Siddhārtha Gautama, (sanscrito,
devanāgarī सिद्धार्थ गौतमा;
pāli,
Siddhattha Gotama), meglio
conosciuto come
Gautama Buddha, il
Buddha storico, Buddha
Śākyamuni
(शाक्यमुनि,
Śākyamuni, "il saggio dei Śākya") o semplicemente
Buddha, conosciuto in
italiano arcaico come Gotamo Buddho
(sanscrito e pāli बुद्ध,
Buddha, cioè "il risvegliato" o "l'illuminato";
Lumbini, 8 aprile 566 a.C. – Kushinagar, 486 a.C.), è stato un
monaco buddhista, filosofo, mistico e asceta indiano, fondatore del
Buddhismo, una delle più importanti figure spirituali e religiose
dell'Asia.
Visse approssimativamente secondo
diverse indagini storiche tra il 566 a.C. e il 486 a.C. e proveniva
da una famiglia ricca e nobile del clan degli Śākya, da cui anche
l'appellativo Śākyamuni (l'asceta o il saggio della famiglia
Śākya).
Il termine sanscrito e pāli Buddha
indica, nel contesto religioso e culturale indiano, "colui che
si è risvegliato" o "colui che ha raggiunto
l'illuminazione".
Altri appellativi con cui viene spesso
indicato Gautama Buddha sono i termini sanscriti:
- Tathāgata: "Il Così Andato" o "Il Così Venuto", epiteto con cui Gautama Buddha indica sé stesso nei suoi sermoni, uguale alla forma pāli che compare di frequente nel canone pāli;
- Śākyamuni: "Il saggio dei Śākya" (riferito al clan a cui apparteneva Gautama Buddha), utilizzato soprattutto nella letteratura del Buddhismo Mahāyāna (Sakyamuni nel canone pāli);
- Sugata: "Il Bene Andato", utilizzato soprattutto nell'ambito delle scritture del Buddhismo Vajrayāna ma frequente anche nel canone pāli;
- Bhagavān: "Signore", "Venerabile", "Illustre", Beato, Sublime, Perfetto. Dal sostantivo sanscrito bhaga, "ricchezza", "fortuna". Nella letteratura buddhista indica il Buddha.
- Bodhisattva: "colui che sta percorrendo la via per diventare un buddha", o "colui che cerca di conseguire il 'Risveglio'" o "colui la cui mente (sattva) è fissa sulla bodhi", usato per indicare Gautama prima del conseguimento della condizione di Buddha.
- Nella letteratura di scuola Theravāda viene indicato con il nome pāli di Gotama Buddha.
Nella tradizione buddhista la vita di
Gautama sarebbe stata preceduta da innumerevoli altre rinascite. In
una prospettiva buddhista tali rinascite non coincidono con il
concetto di metempsicosi, o trasmigrazione di un'anima individuale,
in quanto il concetto di sé permanente (ātman) è esplicitamente
negato con la dottrina dell'anātman. Non sono forme di
reincarnazione, ma scandite dalla successione di vite legate fra loro
dalla trasmissione degli effetti del karma.
Queste Jātaka («vite anteriori»),
che nella tradizione fanno parte integrante della vita di Gautama,
furono incluse nel canone buddhista e sono formate da 547 racconti
edificanti in cui compaiono animali, dèi, e uomini delle più
diverse estrazioni sociali e castali.
Sulla vita di Gautama Buddha esistono
numerose tradizioni canoniche. La più antica biografia autonoma di
Gautama Buddha ancora oggi disponibile è il Mahāvastu, un'opera
della scuola Lokottaravāda del Buddhismo dei Nikāya risalente agli
inizi della nostra Era, redatta in sanscrito ibrido.
Esistono anche il Lalitavistara, il
Buddhacarita di Aśvaghoṣa e l'Abhiniṣkramaṇasūtra. Di
quest'ultimo sutra, dal titolo in lingua cinese 佛本行集經
Fó běnxíng jí jīng, sono disponibili ben cinque versioni
nel Canone cinese, conservate nel Běnyuánbù.
Più tarda (IV, V secolo d.C.) è la
raccolta biografica, sempre autonoma, contenuta nel
Mūla-sarvāstivāda-vinaya-vibhaṅga. Episodi della sua vita non
come biografie autonome si conservano anche nelle raccolte dei suoi
discorsi riportati negli Āgama-Nikāya.
Secondo Erich Frauwallner tutto questo
materiale biografico, autonomo o inserito nelle raccolte dei sermoni
di Gautama Buddha, farebbe parte di una prima biografia composta un
secolo dopo la sua morte, e inserita come introduzione allo
Skandhaka, a sua volta un testo del Vinaya. Di diverso avviso sono
altri studiosi come Étienne Lamotte
e André Bareau per i quali invece
le biografie di Gautama Buddha hanno subìto una graduale evoluzione
partendo proprio dalle narrazioni episodiche contenute negli
Āgama-Nikāya e nei Vinaya per poi evolversi nelle raccolte autonome
come il Mahāvastu.
Nel complesso queste biografie
tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal
meridionale, a Lumbinī (non distante da Kapilavastu), e raccolgono
numerosi racconti e leggende che hanno l'obiettivo di evidenziare la
straordinarietà dell'avvenimento: miracoli che ne annunciano il
concepimento, chiari segnali che il bimbo che stava per venire al
mondo sarebbe stato un Buddha.
La sua famiglia di origine (Śākya
significa "potenti") si dice fosse ricca: una stirpe
guerriera che dominava il paese e che aveva come capostipite
leggendario il re Ikṣvāku.
Il padre di Siddartha, il rāja
Suddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era
politicamente divisa l'India del nord. La madre di nome Māyā (o
Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.
Suddhodana e Māyā erano sposati da
molti anni e non avevano avuto figli. Nel Buddhacarita si racconta
che Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le penetrò nel corpo
senza alcun dolore e ricevette nel grembo, "senza alcuna
impurità", Siddharta che fu partorito nel bosco di Lumbinī,
dove il figlio le nacque da un fianco senza alcun dolore. Siddharta,
sempre secondo il racconto del Buddhacarita, nacque pienamente
cosciente e con un corpo perfetto e luminoso e dopo sette passi
pronunciò le seguenti parole:
«Per conseguire l'Illuminazione io sono nato, per il bene
degli esseri senzienti; questa è la mia ultima esistenza nel
mondo» |
(Aśvaghoṣa. Buddhacarita, canto I, 15) |
Sempre secondo il Buddhacarita (canto
I) dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e
asceti per una cerimonia di buon auspicio. Durante questa cerimonia
si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine,
l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale
qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le
lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un
Monarca universale (Chakravartin, sans., Cakkavattin, pāli), oppure
un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che
avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un
Buddha. Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue
lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia
d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli
derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli
avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di
un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka
che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e
che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti.
