma.

I sūtra Mahāyāna

Il corpus dottrinale Mahāyāna è oggi raccolto nel Canone cinese (大藏經 Dàzàng jīng) e nel Canone tibetano (nel Kanjur e nel Tanjur), così denominati in base alle lingue con cui questa letteratura viene riportata. Conserviamo comunque diverse opere Mahāyāna, integrali, anche in sanscrito ibrido e in khotanese nonché numerosi frammenti in altre lingue spesso rinvenuti lungo le oasi della Via della Seta.
Secondo la tradizione Mahāyāna molti di questi sūtra furono predicati dallo stesso Buddha Śākyamuni, Luis O Gòmez evidenzia tuttavia come siano le stesse tradizioni mahāyāna a smentire questo dato storico quando sostengono che questi sūtra furono trasmessi dal Buddha solo a dei bodhisattva e a degli "esseri celesti" che li nascosero per alcuni secoli nelle profondità della terra o degli oceani per farli riemerge nei primi secoli della nostra Era.
La tradizione Mahāyāna sarebbe comunque originata dalla messa per iscritto della sua prima letteratura (I secolo a.C.), e quindi dalla sua diffusione lungo i monasteri buddhisti indiani; secondo Tilmann Vetter vi sarebbero tuttavia prove evidenti di una precedente trasmissione orale del più antico materiale Mahāyāna.
La più antica letteratura Mahāyāna ad oggi conservata appartiene al ciclo dei Prajñāpāramitāsūtra. Successivamente tale letteratura si espande e si diffonde, raggiungengo oltre le mille opere che si propagano lungo l'Asia centrale e l'Estremo Oriente, giungendo, a partire dallo scorso secolo, in Occidente.


Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra

Mario Piantelli riporta l'opinione di numerosi studiosi per cui l'Āryaprajñāpāramitāratnaguṇasañcayagāthā (Strofe del cumulo di pregi [che sono] le gemme della Nobile Perfezione della Conoscenza) giunta a noi in sanscrito ibrido, raccolta nel Canone tibetano e risalente al I secolo a.C., sarebbe il testo più antico di questa letteratura ad oggi disponibile.
Da questo primo testo originerebbe il successivo Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā (Sutra della Perfezione della Conoscenza in ottomila versi) giunto fino a noi in alcune versioni sanscrite e cinesi. In cinese la prima traduzione di questo sūtra è in dieci fascicoli e risale al 172 d.C. per opera di Lokakṣema con il titolo 道行般若經 (Dàoxíngbōrějīng conservato nel Canone cinese al T.D. 179). Di poco successivo il Pañcaviṃśatisāhasrikāprajñāpāramitāsūtra (Sutra perfezione della saggezza in venticinquemila versi) tradotto nella lingua cinese nel 286 da Dharmarakṣa con il titolo 光讚般若波羅蜜經 (Guāngzànbōrěbōluómìjīng e conservato al T.D. 222).
A seguire gli altri Prajñāpāramitāsūtra, tra i quali ricordiamo:
  • Il Śatasāhasrikāprajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in centomila stanze).
  • L'Aṣṭādaśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in diciottomila stanze).
  • Il Daśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione della saggezza in diecimila stanze).
  • Il Prajñāpāramitā ratnaguṇasaṃcayagāthā (Sutra condensato della perfezione della saggezza).
  • Il Saptaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione di saggezza in settecento righe).
  • Il Pañcaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sutra della perfezione di saggezza in cinquecento righe).
  • Il Prajnaparamita- arasadhika- sutra (Sutra della perfezione di saggezza in cinquanta righe).
  • Il Prajñāpāramitā-naya-śatapañcaśatikā (Sutra della perfezione di saggezza in centocinquanta metodi).
  • Il Pañcaviṃśatika- prajñāpāramitā-mukha (Venticinque porte della perfezione della saggezza).
  • Lo Svalpākṣara-prajñāparamitā (La perfezione della saggezza in poche parole).
  • L'Eka ksarimatanama sarva-tathāgata prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza in una lettera madre dei Tathagata).
  • Il Kauśika prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza per Kausika).
  • Il Suvikrāntavikrāmi-paripṛcchā-prajñāpāramitā-sūtra (Le domande di Suvrikantavikramin).
  • Il Vajracchedika prajñāpāramitā sūtra (Il Sutra del Diamante che recide).
  • Il Prajñāpāramitā Hṛdaya sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza).
L'autore o gli autori dei primi Prajñāpāramitā sūtra sono, a detta di Paul Williams, dei dharmabhāṇaka (predicatori del Dharma) piuttosto che degli esegeti. Essi ripetono costantemente, in questa letteratura religiosa, tre precisi messaggi:
  • La perfezione (Pāramitā) più elevata è la prajña (saggezza o conoscenza non mondana);
  • Il contenuto della prajña è la vacuità (Śūnyatā);
  • Il contesto realizzativo di tutto ciò è il sentiero del Bodhisattva (Bodhisattvayāna) ovvero quello intrapreso dal praticante buddhista che non mira alla salvezza personale raggiungendo lo stato di arhat, bensì alla salvezza di tutti gli esseri senzienti e quindi alla stessa buddhità.

