giovedì 3 maggio 2018

Bandiere di preghiera tibetane

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Le bandiere di preghiera tibetane (Tibetano: lung-ta, Wylie Wylie: rlung-rta) sono delle piccole bandierine di stoffa colorata, che vengono spesso appese sulla cima delle montagne o sugli alti picchi dell'Himalaya per benedire i luoghi nei dintorni o anche per altri motivi. Si crede che le bandiere di preghiera siano nate con la bön, antica religione tibetana precedente al buddhismo. Nella religione bön lo sciamano Bonpo utilizzava i colori primari per le bandierine, allo scopo di onorare le cerimonie in Nepal. Esse sono sconosciute in altre scuole buddhiste. Le bandiere di preghiera tradizionali riportano testo e immagini stampate.

Storia

Nei sutra indiani si parla di bandiere colorate; esse furono trasmesse ad altre regioni del mondo come bandiere di preghiera. La leggenda ascrive le origini delle bandiere colorate al Buddha storico, le cui preghiere erano scritte sulle bandiere militari usate dai deva contro i loro avversari, gli asura. La leggenda potrebbe aver dato ai bhikku indiani una ragione per trasfigurare il significato originario delle bandiere in un simbolo dell'ahimsa. La religione indiana fu portata in Tibet a partire dall'800 d.C., e le bandiere di preghiera furono introdotto nel 1040 d.C., epoca in cui furono modificate. Il monaco indiano Atisha (980-1054 d.C.) introdusse la pratica indiana di stampare le bandiere di preghiera in Tibet e Nepal.
Durante la grande rivoluzione culturale, l'uso delle bandiere di preghiera fu scoraggiato ma non del tutto eliminato. Molti stili tradizionali, tuttavia, possono essere andati perduti. Ai giorni nostri esistono diversi stili di bandiere di preghiera, osservabili in tutta la regione tibetana.

Lo stile lung ta e darchor

Esistono due tipi di bandiere di preghiera: orizzontali, chiamate lung-ta (traducibile come "cavalli del vento"), e quelle verticali, chiamate darchor (wylie: dar-lcog, tradotto come "asta della bandiera").
Le bandiere lung-ta (orizzontali) sono quadrate o rettangolari, legate tra loro dall'alto attraverso una lunga corda. Sono normalmente appese in diagonale dall'alto al basso tra due oggetti (una roccia e la cima di un palo) in luoghi alti come sul tetto di un tempio, monastero, stupa, sentieri di montagna. Le bandiere darchor (verticali) sono solitamente rettangoli larghi, attaccati a dei pali in verticale. Queste bandiere sono solitamente piantate nel terreno, sulle montagne, sui tumuli, in cima ai tetti, e iconograficamente sono legati alla figura del Dhvaja.

I colori e il loro ordine

Tradizionalmente le bandiere di preghiera sono legate in set da cinque, ognuna di un colore diverso. I cinque colori sono sistemati da sinistra a destra in uno specifico ordine: blu, bianco, rosso, verde e giallo. I cinque colori rappresentano i cinque elementi e le "Cinque pure luci". Diversi elementi sono associati con i diversi colori, scopi e sadhana.
  • il blu simboleggia il cielo e lo spazio;
  • il bianco simboleggia l'aria e il vento;
  • il rosso simboleggia il fuoco;
  • il verde simboleggia l'acqua;
  • il giallo simboleggia la terra.
Secondo la medicina tradizionale tibetana, salute e benessere sono il frutto del bilanciamento dei cinque elementi.