Il padre rimase turbato dalla
possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della
legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse
impedire l'evento premonito. La madre Māyā morì a soli sette
giorni dal parto e il bimbo venne quindi allevato dalla seconda
moglie del re Suddhodana, Pajāpatī, una sorella minore della
defunta Māyā, nel più grande sfarzo. Figlio, quindi, di un rāja,
cioè di un capo eletto dai maggiorenti cui era affidata la
responsabilità del governo, ricevette il nome di Siddharta (="quegli
che ha raggiunto lo scopo") Gautama ("l'appartenente al
ramo Gotra degli Śākya").
Siddharta mostrò una precoce tendenza
contemplativa, mentre il padre l'avrebbe voluto guerriero e sovrano
anziché monaco. Il principe si sposò giovane, all'età di sedici
anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di
Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio,
Rāhula. Nonostante però fosse stato allevato in mezzo alle comodità
e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in
qualità di erede al trono, la profezia del saggio Asita puntualmente
s'avverò.
A 29 anni, ignaro della realtà che si
presentava fuori della reggia, uscito dal palazzo reale paterno per
vedere la realtà del mondo, testimoniò la crudeltà della vita in
un modo che lo lasciò attonito. Incontrando un vecchio, un malato e
un morto (altre fonti narrano di un funerale), comprese
improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le
ricchezze, la cultura, l'eroismo, tutto quanto gli avevano insegnato
a corte erano valori effimeri. Capì che la sua era una prigione
dorata e cominciò interiormente a rifiutarne agi e ricchezze.
Poco dopo essersi imbattuto in un
monaco mendicante, calmo e sereno, decise di rinunciare alla
famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la
liberazione. Secondo il Buddhacarita (canto V), una notte, mentre la
reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele
auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la
famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica. Secondo un'altra
tradizione comunicò la propria decisione ai genitori e, nonostante
le loro suppliche e lamenti, si rase il capo e il volto, smise i suoi
ricchi abiti e lasciò la casa. Fece voto di povertà e compì un
percorso tormentato d'introspezione critica. La tradizione vuole
ch'egli abbia intrapreso la ricerca dell'illuminazione a 29 anni (536
a.C.).
Dopo la fuga dalla società,
abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma
che soggiornava nella regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la
sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la
ākiñcaññayatana, la "sfera di nullità" che per Āḷāra
Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa.
Insoddisfatto del conseguimento,
Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per
seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la
liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che,
esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del
nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né
non-percezione.
Pur avendo raggiunto la meta indicata
dal maestro, Gautama non si ritenne soddisfatto e decise di lasciarlo
per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume
Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per
formare il fiume Phalgu, a pochi chilometri dall'odierna Bodh Gaya.
Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a
cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña
Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto
a sua volta maestro spirituale. Le pratiche ascetiche, dietetiche e
meditative che sviluppò in questo periodo non sono note, anche se la
tradizione successiva le descrive particolarmente austere.
Ad un certo punto anche questa strada
si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle
pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione, tornò a una dieta
normale accettando una tazza di riso bollito nel latte offertagli da
una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò la perdita
dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un
segno di debolezza e lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le
cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la
conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di
profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il
corpo fosse stato in buone condizioni, non spossato da fame, sete e
sofferenze autoinflitte.
A 35 anni, nel 530 a.C., dopo sette
settimane di profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di
luna piena del mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a Bodh
Gaya a gambe incrociate nella posizione del loto, a lui si spalancò
l'illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a
raggiungere il Nirvāṇa.
Il Buddha conseguì, con la
meditazione, livelli sempre maggiori di consapevolezza: afferrò la
conoscenza delle Quattro nobili verità e dell'Ottuplice sentiero e
visse a quel punto la Grande Illuminazione, che lo liberò per sempre
dal ciclo della rinascita (da non confondersi con la dottrina
induista della reincarnazione, che fu esplicitamente rigettata con la
dottrina del "non Sé", anātman).
La prima settimana dopo l'illuminazione
Gautama Buddha rimase in meditazione sotto la Ficus religiosa. Altre
tre settimane le passò meditando sotto tre altri alberi: la prima
sotto un ajapāla (Ficus benghalensis o Ficus indica), la seconda
sotto un mucalinda (sanscrito: mucilinda; Barringtonia acutangula),
la terza sotto un rājāyatana (Buchanania latifolia).
Sotto l'ajapāla fu raggiunto da un brāhmaṇa che lo interrogò sulla natura dell'essere brāhmaṇa, e la risposta fu che tale è chi ha sradicato il male e parla in accordo con il Dhamma, smentendo così implicitamente che fosse dovuto a una condizione dettata dalla nascita e dall'appartenenza di casta.
Durante la meditazione sotto il mucalinda si sviluppò un temporale che durò sette giorni, ma uno spirito-serpente del luogo, un nāga, protesse il Buddha dalla pioggia e dal freddo.
Sotto il rājāyatana il Buddha sperimentò la gioia della liberazione dalle rinascite. In quella circostanza gli fecero visita due mercanti, Tapussa e Bhallika, che gli offrirono dei dolci al miele e presero rifugio nel Buddha e nel suo Dhamma, divenendo così i primi upāsaka, seguaci laici. Nella settimana seguente il Buddha tornò a meditare sotto l'ajapāla, e si interrogò se dovesse diffondere la dottrina o se dovesse mantenerla solo per sé, essendo "difficile da comprendere, al di là della ragione, comprensibile solo ai saggi". Brahmā, il "Signore del Mondo", giunse di fronte al Buddha e inginocchiatosi lo implorò di diffondere la sua dottrina "per aprire i cancelli dell'immortalità" e permettere al mondo di udire il Dhamma.
Sotto l'ajapāla fu raggiunto da un brāhmaṇa che lo interrogò sulla natura dell'essere brāhmaṇa, e la risposta fu che tale è chi ha sradicato il male e parla in accordo con il Dhamma, smentendo così implicitamente che fosse dovuto a una condizione dettata dalla nascita e dall'appartenenza di casta.