Il Sutra del Loto (Saddharmapuṇḍarīkasūtra)

Composto nella sua forma definitiva tra il I secolo e il II d.C., il Sutra del Loto contiene alcune parti che si possono forse far risalire a poco prima dell'inizio della nostra Era. Tradotto in più lingue questo sutra è stato diffuso lungo l'Asia centrale e l'Estremo Oriente divenendo in molti luoghi il sutra buddhista di riferimento per quelle comunità religiose. Esso si compone di un insieme di racconti fantastici o sovrannaturali aventi lo scopo di 'rivelare' al suo lettore una diversa interpretazione del mondo. In questo sutra il Buddha Śākyamuni presenta il Buddhaekayāna (il veicolo unico del Buddha) in cui verrebbero riassunti tutte le altre 'vie' buddhiste compresa quella dello Śrāvakayāna (o Hinayāna). Il Dharma profondo è espresso dal Buddha non con l'esposizione della dottrina delle Quattro nobili verità (catvāri-ārya-satyāni) ma con quella della Tathātā ovvero della Realtà per come essa è. In questo sutra tutti i buddha dei diversi mondi e universi vengono ad omaggiare con i loro bodhisattva il Buddha Śākyamuni, il buddha della terra di sahā, la nostra terra, come ad indicare la centralità della vita quotidiana per il praticante buddhista che non dovrebbe rivolgersi ad altri buddha cosmici. Infine il Buddha Śākyamuni afferma di essere il Buddha eterno, ovvero di non essere mai entrato nel parinirvāṇa (estinzione definitiva) e di aver conseguito la bodhi da tempo immemorabile. In questo il sutra vuole indicare che il buddha stesso è "incarnato" nel Dharma (così come il Dharma si "incarna" nel Buddha) e nelle pratiche bodhisattviche.

L'Avataṃsakasūtra (Il Sutra della Ghirlanda fiorita)

L'Avataṃsakasūtra (il suo titolo completo è Buddhâvataṃsakamahāvaipulyasūtra) è una collezione di sutra che sono stati raccolti e collegati tra loro sotto questo titolo intorno al IV-V secolo d.C. La dottrina qui esposta, soprattutto nel Gaṇḍavyūhasūtra che ne rappresenta l'ultimo capitolo, è la descrizione del mondo visto dai buddha e dai bodhisattva avanzati (āryabodhisattva). Un mondo quindi fondato sulla visione della Realtà percepita da un profondo stato meditativo. Il mondo dei buddha viene indicato con il termine dharmadhātu (Regno della Realtà assoluta) esso si sovrappone a quello umano indicato come lokadhātu (Regno mondano). Nel dharmadhātu la Realtà esprime la sua vacuità (śūnyatā) e la totale compenetrazione tra tutti i fenomeni che lo compongono. I buddha agiscono nel lokadhātu affinché gli essere lì relegati possano percepire il dharmadhātu e quindi raggiungere la bodhi.
Un altro capitolo importante dell'Avataṃsakasūtra è il Daśabhūmikasūtra (Sutra delle dieci terre), il principale sūtra mahāyāna che enuncia la dottrina delle bhūmi mediante le quali il bodhisattva può procedere per realizzare il pieno risveglio, indicando nella bodhicitta (Mente del Risveglio, ovvero l'aspirazione ad ottenere il Risveglio) il primo passo per entrarvi.


