Mu
è la pronuncia giapponese del
carattere cinese tradizionale: 無.
In mandarino standard, questo carattere viene trascritto
wú
(cinese semplificato: 无).
In coreano viene riportato con 무 e
pronunciato mu. In vietnamita vô. Questo carattere cinese, 無,
è, in ambito buddhista, la resa in questa lingua di alcuni termini
sanscriti buddhisti come asat (non essere), abhāva (non possedere) o
anche vigata (privo di). Ed è usato come opposto di 有
(cin. yǒu, giapp. yū o u, cor. yu, viet. hữu) che rende il
termine sanscrito di bhava (essere, esistenza).
Nel buddhismo Zen mu è un termine che
può essere tradotto approssimativamente come "nessuno" o
"senza". Sebbene nella lingua giapponese si utilizzi
tipicamente come prefisso per implicare l'assenza di qualcosa (ad
es., 無線 musen per "senza
filo"), tale termine è conosciuto per essere la risposta ad un
famoso Kōan (公案) di origine
cinese e quindi appartenente alla tradizione del buddhismo Chán.
La pratica del kōan consiste in un
tema affidato dal maestro zen al discepolo cui chiede la soluzione.
Uno dei più conosciuti kōan è proprio quello del maestro Zhàozhōu
Cóngshěn (趙州從諗, giapp.
Jōshū Jūshin, 778-897):
«Una volta un monaco chiese al maestro Zhàozhōu: 'Un cane
possiede la natura di Buddha?'. Zhàozhōu rispose: ' Wú! '» |
(1° gōng'àn del Wúmén guān (無門關)) |
La risposta wú (無
giapp. mu), che non rappresenta comunque la negazione della
natura del Buddha nel cane, è l'elemento principale del kōan, ed è
l'oggetto di meditazione, denominato 話頭
(cin. huàtóu, giapp. watō), che impegnerà il discepolo zen
in ogni sua attività quotidiana. Durante un colloquio con il
maestro, solitamente quotidiano e denominato 獨參
(cin. dúsān, giapp. dokusan), l'allievo zen offre la sua
risposta al kōan (nel caso dell'esempio cosa significasse la
risposta wú pronunciata dal maestro Zhàozhōu) che testimonierà la
sua o meno realizzazione della "visione dell'essenza" o
"comprensione della realtà" denominata 見性
(cin jiànxìng, giapp. kenshō).
Alcuni maestri buddhisti cinesi, nonché
quelli appartenenti alla scuola buddhista giapponese Tendai avevano
affermato l'universalità della natura di Buddha: quindi anche gli
alberi o i cani la possedevano. Rispondere "no" a questa
domanda avrebbe significato negare la loro saggezza, mentre dire "sì"
sarebbe sembrato seguire acriticamente e pedissequamente i loro
insegnamenti. La risposta di Zhàozhōu è stata quindi interpretata
come né negare né affermare, né non negare, né non affermare. In
altre parole, le risposte 'sì' e 'no' risultano al contempo sia
giuste che sbagliate.
Nel suo romanzo del 1974 Lo Zen e
l'arte della manutenzione della motocicletta, Robert M. Pirsig
tradusse mu come "niente", affermando che significava "non
fare la domanda". Portò l'esempio del circuito di un computer
che, utilizzando il sistema numerico binario, utilizza in realtà mu
per rappresentare lo stato di alta impedenza:
«Per esempio, si dice continuamente
che i circuiti di un computer mostrano solo due stati, un
voltaggio per "one" ed un voltaggio per "zero".
Questo è stupido!
Qualunque tecnico di elettronica dei computer sa che le cose
stanno diversamente. Provate a trovare un voltaggio che
rappresenti uno o zero quando manca la corrente! I circuiti sono
in uno stato mu.» |
Secondo il Jargon File, una raccolta di
gergo e cultura degli hacker, mu è considerato dai Discordiani la
risposta corretta alla classica fallacia logica della domanda
capziosa: "Non hai ancora smesso di picchiare tua moglie?".
Supponendo che non abbiate moglie
o che non abbiate mai picchiato vostra moglie, la risposta "sì"
è sbagliata perché implica eravate soliti picchiare vostra moglie e
poi avete smesso, ma "no" è ancora peggio, perché
suggerisce che avete una moglie e la state ancora picchiando. Di
conseguenza, vari Discordiani proponevano mu come la risposta
corretta, che secondo quanto da loro asserito avrebbe significato:
"La vostra domanda non può avere risposta perché dipende da
assunzioni errate".
La parola mu compare con grande
evidenza nel libro del 1979 di Douglas Hofstadter, Gödel, Escher,
Bach: Un'Eterna Ghirlanda Brillante, dove è usata in modo fantasioso
nel contesto di discussioni di logica simbolica, in particolare nei
teoremi di incompletezza di Gödel.
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