Durante la meditazione sotto il mucalinda si sviluppò un temporale che durò sette giorni, ma uno spirito-serpente del luogo, un nāga, protesse il Buddha dalla pioggia e dal freddo.
Sotto il rājāyatana il Buddha sperimentò la gioia della liberazione dalle rinascite. In quella circostanza gli fecero visita due mercanti, Tapussa e Bhallika, che gli offrirono dei dolci al miele e presero rifugio nel Buddha e nel suo Dhamma, divenendo così i primi upāsaka, seguaci laici. Nella settimana seguente il Buddha tornò a meditare sotto l'ajapāla, e si interrogò se dovesse diffondere la dottrina o se dovesse mantenerla solo per sé, essendo "difficile da comprendere, al di là della ragione, comprensibile solo ai saggi". Brahmā, il "Signore del Mondo", giunse di fronte al Buddha e inginocchiatosi lo implorò di diffondere la sua dottrina "per aprire i cancelli dell'immortalità" e permettere al mondo di udire il Dhamma.
Avendo dunque il Buddha deciso di
diffondere la sua dottrina, senza alcuna distinzione, dopo aver
escluso i suoi precedenti maestri, Āḷāra Kālāma e Uddaka
Rāmaputta, in quanto conscio della loro già avvenuta morte, decise
di recarsi dapprima a Sārnāth, nei pressi di Varanasi (Benares) dai
suoi primi cinque discepoli, i pañcavaggiyā.
Nei pressi di Sārnāth si imbatté
nell'asceta Upaka, della scuola degli Ājīvika, deterministi che non
accettavano l'idea di una causa né nella possibilità di modificare
il destino. Interrogato su di chi fosse seguace, il Buddha rispose di
non aver più maestri e di essere perfettamente illuminato "quanti
hanno vinto l'illusione sono come me vittoriosi. Ho vinto quanto è
male e così, Upaka, sono il vittorioso". Upaka ribatté "può
darsi" e se ne andò.
Il Buddha giunse infine a Sārnāth,
nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā, che avevano
intenzione di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente
rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito
il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di
condividere quanto aveva scoperto.
Le parole che pronunciò allora si sono
conservate nel primo breve sūtra, il Dhammacakkappavattana-vagga
Sutta (La messa in moto della Ruota della Dottrina), che si apre con
la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera
appagazione dei sensi, volgare e dannoso, e l'estremismo connesso
all'automortificazione, doloroso, volgare e dannoso.
Quella del Buddha si presenta invece
come una "Via di mezzo [...] apportatrice di chiara visione e di
conoscenza" che "conduce alla calma, alla conoscenza
trascendente, al risveglio, al nibbāna"
Quindi il Buddha analizza il contenuto
della "via di mezzo", illustrando l'Ottuplice Sentiero, la
base del comportamento etico quale causa necessaria per il
conseguimento del risveglio. Ma, procedendo a ritroso, il Buddha
spiega il motivo per cui questo Sentiero apporta l'approdo alla
sponda opposta al Saṃsāra: questo è dettato dalle Quattro nobili
verità.
La prima delle Quattro verità è
quella del dolore "l'unione con quel che non si ama è dolore,
la separazione da quel che si ama è dolore, il non ottenere ciò che
si desidera è dolore". Quindi la combinazione dell'impermanenza
dell'esistente e l'attaccamento è la causa del dolore, la seconda
verità. Questa sarebbe poi stata ampiamente discussa e analizzata
dal Buddha nel corso di tutta la sua predicazione, fino a trovarne la
formalizzazione nella paṭicca samuppāda, la catena della
coproduzione condizionata, in cui ogni causa ha un effetto, una
spirale apparentemente invincibile.
Ma la distruzione della schiavitù del
dolore è possibile, la terza verità: la liberazione è possibile. E
come è il tema della quarta verità, che rimanda al Ottuplice
Sentiero da cui si era partiti.
Il Buddha quindi proclama che ciascuna
di queste verità è stata da lui riconosciuta, compresa e
visualizzata, e questo triplice momento della quadripartizione della
verità lo ha portato al "supremo perfetto risveglio"
A questo punto Añña Kondañña
divenne Arhat ed esclamò: "tutto quello che nasce è destinato
a perire!" e gli dei ctoni e di tutti i paradisi gridarono di
gioia, il sistema dei diecimila mondi ebbe un sussulto e apparve un
grandioso splendore: la ruota del Dharma era stata avviata.
Añña Kondañña divenne primo Bhikkhu
a essere ordinato, con la celebre esclamazione del Buddha "Ehi
Bhikkhu!" ("Vieni monaco!") che diverrà la formula
tradizionale di ordinazione buddhista, e dando così origine al
Saṅgha.
La predicazione del Buddha segnò sotto
molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del
Brahmanesimo (che poi prese la forma di Induismo) e dell'ortodossia
religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da
quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento
non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio
della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le
creature che vi aspirino praticando il Dharma.
Negli anni successivi al nirvāṇa, il
Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici,
accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che
accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e
dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine
monastico mendicante femminile della storia. A condizione che
l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era
ammesso nel sangha.
A causa dell'assenza di una tradizione
storiografica e cronologica in India, la scansione dei suoi
spostamenti non fu registrata che molti secoli dopo gli eventi, e
anche questa in maniera frammentaria nei vari sutra e nei Vinaya
delle varie tradizioni. Tra i testi più interessanti per la
cronologia spiccano due testi tradotti in cinese, il Badalingta
Minghao jing (T.32:773b) e il Sengqieluocha suoqi jing (T. 4:144b), e
un testo tibetano, il Chos-ḥbyung di Bu-ston. Nella tradizione
birmana si riscontrano altre cronologie. Dalla comparazione di queste
fonti, scandite per anno di vita del Buddha, si enumerano i luoghi in
cui passò il Vassa, o periodo monsonico dedicato alla sosta in un
medesimo posto che è norma del sangha. Nonostante le tradizioni così
diverse, spazialmente e temporalmente, si ottiene un quadro
notevolmente uniforme per localizzazione geografica della vita del
Buddha.