Il Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra

Il Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra è la rivisitazione mahāyāna degli ultimi giorni di vita del Buddha Śākyamuni con i relativi ultimi insegnamenti. Se gli eventi riportati coincidono in parte con il Mahāparinirvāṇasūtra contenuto nello Āhánbù o con il Mahāparinibbānasutta del Canone pāli, questi di origine hīnayāna, gli insegnamenti riportati sono totalmente differenti, insistendo il testo mahāyāna su dottrine quali, ad esempio, il Tathāgatagarbha.
La dottrina contenuta nella prima parte del sūtra consiste nel considerare il parinirvāṇa del Buddha Śākyamuni come una morte "apparente" e in realtà mai avvenuta. Il corpo del Buddha, qui indicato come Dharmakāya o abhedavajrakāya, sarebbe in realtà adamantino e indistruttibile e la sua vita sarebbe incalcolabile. Quello del Buddha è quindi un mahānirvāṇa, differente dal nirvāṇa degli arhat, i quali non hanno la consapevolezza del buddhadhātu ma solo l'assenza delle afflizioni (kleśa).
La seconda parte contiene un insieme di dottrine che vanno da una lettura, sempre docetista, della vita terrena del Buddha e delle sue precedenti attività bodhisattviche, a delle interpretazioni delle regole monastiche (vinaya) alla dottrina del mòfǎ, a quella esoterica del tathāgatagarbha.
Inoltre in questo sūtra buddhista il Buddha, il Tathāgata, è visto possedere le guṇapāramitā (la "perfezione delle qualità": "beatitudine", "permanenza", "purezza" e "Sé") ovvero le quattro qualità opposte che affliggono gli esseri senzienti.
Non solo, le guṇapāramitā sono potenzialmente in tutti gli esseri senzienti, in quanto la loro autentica natura è il tathāgatagarbha. Dal che, a differenza di altre dottrine buddhiste, la dottrina dello anātman viene indicata come saṃvṛtisatya (假諦) ovvero come "verità convenzionale" in quanto lo Śākyamuni avrebbe inteso rigettare solo il "sé" condizionato per liberare il vero "Sé" (mahātman; cinese: 大我, dàwǒ; giapponese: daigo)), nel nirvāṇa, per manifestare il buddhadhātu.


Le dottrine Mahāyāna

Dal punto di vista dottrinale, il Buddhismo Mahāyāna venne delineato nelle scuole Madhyamaka e Cittamātra che fiorirono nell'India settentrionale soprattutto presso l'Università buddhista di Nālandā. Questi insegnamenti contengo tra loro importanti differenziazioni, conservando tuttavia in comune l'importanza della figura del bodhisattva, ovvero del praticante buddhista, laico o monaco, che potendo raggiungere la meta del nirvāṇa vi rinuncia per aiutare tutti gli esseri senzienti ad entrarvi prima di lui, e la centralità dell'insegnamento della vacuità (sanscrito: śunyātā) peraltro già presente negli antichi Āgama-Nikāya.
Va precisato che alcuni di questi insegnamenti, che solo successivamente acquisirono il nome Mahāyāna, almeno dal punto di vista scritturale sono databili nello stesso periodo di quelli riferiti al Buddhismo dei Nikāya, ovvero intorno l'inizio della nostra era. Questo fatto daterebbe l'avvio dottrinale del Mahāyāna, e quindi del Mahāyāna medesimo, intorno a quel periodo.
Gli insegnamenti Mahāyāna si sono diffusi durante l'Impero Kushan e lì hanno progressivamente integrato e quindi sostituito le antiche scuole dette del Buddhismo dei Nikāya giungendo fino in Cina e in Tibet, per poi diffondersi in tutta l'Asia centrale e orientale.
Secondo Icilio Vecchiotti il progressivo sviluppo dottrinale del Mahāyāna è causa di una graduale migrazione del Buddhismo stesso verso dottrine idealistiche:
«La pluralità delle dottrine e la pluralità dei Buddha si ambientano proprio in questa dinamica, costituendo l'espressione di una pluralità di forme, che si avviano ad essere in modo sempre più esplicito forme della coscienza, cosa che le viene a togliere da qualsiasi problema di tipo sostanzialistico, da questo atteggiamento esplicito-implicito nasce la drammatica problematicità dei sūtrāṇi del Grande Veicolo. Non c'è alcun dubbio che nel progresso dei tempi si venisse a determinare tutta una serie di discrepanze dottrinali, nel senso che le nuove dottrine, in uno sviluppo che non sempre fu lineare, venivano a contenere apoftegmi che non sarebbero potuti appartenere al Buddhismo primitivo: se si guarda agli estremi della linea derivata il Buddhismo delle origini non è idealistico, o almeno tale non si può definire, mentre tale senza dubbio è il punto d'arrivo del Buddhismo stesso.»



mercoledì 31 gennaio 2018

Ama no Murakumo

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Ama no Murakumo (天叢雲剣), letteralmente Spada del Paradiso, detta anche Ama no Murakumo no Tsurugi o Kusanagi-no-tsurugi, è una spada leggendaria appartenente alla mitologia shintoista giapponese.