Vassa |
Età |
Sengqieluocha jing |
Trad. Birmana |
Badalingta minghao jing |
Trad. Tibetana |
I |
36 |
Vārānasī |
Parco dei Cervi a Sarnath, Vārānasī) |
Parco dei Cervi a Sarnath, Vārānasī) |
Parco dei Cervi a Sarnath, Vārānasī) |
II |
37 |
Picco dell'Avvoltoio a Rajgir |
Bosco di Bambù a Rajgir |
Rajgir |
Rajgir |
III |
38 |
Picco dell'Avvoltoio a Rajgir |
Bosco di Bambù a Rajgir |
Rajgir |
Rajgir |
IV |
39 |
Picco dell'Avvoltoio a Rajgir |
Bosco di Bambù a Rajgir |
Rajgir |
Rajgir |
V |
40 |
Vaiśālī |
Mahāvana |
Vaiśālī |
Vaiśālī |
VI |
41 |
Monte Maṅkula |
Monte Maṅkula |
Makkhali (?) |
Paṇḍubhūmi |
VII |
42 |
Paradiso Tuṣita |
Paradiso Tuṣita |
Paradiso Tuṣita |
Paradiso Tuṣita |
VIII |
43 |
Regno degli Yakkha |
Bosco di Tesakala |
Bosco di Bimbisāra |
Balaghna |
IX |
44 |
Kauśambī |
Kauśambī |
Kauśambī |
Kauśambī |
X |
45 |
Cetiapabbata |
Palelayaka |
Ratnagiri |
|
XI |
46 |
Regno degli Yakkha |
Monastero Deckinagiri |
Bosco di Bimbisāra |
Balaghna |
XII |
47 |
Magadha |
Satiabia |
Verañjā |
Balaghna |
XIII |
48 |
Regno degli Yakkha |
Monastero vicino a Tsalia |
Bosco di Bimbisāra |
Balaghna |
XIV |
49 |
Giardino di Anāthapiṇḍika a Śrāvastī |
Bosco di Jetavana, nel giardino di Anāthapiṇḍika a
Śrāvastī |
Śrāvastī |
Śrāvastī |
XV |
50 |
Kapilavastu |
Kapilavastu |
Kapilavastu |
Kapilavastu |
XVI |
51 |
Kapilavastu |
Alawee |
Mahāvana |
una foresta |
XVII |
52 |
Rajgir |
Bosco di Bambù a Rajgir |
Rajgir |
Rajgir |
XVIII |
53 |
Rajgir |
Monastero presso Tsalia |
Bosco di Bimbisāra |
Balaghna |
XIX |
54 |
Monte Cālikā |
Śrāvastī |
Monte Cālikā (?) |
Indraçailaguhā |
XX |
55 |
Rajgir |
Śrāvastī |
Rajgir |
Rajgir |
XXI - XXIV |
56-59 |
Monte Cālikā |
|
Monte Cālikā (?) |
Indraçailaguhā |
XXV - XLIII |
60-78 |
Śrāvastī |
|
Śrāvastī |
Śrāvastī |
XLIV |
79 |
Śrāvastī |
Bosco di Jetavana, nel giardino di Anāthapiṇḍika a
Śrāvastī |
Śrāvastī |
Śrāvastī |
XLV |
80 |
|
Veṇuvana |
Veṇuvana |
Bosco di Bambù |
Dopo la conversione dei pañcavaggiyā
a Sārnāth, Gautama convertì Yasa, figlio di un ricco mercante di
Vārāṇasī. Fu il primo non asceta ad entrare nella comunità
monastica, presto seguito dai suoi amici, Vimala, Subāhu, Puṇṇaji
e Gavaṃpati, figli di altre facoltose famiglie mercantili. Quindi i
genitori di Yasa divennero i primi laici a essere riconosciuti come
tali e a prendere rifugio nei Tre Gioielli, e di lì seguirono altre
decine di conversioni e numerosi giovani di Vārāṇasī entrarono
nel Sangha. A questo punto, un anno dopo, il Buddha si diresse
nuovamente al luogo dove aveva conseguito l'illuminazione.
Nella zona dell'attuale Bodh Gaya a
quel tempo vi predicavano tre fratelli: Uruvela Kassapa, Nadī
Kassapa e Gayā Kassapa, dediti al culto del fuoco (è ipotizzabile
fosse un culto vedico, dedicato ad Agni, o locale e post-vedico).
Dopo averli superati nelle arti magiche che praticavano, li convertì
assieme a un migliaio dei loro seguaci. Quindi, andato il Buddha con
tutti questi nuovi membri del sangha, verso la capitale Rajgir,
espose sul monte Gayāsīsa il Sūtra del Fuoco. "Monaci! Tutto
è in fiamme!" esordì, e proseguì elencando gli organi di
senso in fiamme, fiamme che si estendono alle funzioni mentali, le
sensazioni che provano dovute alle percezioni e individuando la causa
nell'avidità, nell'odio e nell'illusione (i tre veleni). Solo con la
liberazione da questi veleni i discepoli si sarebbero potuti liberare
e sconfiggere la morte.
L'arrivo del Buddha nella capitale del
regno Magadha provocò un'ondata di conversioni, compresa quella del
sovrano Bimbisāra, allora a capo del più potente stato dell'India
settentrionale. Questi, in segno di devozione, regalò al Buddha il
monastero di Veṇuvana, sito nel Bosco di Bambù poco oltre la porta
settentrionale della capitale Rajgir. In questo periodo si colloca
anche la conversione, grazie ad Assaji, di Sāriputta e Moggallāna,
che diverranno i due discepoli principali del Buddha.
Dopo aver completato la permanenza a
Rajgir con la conversione, nei pressi di Gaya, di Mahā-Kassapa
(destinato a diventare un famoso discepolo), il Buddha si diresse a
Kapilavatthu, la capitale dei Sakya, sua terra natale.
Lì, dopo aver chiesto cibo in
elemosina casa per casa, fu fatto accedere alla sala del congresso
della nobiltà Sakya per tenere un sermone. Quindi il Buddha fece
visita a suo padre Suddhodana e a sua moglie Yasodharā,
convertendoli. Ordinò quindi suo fratellasto Nanda e suo figlio
Rāhula.
Le conversioni compresero sia
appartenenti alla nobiltà Sakya che membri delle caste più infime,
come il caso del barbiere Upāli. Fu in questa occasione che divenne
norma che l'ordine di rispetto tra i monaci dovesse essere basato
esclusivamente sull'anzianità calcolata dal giorno della presa dei
voti, tanto che i giovani nobili Sakya chiesero di essere ordinati
immediatamente dopo Upāli per doverlo omaggiare e sconfiggere così
la loro superbia. Tra i convertiti che espressero questa scelta anche
Ānanda, il cugino del Buddha, e Devadatta.
Lasciata la sua terra natale, la
repubblica nobiliare dei Sakya, il Buddha si diresse nel Kosala, il
regno che deteneva l'egemonia su Kapilavatthu. Il Kosala a quei tempi
era retto dal re Prasenadi (sanscrito: Prasenajit), con cui il Buddha
ebbe numerosi incontri cordiali.
Nella capitale del Kosala, Sāvatthī
(sanscrito: Śrāvastī), il facoltoso mercante Sudatta Anāthapiṇḍika
(precedentemente convertito a Rajgir) comprò da Jeta, un principe
figlio di Prasenadi, un grande appezzamento di terreno nella
periferia meridionale della città; donato al sangha, divenne uno dei
principali luoghi di sosta del Buddha e grande centro di diffusione
del Dharma, noto come il monastero Jetavana (il "Parco di
Jeta").
In questo luogo il Buddha visitò il
monaco Pūtigatta Tissa, seriamente ammalato, lo lavò e se ne prese
cura fino alla sua morte. Qui esortò i monaci a prendersi cura
reciprocamente: non avendo più famiglia né mezzi, avendo reciso i
legami con il mondo, avrebbero dovuto aver cura l'uno dell'altro.
«Chi mi serve serva i malati» |
«Yo bhikkhave maṃ upaṭṭaheyya so gilānan
upaṭṭaheyya» |
In un altro sutra che tratta della
stessa vicenda il Buddha esplicita:
«Non c'è differenza di meriti nel fare donazioni a me e aver
cura dei malati, accudire i malati è servire il Buddha» |
Gli elenchi dei convertiti nel Kosala
mostrano come l'origine castale dei monaci e dei laici fosse in
prevalenza brahmanica e mercantile (come Subhūti), con minoranze tra
la casta guerriera, cui apparteneva lo stesso Buddha, e le classi
inferiori.
A Rajgir, nella capitale del Magadha,
oltre al monastero di Venuvana fuori dalla porta Settentrionale
concesso dal sovrano Bimbisāra, il saṅgha ebbe in dono il
monastero di Jīvakarana, nei pressi del "Boschetto di Manghi"
(Ambavana), dono di Jīvaka Komārabhacca, medico personale del
sovrano, che desiderava che il Buddha soggiornasse più vicino alla
sua dimora.
Fu in quella sede che il Buddha espose
il Jīvaka Sutta, in cui si fa divieto ai monaci di mangiare carne se
hanno conoscenza che l'animale sia stato ucciso solo per essere dato
loro in pasto, e parimenti fa divieto ai laici di uccidere animali
con lo scopo di nutrire i monaci.
Non lontano da Rajgir, a Gayāsīsa,
soggiornava il monaco Devadatta, che godeva dei favori del figlio del
re Bimbisāra, Ajātasattu. In presenza di monaci, laici e del
sovrano di Rajgir, Devadatta chiese al Buddha, ormai in età
avanzata, di prendere il controllo del Sangha. Tra le riforme che
avrebbe voluto introdurre tutte volgevano ad una maggiore austerità:
obbligo di dimora nelle foreste; vestirsi solo di abiti trovati nelle
discariche; non accettare inviti a pranzo dai laici; astenersi dalla
carne anche se offerta. Il Buddha rifiutò di nominarlo a capo della
comunità monastica.
Devadatta, intravedendo nella fedeltà
di Bimbisāra al Buddha l'ostacolo principale nella sua ascesa,
convinse il principe Ajātasattu a perpetrare un colpo di Stato. In
seguito Bimbisāra fu imprigionato e lasciato morire di fame,
nonostante questi avesse volontariamente abdicato in favore del
figlio.
Ottenuto l'appoggio del nuovo sovrano,
Devadatta tentò di assassinare il Buddha con l'aiuto di alcuni
arcieri di Ajātasattu, che si rifiutarono. Quindi Devadatta stesso
provò l'omicidio: prima lanciando un masso dal Gijjhakūta, il
"Picco dell'Avvoltoio" (le ferite riportate dal Buddha
furono alleviate dai trattamenti medici di Jīvaka Komārabhacca),
quindi ubriacando un elefante reale (Nalāgiri) che avrebbe dovuto
schiacciare il Buddha, che invece lo affrontò, placandolo. Il
Buddha, tornato la sera al monastero Venuvana, raccontò la storia
Cullahamsa Jātaka in onore della fedeltà di Ānanda.
Ajātasattu, pieno di rimorsi, smise di
sostenere Devadatta e chiese perdono al Buddha, che lo accolse tra i
fedeli laici.
Devadatta, avendo perso l'appoggio
regale e conscio dell'impossibilità di controllare il sangha, decise
per lo scisma, seguito dai monaci Kokālika, Samuddadatta,
Katamorakatissa e Khandadeviyāputta, oltre a qualche centinaio di
discepoli favorevoli a una regola monastica più austera. Il Buddha
non vietò maggiore austerità, ma ritenne che dovesse applicarsi
solo su base volontaria, non come regola.
Il Buddha quindi inviò Sāriputta e
Moggallāna presso Devadatta. Questi gli lasciarono credere che
avessero abbandonato il Buddha, e non appena ebbero l'attenzione di
tutti i suoi seguaci li convinsero della necessità di interrompere
lo scisma e rientrare nel sangha. Una volta rimasto solo Devadatta
vomitò sangue. Dopo nove mesi Devadatta si mise in cammino per
incontrarsi con il Buddha, ma il terreno si aprì e sprofondò
nell'inferno Avīci.
Dopo aver passato l'ultimo vassa nel
monastero di Venuvana il Buddha si recò nuovamente a Rajgir. Lì il
sovrano Ajātashatru, per mezzo del suo ministro Varśakāra, gli
chiese un vaticinio per la sua progettata guerra contro la repubblica
dei Vriji. Il Buddha rispose che, finché questi fossero stati
rispettosi della tradizione assembleare e il popolo contento, non
sarebbero stati vinti. Quindi, salito sul Picco dell'Avvoltoio, il
Buddha predicò ai monaci le 49 regole monastiche che avrebbero
dovuto seguire per mantenere in vita il sangha.