Leggenda

La storia della spada si estende nei fumosi territori del mito. Secondo quanto narra l'antico testo Kojiki, il dio del mare e delle tempeste Susanoo incontrò nella regione di Izumo una famiglia disperata: i genitori avevano perso sette figlie sacrificate al malvagio mostro a otto teste Yamata no Orochi, che richiedeva vergini in sacrificio in cambio della promessa di non devastare la provincia, e adesso rischiavano di perdere anche Kushinada, ultima esponente della loro famiglia.
Invaghitosi della giovane, a causa della sua bellezza così delicata e della sua eleganza, Susanoo ideò un piano per sconfiggere il mostro, in cambio della possibilità di sposarla: trasformata Kushinada in un pettine, ordinò che fossero raccolti otto barili di sake, da disporre di fronte alla casa della ragazza, dove Yamata no Orochi sarebbe giunto per reclamare la vergine.
Mentre Susanoo si nascondeva in una vicina foresta, Yamata no Orochi giunse di fronte alla casa di Kushinada, e qui trovò gli otto barili di sake e non poté far a meno di ubriacarsi, finché ogni testa cadde addormentata. Solo quando tutte le teste del mostro scivolarono in un sonno profondo, Susanoo abbandonò il suo nascondiglio e le recise, uccidendo il drago leggendario.
Un'altra versione della leggenda, invece, racconta di come Orochi fosse sì ubriaco, ma anche sveglio quando Susanoo giunse. Ne seguì un combattimento che durò per ore, deciso alla fine solo dalla stanchezza e dalla mancanza di lucidità del mostro, che ne decretarono la sconfitta.
In ogni caso, Susanoo uccise Yamata no Orochi e dopo aver tagliato le otto teste, iniziò a recidere le code del mostro. Sempre secondo il mito, riuscì a tagliare le prime sette senza difficoltà, ma quando giunse all'ottava coda, la sua spada impattò contro qualcosa di molto resistente. Fu così che Susanoo trovò la spada Ama no Murakumo (in seguito chiamata Kusanagi) nella coda maggiore del drago. Altre varianti della stessa leggenda sostengono che la coda dove era celata la spada fosse, in realtà, la quarta e non l'ottava.
Un'altra versione della leggenda narra che, dopo l'uccisione di Yamata no Orochi, Ama no Murakumo fu consegnata alla dea del Sole Amaterasu, sorella di Susanoo, come dono di riconciliazione per appianare un antico diverbio.
Generazioni dopo, nel regno del dodicesimo imperatore, l'imperatore Keikō, la spada passò nelle mani del grande guerriero Yamato Takeru, come dono della zia, la principessa Yamato, Vergine del Tempio di Ise, per proteggere il nipote dai pericoli che il giovane avrebbe dovuto affrontare durante una spedizione contro gli Ainu.
Sempre secondo questa versione, Yamato Takeru cadde in un'imboscata in un pascolo, durante una spedizione di caccia, organizzata da un perfido signore della guerra. Costui, utilizzando delle frecce infuocate, intrappolò l'eroe in un cerchio di fuoco e nel frattempo uccise il suo cavallo per impedirgli la fuga. Disperato, Yamato Takeru cercò di usare la spada per impedire alle lingue di fuoco di raggiungerlo e con grande stupore scoprì come l'arma avesse il controllo sul vento. Questa magia gli permise di crearsi un varco fra le fiamme, salvandogli la vita. Da allora, Yamato Takeru chiamò la spada Kusanagi, che letteralmente vuol dire Spada Falciatrice d'Erba.
Questa parte della leggenda, dunque, spiega le origini del nome della spada. Tuttavia altre versioni [senza fonte] sostengono che in realtà Kusanagi significhi semplicemente Spada del Serpente in quanto, in antico giapponese, kusa vuol dire spada e nagi serpente.

Tracce storiche di Ama no Murakumo

Oltre Kojiki, un altro importante testo che menziona la spada è il Nihonshoki. A differenza del primo, quest'ultimo testo non contiene soltanto storie mitologiche, ma anche registra alcuni eventi contemporanei o comunque vicini alla sua stesura. Questi passi sono considerati molto importanti da un punto di vista storico ed è qui che troviamo le prime tracce effettive della spada. Secondo quanto vi è registrato, essa fu rimossa dal palazzo imperiale nel 688 e fu trasferita al Tempio di Atsuta, a Nagoya.
Nel poema epico Heike Monogatari, una raccolta di storie orali trascritte nel 1371, si legge che la spada andò persa in mare dopo la sconfitta del Clan Taira nella battaglia navale di Dan-no-ura. Ovviamente, la valenza storica di questo testo è fortemente contestata proprio per la sua natura epica.
Secondo altre storie costruite intorno alla spada, il decimo imperatore del Giappone, l'imperatore Sujin, ordinò che fosse forgiata una replica di Ama no Murakumo. Questa informazione, tuttavia, divenne di dominio pubblico solo quando si seppe che la spada era stata rubata, sebbene secondo alcune voci fu la sua copia a cadere nelle mani dei ladri. Va inoltre sottolineato come l'imperatore Sujin sia ritenuto spesso una figura leggendaria a causa dell'incapacità degli storici di inserirlo in un contesto storico ben preciso.
Un'altra storia racconta che la spada fu nuovamente rubata nel sesto secolo, da un monaco cinese. Ma la nave dove costui viaggiava, presumibilmente, affondò permettendo alla spada di giungere presso Ise, dove fu recuperata dai monaci shintoisti.

Ama no Murakumo oggi

Sebbene sia impossibile provarlo, a causa del fatto che non è accessibile al pubblico, la spada sembra sia veramente conservata presso il Tempio di Atsuta, infatti vi è una testimonianza, risalente al Periodo Edo, secondo la quale un sacerdote shintoista l'avrebbe vista e descritta. In base alle sue parole, la spada Kusanagi sarebbe lunga circa 84 cm, modellata come un calamo, forgiata in un metallo bianco e ben mantenuta.
In tempi recenti, inviati della stazione televisiva nazionale giapponese NHK si sono recati al tempio per chiedere di poterne fare delle riprese. Sebbene i monaci abbiano rifiutato di mostrare l'arma, non hanno negato la sua esistenza, men che meno il fatto che la stessa sia conservata presso il loro tempio. In ogni caso, anche se sicuramente delle spade notevolmente antiche sono conservate presso il santuario, non è certo detto che esse siano la spada leggendaria.
Insieme allo Specchio di forma ottagonale e alla Gemma, simboli di Amaterasu, Ama no Murakumo è uno dei Tre Tesori Sacri di Yamato.

martedì 30 gennaio 2018

Anat

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Anat (anche, fenicio ענאט, Anath; ugaritico Anat; in greco antico: Αναθ, Anath; reso in lingua egizia come Antit, Anit, Anti o Anant), è una divinità semitica nordoccidentale.
Anat era la dea cananea della Terra, dell'amore e della fertilità, divinità della guerra e Dea Madre. Veniva definita Vergine Dea. Viene paragonata a molte altre divinità: Demetra, Iside, Asherah, . Consorte (a volte sorella) di Ba'al. Figlia di Shamgaz (con il nome di Asta). Consorte di Jahvè.
L'origine del nome è incerta; una delle ipotesi è che il termine derivi dal semita Anu (cielo), con l'attributo femminile 'nt', forse un tentativo di tradurre in semita il nome della dea sumera Inanna, che deriva il suo nome da (N)in = signora, An = cielo, na = particella possessiva, con il significato di 'signora del cielo'. Un altro possibile significato dell'etimo Anat è "fornitrice" o "segno" di Ba'al.
Molti testi provenienti da Ugarit in Siria raccontano le gesta belliche del dio Baal, al cui fianco combatte Anat.
È la Dea che proclama la necessità di costruire un tempio a Baal: si legge in un testo di Ras Shamra:
«Sì (ella dice), non vi è alcuna casa per Baal, come per gli Dei, / un atrio come per i figli Asherat.»

Miti

Su Anat esistono diversi miti. Un mito narra che Anat e Ba'al vinsero un combattimento e invitarono gli sconfitti ad un banchetto. Anat si presentò coperta di ocra rossa o di porpora e sbranò i superstiti del combattimento. Un altro mito narra che Anat si trasformò in bufala e partorì mucche e tori. In un altro mito ancora Anat resuscita l'amato sposo Ba'al e ne vendica la morte uccidendo Mot.