Salutato dalla nobiltà del Magadha e
dal ministro Varśakāra, il Buddha e i monaci si diressero quindi
verso i territori dei Lichchavi più a settentrione, predicando nei
vari villaggi in cui facevano sosta. Giunti a Pātaligrāma il Buddha
pensò che:
«Mi accadde di attraversare questo fiume [il Gange] sur una
navicella; oggi non conviene che col mezzo medesimo torni a
passarlo. Il Buddha è ormai maestro nel trasportar gli uomini
all'altra riva; perrocchè insegna a tutti il modo di traversar
l'oceano delle esistenze» |
Quindi tutti i monaci si ritrovarono
sulla sponda settentrionale del Gange, a Koṭigrāma. Lì malattie e
carestie infuriavano e, polemicamente, fu chiesto al Buddha come mai
anche dieci suoi fedeli laici fossero morti. Il Buddha preconizzò
che quella sarebbe stata la loro ultima esistenza e di altri trecento
predisse solo altre sette rinascite prima di giungere alla
perfezione.
«Tutti i viventi moriranno; come in pari modo tutti i
buddha, dai tempi passati fino al presente sono ormai nel Nirvāna:
e oggi a me, fatto Buddha, spetta la stessa sorte» |
Giunto nei pressi di Vaiśālī fu
invitato a pranzo dalla cortigiana Amarpālī, assieme a tutti i
monaci, rifiutando un analogo invito dei nobili Lichchavi, che
avevano rivolto l'invito solo successivamente.
Il Buddha decise di soggiornare nei
pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione
locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi
in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda. Lì il
Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel
parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i
suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li
avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange
il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi
principali della sua dottrina.
Giunto a Pāvā fu invitato a pranzo da
un certo Cunda, lì tenne un discorso sui monaci, alcuni dei quali
"sono malvagi come le erbacce in un campo" e ammonendo a
non considerare la veste, ma il cuore retto come segno di eccellenza.
Lasciata la casa di Cunda e diretto a
Kuśināgara il Buddha si sentì male e, sedutosi, chiese ad Ānanda
di procurargli dell'acqua. Passò quindi un nobile, Pukkusa, che donò
un tessuto giallo affinché il Buddha potesse coricarvisi. Quindi
disse ad Ānanda che fu il cibo di Cunda a condurlo alla fine, e che
l'indomani sarebbe dovuto andare a ritrovarlo per ringraziarlo e che
non piangesse per questo, ma che se ne rallegrasse.
Giunse allora il monaco Kapphina che
chiese al Buddha di rimandare la sua estinzione, al ché il Buddha
rispose che:
«Come le case degli uomini, col lungo andare del tempo,
rovinano, ma il suolo dove erano resta; così resta la mente del
Buddha, e il suo corpo rovina come una vecchia casa.» |
Nel frattempo giunsero monaci e laici
da Kuśināgara, avvertiti da Ānanda che entro la mezzanotte il
Buddha sarebbe entrato nella totale estinzione. Chiesero quali
fossero le ultime volontà in merito alle spoglie. Il Buddha, dopo
aver risposto, chiese ai monaci se vi fossero ancora dei dubbi in
merito alla dottrina, dicendo che era la loro ultima occasione per
poterli dissipare. I monaci risposero che non vi erano punti oscuri e
che tutto era a loro chiaro.
Secondo la tradizione, Siddharta
Gautama morì a Kuśināgara, in India, a ottant'anni, nel 486 a.C.
circondato dai suoi discepoli, tra i quali l'affezionato attendente
prediletto Ānanda, al quale lasciò le sue ultime disposizioni.
Tradizionalmente si riportano le sue ultime parole:
«Handa dāni, bhikkave, āmantayāmi vo: "vayadhammā
saṅkhārā appamādena sampādethā"ti.» |
«Ricordate, o monaci, queste mie parole: tutte le
cose composte sono destinate a disintegrarsi! Dedicatevi con
diligenza alla vostra propria salvezza!» |
Quindi il Buddha si stese vòlto a
settentrione, reclinato sul fianco destro, e spirò.
La descrizione dei riti funerari,
sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha
sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le
reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come
rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si
assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama
alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra.
Il clan dei Malla di Kuśināgara
approntò un funerale degno di un sovrano universale: il corpo fu
avvolto in cinquecento pezze di cotone e immerso in una vasca di
ferro (taila-droṇī) piena d'olio. Quindi, con l'accompagnamento di
una folla che portava ghirlande di fiori, ballava e suonava, il corpo
attraversò la città. Passarono sette giorni prima che si
approntasse la pira funeraria. Questo diede tempo a Mahākassapa, il
più autorevole dei monaci dopo la morte, avvenuta poco prima, di
Sāriputta e Mahāmoggallāna, di giungere a Kuśināgara e prendere
parte ai riti funebri.
Ānanda, dopo essere stato per tutta la
vita l'attendente del Buddha Gautama, si fece carico anche di tutta
l'organizzazione delle cerimonie inerenti al suo corpo. Il giorno
della cremazione, nell'ultimo saluto, diede la precedenza alle donne
Malla di Kuśināgara: furono loro le prime a circumambulare Gautama,
lanciare fiori e bagnare di pianto i suoi piedi. Quindi,
contrariamente alle prescrizioni brahmaniche, il corpo fu portato in
processione dentro la città (da Ānanda, il re di Malla, Śakra e
Brahmā).
La pira fu accesa da Mahakassapa, con
un simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non
vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe,
quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva
marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a
divenire un Buddha.
Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara.
Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara.
La notizia della scomparsa del Buddha e
della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per
impossessarsene: oltre ai Malla di Kuśināgara le reclamarono anche
i Malla di Pāvā, il re Ajātashatru del Magadha, i Bulaka di
Calakalpa, i Krauḍya di Rāmagrāma, i brahmini di Viṣṇudvīpa,
i Lichchavi di Vaiśālī e i Śākya di Kapilavastu. Le richieste
furono sottolineate dall'invio di eserciti a Kuśināgara.
Il Brahmano Droṇa fu scelto come
arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti,
per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione,
le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo
la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte
costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il
sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in
stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.
La storia della vita del Buddha, nota
come la Storia di Barlaam e Josaphat, in particolare la parte della
profezia alla nascita fino alla fuga dal palazzo, giunse in Europa
fin dal medioevo, attraverso una serie di traduzioni che inserirono
numerosi elementi non buddhisti e parabole edificanti.
La leggenda narra del principe indiano
Josaphat, recluso dal padre negli agi del palazzo reale per impedire
che la predizione della sua conversione al cristianesimo si avveri.
Una sua breve fuga all'esterno gli permette la visione di un malato,
un lebbroso e di un funerale. Sconvolto dalla sofferenza del mondo
incontra Barlaam, un asceta che lo converte al cristianesimo e con
cui, alla fine di molte traversie e della fuga definitiva dal padre,
trascorrerà molti anni di ascesi nel deserto fino alla morte.