Anat in Egitto








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Il culto di Anat, portato in Egitto dagli Hyksos, fu adottato nel pantheon egizio e divenne molto popolare durante la XIX dinastia egizia, durante la quale Anat divenne la protettrice militare di alcuni faraoni (come Ramesse II).
Su una stele tebana è raffigurata Anat, assisa in trono, che tiene nella mano sinistra uno scudo ed una lancia, mentre nella destra ha un'ascia.
Su alcuni papiri dell'isola di Elefantina, vicino ad Assuan, databili intorno al 410 a.C., viene citata la dea Iahu-Anat, adorata nel tempio di Yahweh in Gerusalemme.


lunedì 29 gennaio 2018

Ki

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Il termine cinese qi, in giapponese ki o anche ci in coreano (forma più antica) è il nome dato all'energia "interna" del corpo umano ricorrente in tutte le aree soggette all'influenza culturale cinese (Giappone, Corea) ma spazia da ambiti prettamente filosofici alle arti marziali o la medicina tradizionale cinese fino alla geomanzia, idraulica, pittura, calligrafia e poetica. La pronuncia in italiano è "ci".
In particolare il termine sinogiapponese ki è l'elemento centrale costitutivo del vocabolo giapponese Aikido 合気道 (scritto in kanji) od anche 合氣道 (usando la grafia non semplificata), di cui il termine ki costituisce il concetto essenziale.

Traslitterazione

Il termine ki è presente sia nella lingua giapponese che in quella cinese. Dato che queste lingue condividono in parte il sistema di scrittura ma il giapponese utilizza pronunce adattate dei termini cinesi, le traslitterazioni nell'alfabeto latino non sempre risultano univoche. La traslitterazione dal giapponese è quindi ki, secondo il sistema Hepburn, mentre dal cinese esistono due possibili traslitterazioni in uso: la prima segue il metodo Wade-Giles ed è C'hi, la seconda segue il metodo Pinyin ed è .

Storia del ki

Il concetto orientale di ki è di difficile definizione.
In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall'instaurarsi della cultura cinese. Il ki esprime il concetto delle energie fondamentali dell'universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nell'antica Cina, poiché era visto come la forza che originava tutte le funzioni fisiche e psicologiche, il concetto di ki venne ampiamente utilizzato nella medicina tradizionale cinese, nelle arti marziali ed in molti altri aspetti della vita. Il concetto di ki fu utilizzato per determinare il massimo livello della forza dei soldati, per scegliere in base a ciò il movimento militare idoneo. In seguito, lo studio dei ki divenne una forma di pratica di predizione del destino, mediante l'abilità dell'indovino di leggere il ki di un individuo.
Nella cultura tradizionale induista il termine con significato corrispondente è il vocabolo sanscrito Prana.
Nella cultura tradizionale occidentale, il significato del termine latino spiritus di cui il vocabolo ki è termine equivalente, traduce la parola greca πνευμα (pneuma, il soffio vivificatore) da πνειν (soffiare) e questa a sua volta traduce la voce ebraica rû:ăh (accento sulla u e suono gutturale aspirato finale). La rû:ăh ebraica (che a differenza degli altri termini è invece un sostantivo femminile), in relazione all'ambito della natura indicava il soffio del vento, in relazione all'ambito di Dio significava la sua forza di creare la vita e di imprimere un senso alla storia, in relazione all'ambito dell'Uomo ne indicava non solo il suo essere vivo, ma anche il suo respiro ed il suo alito.