La filogenesi, non lineare, delle
traduzioni comincia con quelle in persiano, arabo e georgiano
nell'VIII secolo, poi in greco e latino XI secolo (attribuita a
Giovanni Damasceno). Quindi fu la volta della traduzione ebraica di
Abraham ibn Chisnai, ebreo di Barcellona (? - 1240). Da questa nacque
una lunga tradizione di versioni spagnole che furono molto diffuse
nel XIII secolo. Ma la diffusione in tutta Europa è ben evidente
dalla traduzione in islandese già nel 1204.
Barlaam e Josaphat vengono inseriti tra
i santi cristiani almeno dal XIV secolo: la più antica citazione si
trova nel Catalogus Sanctorum di Petrus de Natalibus, canonico di
Jesolo tra il 1370 e il 1400. La canonizzazione fu ratificata nel
Martyriologium di Papa Sisto V (1585-1590) che assegna loro il giorno
del 27 novembre.
In Europa il primo studioso ad
accorgersi dell'origine buddhista della storia fu Édouard René de
Laboulaye nell'articolo "Les Avâdanas" sul Journal des
Debats del 26 luglio 1859.
In precedenza, nel 1612, il viaggiatore
portoghese Diogo do Couto, dopo aver raccolto informazioni nello Sri
Lanka, si era convinto, al contrario, dell'origine cristiana del
buddhismo, proprio a causa della similitudine della vita del Buddha
con quella di San Iosaphat. In seguito l'ebraista Steinschneider
aveva intuito, senza poterlo provare, l'esistenza di un collegamento
inverso.
Il nome Josaphat viene da Joasaf,
Yodasaph è a sua volta corruzione (da un errore greco: ΥΩΑΑΣΑΦ
per ΥΩΔΑΣΑΦ) dell'arabo Yūdasatf, a sua volta da Bodisat, con
una storpiatura della lettera iniziale "B" (بـ)
con la "Y" (يـ) a causa della
somiglianza delle lettere arabe. Bodisat viene dal sanscrito
bodhisattva, termine con cui nella letteratura buddhista ci si
riferisce al Buddha storico prima della sua illuminazione.
Barlaam è invece una storpiatura da
bhagavān, "Signore", termine con cui nella letteratura
buddhista ci si riferisce al Buddha.
Quindi il personaggio letterario
del Buddha si sdoppia letteralmente in due pur mantenendo l'impianto
della storia.
L'unica altra fonte sulla vita del
Buddha per gli europei nel Medioevo fu fornita da Marco Polo.
Nel capitolo CLV de Il Milione, dedicato all'isola di Seilla, l'odierno Sri Lanka, in cui Polo fece sosta nel suo viaggio marittimo di ritorno dalla Cina, il viaggiatore veneziano descrive nei dettagli la vita di Sargamo Borgani.
Il nome viene dalla storpiatura di "Śākyamuni bhagavan", ovvero il Buddha.
In questo caso la vicenda narrata è molto vicina all'originale storia tradizionale buddhista, mentre nel finale è il padre che, dopo la morte di Sargamo Borgani, ne promosse il culto innalzandogli statue d'oro e diffondendo la voce che:
Nel capitolo CLV de Il Milione, dedicato all'isola di Seilla, l'odierno Sri Lanka, in cui Polo fece sosta nel suo viaggio marittimo di ritorno dalla Cina, il viaggiatore veneziano descrive nei dettagli la vita di Sargamo Borgani.
Il nome viene dalla storpiatura di "Śākyamuni bhagavan", ovvero il Buddha.
In questo caso la vicenda narrata è molto vicina all'originale storia tradizionale buddhista, mentre nel finale è il padre che, dopo la morte di Sargamo Borgani, ne promosse il culto innalzandogli statue d'oro e diffondendo la voce che:
«morìo ottantaquattro volte, e tuttavia diventava qualche
animale, o cavallo o uccello od altra bestia. Ma in capo delle
ottantaquattro volte dicono che morie, e diventò iddio: e costui
hanno gl'idolatri per lo migliore iddio ch'egli abbiano. E
sappiate che questi fu il primaio idolo che fosse fatto, e di
costui son discesi tutti gl'idoli» |
Marco Polo, evidentemente colpito dalla
storia, commentò:
«dimorò [...] tutta la vita sua molto onestamente: ché
per certo, s'egli fosse istato cristiano battezzato, egli sarebbe
istato gran santo appo Dio» |
Gautama Buddha, ovvero il fondatore del
buddhismo, antica religione che si pone in alternativa alla cultura
religiosa hindū, viene da questa inteso come avatāra di Viṣṇu,
questo considerato Dio, la Persona suprema, il Bhagavat. Tale lettura
corre lungo tre interpretazioni teologiche: da una parte i testi più
antichi
indicano il Buddha avatāra di
Viṣṇu manifestatosi per ingannare e quindi condurre a rinascite
sfavorevoli i suoi seguaci, qui intesi come traditori dei Veda; una
seconda interpretazione, presente in testi più recenti, tale avatāra
è inteso in modo positivo ovvero per insegnare la non-violenza
(ahiṃsā, astenersi dall'uccidere), soprattutto nei confronti degli
animali, e la gentilezza d'animo; in una terza interpretazione, che
integra la seconda, Viṣṇu si manifesta come Buddha per essere
adorato dai negatori del suo essere Dio, il Bhagavat, ovvero da
coloro che negano la supremazia alla divinità.
L'indagine storico-critica della figura
di Gautama Buddha si avviò a partire dalla fine del XIX secolo.
Studiosi come Thomas William Rhys Davids (1843-1922), Caroline
Augusta Foley Rhys Davids (1857-1942) e Hermann Oldenberg (1854-1920)
analizzando il Canone buddhista scritto in lingua pāli cercarono di
eliminarne gli evidenti contenuti mitici per tentare una
ricostruzione storica della figura del fondatore del Buddhismo. Tale
approccio è tuttavia oggi ritenuto superato
e se anche la maggioranza degli
studiosi ritiene l'esistenza storica di Gautama Buddha un fatto
acclarato considera estremamente difficile ricostruirne la vita e,
persino, stabilire con certezza il periodo dell'esistenza.
Scarse sono infatti le testimonianze
storiche circa la vita del fondatore del Buddhismo e controverse sono
le stesse date. Risulta pertanto arduo separare leggenda e realtà e
collocare storicamente le vicende della vita del Buddha, poiché i
riscontri a noi pervenuti non sono sempre attendibili. Gran parte
delle fonti sono infatti posteriori di almeno duecento anni rispetto
agli eventi della vita di Siddhartha Gautama. In più, le cronache
storiche indiane non sono rigorose nel separare eventi reali dal mito
e dalla leggenda.
Tutte le fonti tradizionali concordano
tuttavia sul fatto che Siddhārtha Gautama sia vissuto per ottanta
anni.
- Secondo le cronache singalesi riportate nel Dīvapaṃsa e nel Mahāvaṃsa Siddhartha Gautama sarebbe nato 298 anni prima dell'incoronazione del re indiano Aśoka e morto (parinirvāṇa) 218 anni prima dello stesso evento. Queste cronache indicano come il 326 a.C. l'anno della salita al trono da parte di questo re indiano. In base a questa tradizione, diffusa nei paesi buddhisti theravāda (Sri Lanka, Thailandia, Birmania, Cambogia e Laos), Siddhārtha Gautama sarebbe nato nel 624 a.C. e morto nel 544 a.C.
- Gli studiosi occidentali e indiani, seguendo fonti greche, spostano la data dell'incoronazione di Aśoka al 268 a.C. e quindi ritengono che Siddhārtha Gautama sia nato nel 566 a.C. e morto nel 486 a.C.
- Studiosi giapponesi e lo studioso tedesco Heinz Bechert seguendo fonti indiane riportate nei canoni buddhisti cinese e tibetano che attestano la nascita di Siddhārtha Gautama 180 anni prima della incoronazione di Aśoka e la sua morte 100 anni prima, le incrociano con le fonti greche e giungono invece a ritenere che l'anno di nascita del fondatore del Buddhismo sia il 448 a.C. mentre la morte sia avvenuta nel 368 a.C.
Altro non si può sostenere e, come
ricorda Étienne Lamotte, il tentativo di ricostruire o tracciare la
vita di Gautama Buddha è «una impresa priva di speranza».
L'unica cosa che si può affermare con
contezza è quindi che il Buddha visse in India in un periodo
compreso tra il VI e il IV secolo a.C. comunque proprio in quel
particolare periodo a cui Karl Jaspers ha dato il nome di "periodo
assiale" della storia mondiale.
«In questo periodo si concentrano i fatti più straordinari.
In Cina vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze
della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu
e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse
Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità
filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla
sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l'eccitante
visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero
la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a
Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide,
Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede. Tutto
ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi
contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che
alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di
quest'epoca è che in tutti e tre i mondi l'uomo prende coscienza
dell'"Essere" nella sua interezza (umgreifende:
ulteriorità onnicomprensiva), di se stesso e dei suoi limiti.
Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria
impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abisso anela alla
liberazione e alla redenzione. Comprendendo coscientemente i suoi
limiti si propone gli obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza
nella profondità dell'essere-se-stesso e nella chiarezza della
trascendenza,. Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza
divenne ancora una volta consapevole di se stessa, il pensiero
prese il pensiero ad oggetto.» |
(Karl Jaspers, in Vom Ursprung und Ziel des
Geschichte. Artemis, Zurigo 1949; Piper, München 1949 (1983);
trad. it., Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin,
Comunità, Milano, 1965, pag.20.) |
In altri termini, nel periodo assiale,
sembra che l'umanità abbia fatto un incredibile salto
nell'approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una
trasformazione globale dell'essere umano a cui, sempre secondo
Jaspers, «si può dare il nome di spiritualizzazione».
Premesso ciò, della vita di Gautama
Buddha possiamo ricostruire solo un quadro piuttosto generico: fu un
rinunciante e asceta, unitamente ad altri rinuncianti indiani ebbe
una visione "critica" del mondo e delle sue "illusioni"
e praticò e predicò delle tecniche meditative (yoga). Predicò
anche una vita comunitaria tra rinuncianti disciplinata da alcune
precise regole e raccolse intorno a sé altri monaci, ma anche laici,
che ne seguivano gli insegnamenti. Fu senza dubbio una personalità
carismatica.
A questo quadro, gli storici Frank E.
Reynolds e Charles Hallisey aggiungono alcune altre informazioni che,
nella loro peculiarità e specificità, ritengono difficilmente
"inventate" dalla successiva tradizione; per questi autori
è molto probabile che Gautama Buddha:
- appartenesse alla casta degli kṣatriya;
- nacque nel clan degli Śākya;
- fosse sposato ed ebbe un figlio;
- abbracciò la vita di asceta itinerante senza il permesso del padre;
- andò incontro ad un fallimento quando per la prima volta comunicò la sua esperienza dell'illuminazione;
- rischiò di perdere la guida della comunità da lui fondata a causa di un suo cugino che propose delle regole maggiormente ascetiche;
- morì in un luogo remoto dopo aver mangiato del cibo avariato.
Sebbene il Buddhismo non sia mai stato
attraversato da correnti iconoclaste, per i primi secoli fu
rigorosamente aniconico, rappresentando il Buddha Gautama solo
attraverso simboli: l'impronta del piede, una delle punte del
Triratna, la Ruota del Dharma, uno stūpa, un loto. Ciascun simbolo
rappresenta un particolare della biografia di Gautama.
A partire dal I secolo, per ragioni
ancora non chiarite, si sviluppò, sia in bassorilievi che in
statuaria a tutto tondo, la rappresentazione iconica del corpo del
Buddha storico, basata per lo più sui trentadue segni maggiori di un
Buddha così come erano andati codificandosi nella letteratura
religiosa. Il clima dell'India non ha permesso la sopravvivenza di
pitture buddhiste, con la notevole eccezione del ciclo pittorico di
Ājanta.
Con la diffusione del Buddhismo
nell'Asia centrale, nell'Estremo Oriente e nel Sudest asiatico
l'iconografia del Buddha si evolse in accordo con lo sviluppo
dell'arte locale, mantenendo forti connotati conservatori e di
riconoscibilità. La gestualità delle rappresentazioni, sia nei
mudrā sia nella postura del corpo, mantiene il significato della
rappresentazione legato a specifici momenti della vita e della azione
del Buddha: la nascita, l'illuminazione, il primo sermone, il
parinirvana, rendendole un linguaggio perfettamente riconoscibile in
ambito buddhista, al di là delle specifiche tradizioni sorte nel
corso del suo sviluppo storico e dottrinario.
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