Il ki nella filosofia

La possibile traduzione dell'ideogramma ki, è Essenza Individuale, cioè quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri. Secondo una interpretazione spirituale o filosofica potremmo parlare di Anima, di Microcosmo, di Coscienza, di Psiche oppure più concretamente di Personalità, Individualità, Carattere, Identità. Ciò che importa stabilire ora è l'esistenza di una energia che muove dall'interno del nostro corpo (inteso come sistema Mente/Corpo) e gli permette di interagire con la realtà. La cellula è l'unità fondamentale della materia vivente, il suo cuore è il nucleo, il suo corpo è la membrana citoplasmatica. La membrana plasmatica non è solamente una barriera passiva tra l'ambiente esterno e quello interno della cellula, ma è capace di governare il passaggio delle sostanze che l'attraversano. Durante lo sviluppo dell'organismo, sono le cellule che evolvendosi e specializzandosi formano i tessuti. La cellula consiste quindi dei componenti essenziali, necessari al processo vitale, in grado di fornire a tutto l'organismo energia e materiali di costruzione. Il complesso delle reazioni che generano energia è detto respirazione interna, per distinguerlo dalla respirazione polmonare. Crescita, rinnovamento e riparazione sono le caratteristiche fondamentali di ogni tipo di vita. Nell'essere umano esiste una memoria di un passato antichissimo, un collegamento con i primordi della vita ed esistono misteriose e segrete, le istruzioni per edificare l'intera vita. Le cellule sanno perfettamente quello che devono fare la crescita, la vita e la riproduzione. Questa conoscenza è una forma di energia, ed è in questo senso che si intende il ki, come energia ancestrale, primordiale, come memoria, saggezza e armonia interiori, collegamento a tutti gli esseri precedenti e conseguenti. Il ki è l'essenza, il seme, il germe, il nucleo dove si condensa il significato della vita. Come la cellula conosce il proprio scopo, sa chi è e cosa deve fare e lavora instancabilmente per essere sé stessa, anche l'essere umano ha un preciso compito nella vita. Cercarlo, scoprirlo, comprenderlo e realizzarlo è la chiave della felicità.
Ki è quindi la Forza Vitale che scorre in ogni organismo vivente. In Sanscrito è conosciuta come Prana, nella Medicina tradizionale cinese si chiama Chi, e circola negli organi interni e nei meridiani generando i principali processi fisiologici come la respirazione, la digestione, la circolazione sanguigna e linfatica, la secrezione e l'escrezione. Nelle arti marziali indica la capacità di concentrare e dirigere il potere personale durante il combattimento, (Kumite). Le pratiche yogiche di respirazione o Pranayama mettono in condizione di accumulare l'energia all'interno del corpo, attraverso la meditazione, i mudra, i mantra possiamo interagire con il nostro equilibrio psicofisico.

Il ki (qì) nelle arti marziali

Il ki di cui si tratta nella disciplina giapponese dell'Aikido, è rappresentato dall'ideogramma giapponese che, nei caratteri della scrittura kanji, raffigura il vapore che sale dal riso in cottura.
Nella disciplina dell'Aikido significa spirito, ma non nel significato che tale termine ha nella religione, bensì nel significato del vocabolo latino "spiritus", cioè soffio vitale ed energia vitale.
Il riso, nella tradizione giapponese, rappresenta il fondamento della nutrizione e quindi l'elemento del sostentamento in vita ed il vapore rappresenta l'energia sotto forma eterea e quindi quella particolare energia cosmica che spira ed aleggia in natura e che per l'Uomo è vitale. Il ki è dunque anche l'energia cosmica che sostiene ogni cosa.
Nella disciplina dell'Aikido e più in generale nelle arti marziali giapponesi ed orientali, l'essere umano è vivo finché è percorso dal ki dell'universo e lo veicola scambiandolo con la natura circostante: privato del ki l'essere umano cessa di vivere e fisicamente si dissolve. Nella concezione delle arti marziali orientali, l'essere umano è pieno di vita, di coraggio, di energie fisiche ed interiori finché veicola il ki in modo vigoroso attraverso il proprio corpo e lo scambio con la natura circostante è abbondante; quando invece nel suo corpo la carica vitale del ki è carente, l'essere umano langue, è debole, codardo, rinunciatario.
Nella pratica della disciplina dell'Aikido 会氣道, ci si impegna per imparare a riempire il corpo con il ki ed a veicolarlo energicamente; pertanto nell'Aikido 会氣道 è necessario comprendere bene la profonda natura del ki ed imparare a riconoscerne le manifestazioni e gli effetti, i quali vanno sotto il nome di Kokyu.
Per estensione di significato il ki può essere associato a quella che i fisici del XVIII e XIX secolo chiamavano vis viva (forza viva), ovvero una sorta di fluido attraverso il quale l'energia ha la possibilità di trasferirsi da un oggetto materiale ad un altro. Secondo le antiche credenze, attraverso la respirazione il ki si accumula e riempie tutte le parti del corpo, ma viene emanato solo quando corpo e mente sono sereni e distesi.
Nell'aikido o nel taijiquan ogni gesto è un movimento di energia, nel Jūdō, nel ju jitsu non è importante la forza muscolare quanto l'abilità di gestire e direzionare il ki.
Secondo una trattazione scientifica corrispondente alla mentalità occidentale, il ki potrebbe essere inteso come l'energia interna di un corpo.
La questione dell'armonia del ki (o Ai-Ki) è un concetto orientale di una certa complessità. Si noti innanzitutto che tale questione è assolutamente diversa da quella di una mente (nel senso di Kokoro) salda e lucida, anche se entrambe si riconducono allo stesso principio: il miglior impiego dell'energia. Tale principio, enunciato e fermamente sostenuto da Jigoro Kano (Ki-Ai) fu concretamente realizzato da Morihei Ueshiba con la creazione dell'Aikido (termine composto dai vocaboli Ai-Ki-Do, ciascuno dei quali ha un suo proprio significato che, unito agli altri, genera un significato più complesso). Questa disciplina realizza l'Ai-Ki nella vita interiore dell'uomo e nella sua manifestazione esteriore: questa esteriorizzazione è denominata nella lingua giapponese con il termine Kokyu. La realizzazione dell'Ai-Ki è infatti la manifestazione di uno stato di totale controllo del corpo che vive ed agisce in perfetta armonia con le leggi naturali e cosmiche. Tuttavia, sebbene questo stato sia raggiungibile sotto il controllo dell'esercizio della volontarietà in modo relativamente facile, il requisito fondamentale dell'Ai-Ki è l'assoluta spontaneità ed istintualità dei propri movimenti, per quanto precisi essi siano. Le azioni passano dallo stato di consapevolezza volontaria a quello di libera istintualità e perciò si dice che la mente (sempre nel senso di Kokoro) è ricettiva e conforme ad adattarsi alle situazioni.
Nella disciplina dell'Aikido con il termine "istintualità" s'intende quell'istintività non naturale, cioè che nessuno possiede in modo innato e spontaneo, ma che un'abitudine frutto di un allenamento particolare può far penetrare nei meccanismi istintivi naturali e consolidarli ad essi, radicandoli nell'istinto naturale come se questi fossero stati conferiti insieme alla nascita. Per fare un esempio: sono reazioni istintuali le complesse reazioni istantanee fra di loro combinate ed armonicamente sincronizzate quali le azioni contemporaneamente esercitate su freno, frizione, cambio, acceleratore, volante, che quando siamo alla guida di un autoveicolo poniamo in essere in situazioni d'emergenza senza pensare ai gesti che compiamo, mentre il ritrarre istantaneamente la mano senza pensare e premeditare il gesto che si compie quando questa è scottata da una fiamma, questo è invece un gesto istintivo.
Secondo la tradizione orientale e specificamente delle arti marziali giapponesi, esistono tre sedi naturali in cui il ki si localizza che nella lingua giapponese sono denominate "tanden" 丹田, le quali non sono però delle vere e proprie sedi fisiche, materiali, corporee, ma sono dei punti virtuali dove viene localizzata la cosiddetta "presenza mentale" del praticante e precisamente: il "Kikai Tanden" 気海丹田, la sede viscerale, il "Chudan Tanden" 中段丹田, la sede mediana ed il "Jodan Tanden" 上段丹田, la sede superiore.
Il ki è l'energia vitale che percorre i centri vitali e li rende funzionali e capaci di svolgere il loro compito essenziale per il mantenimento in vita dell'essere umano.
Il Maestro Shingeru Egami (Shotokai) in un passaggio del suo libro Karate-Do Nyumon dice:
Il problema della mente è profondo. La sua elevazione ad uno stato superiore, l'allargamento e la purificazione di se stessi, sono le ultime cose da conseguire per mezzo della pratica. Si devono allenare mente e corpo, perché diversamente la pratica non ha senso. Tentando di pulire la vostra mente dalle impurità della vita quotidiana, per mezzo del contatto spirituale con gli altri. La mente ed il corpo sono simili a due ruote di un carro, nessuna delle due ha il predominio. Questa è la pratica autentica. Ottenere qualcosa di valore spirituale nella vita è vera pratica. Entrando in contatto fisico con gli altri, si entrerà anche in contatto spirituale. Nella vita quotidiana bisogna arrivare a conoscere le nostre relazioni con gli altri, come ognuno di noi influisca sugli altri e come le idee si possano scambiare. Si devono rispettare gli altri e pensare bene di loro. Le persone devono essere mentalmente aperte e rispettose del benessere e della felicità altrui. In un combattimento, quando riuscirete a trascendere dalla semplice pratica, riuscirete ad essere una cosa sola con il vostro avversario.