Simboli e preghiere

Al centro delle bandiere di preghiera tradizionalmente si trova il Lung-ta ("cavallo del vento") che porta tre gioielli in fiamme (ratna) sulla sua schiena. Il Ta (cavallo) è il simbolo della velocità e della trasformazione della sfortuna in buona fortuna. I tre gioielli fiammeggianti simboleggiano il Buddha, il Dharma e il Sangha, ovvero i tre pilastri della filosofia buddhista. Intorno alla figura principale sono dipinti circa 400 mantra, ognuno dedicato ad una specifica divinità. Tra queste troviamo i grandi bodhisattva quali Padmasambhava (Guru Rimpoche), Avalokiteśvara (il bodhisattva della grande compassione e patrono del popolo tibetano), e Manjusri. Oltre ai mantra, le bandiere di preghiera per augurare longevità e buona fortuna, sono spesso dedicate anche alla persona che appende le bandiere. I quattro animali che si trovano ai quattro angoli delle bandiere, conosciuti anche come "Quattro Dignità", sono: il drago, garuda, la tigre, e il leone delle nevi.

Simbolismo e tradizione

Tradizionalmente le bandiere di preghiera sono usate per promuovere la pace, la compassione, la forza e la saggezza. Le bandiere non contengono preghiere per gli dèi. I tibetani credono piuttosto che i mantra vengano sparsi dal vento, e le buone intenzioni e la compassione pervada lo spazio intorno. Di conseguenza si crede che le bandiere di preghiera portino beneficio a tutti. Appendendo una bandiera in un luogo alto, si porta la benedizione dipinta sulla bandiera a tutti gli esseri. Quando il vento passa sulla superficie delle bandiere, le quali sono sensibili ad ogni cambiamento e movimento del vento, l'aria si purifica e viene resa sacra dai mantra. Le preghiere sulle bandiere diventano parte permanente dell'universo, mentre l'immagine sbiadisce a causa dell'esposizione agli elementi. Proprio come la vita va avanti e viene rimpiazzata da nuova vita, i tibetani rinnovano le loro speranze per il mondo continuando ad appendere nuove bandiere di fianco a quelle vecchie. Questo atto simboleggia il fatto di dare il benvenuto ai cambiamenti della vita e il riconoscimento che ogni essere è parte di una circolo più grande. I simboli e i mantra sulle bandiere sono sacri, dovrebbero essere trattati con rispetto. Esse non dovrebbero essere mai poggiate sul pavimento o usate come vestiario. Le bandiere vecchie dovrebbero essere bruciate.

Il momento propizio per appenderle e rimuoverle

L'uso della bandierine di preghiera con fini principalmente estetici, ovvero al di fuori di contesti strettamente legati alla pratica del Buddhismo, non è in genere scoraggiato dai monaci, perché si ritiene che anche l'uso grazioso e semplice di appendere le bandiere di preghiera diffonde buoni auspici a tutti gli esseri viventi.
Il significato delle bandierine è collegato all’astrologia tibetana, che indica giorni particolarmente favorevoli per appenderle e altri in cui è bene evitare di attaccarle. In questo calendario i giorni fausti sono indicati con PF (Prayer Flags) e quelli infausti con NPF (No Prayer Flags)
Una volta appese, le bandierine possono anche esser lasciate per sempre, ma si usa sostituirle il giorno del Capodanno Tibetano. Esse, contenendo dei testi sacri, non dovrebbero essere appoggiate a terra né tantomeno buttate tra i rifiuti: viene invece raccomandato che le vecchie siano bruciate, in modo che il fumo che se ne sprigiona diffonda la propria benedizione nell'aria.

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mercoledì 2 maggio 2018

Beach Wrestling

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Il Beach Wrestling è uno stile internazionale di Lotta sportiva nato per unire le diverse forme di combattimento praticate sulla sabbia attraverso un singolo regolamento. Il bagaglio tecnico è simile a quello della lotta libera, ma a differenza di quest'ultima non è possibile lottare a terra. La competizione avviene sulla spiaggia, o meno frequentemente in strutture indoor appositamente attrezzate. Il campo di gara è formato da un cerchio (la sabbia sostituisce il tappeto) dal diametro di sei metri. L'abbigliamento è ridotto ad un costume da bagno (o pantaloncini corti estivi) e non sono presenti le scarpe. Le categorie di peso ufficiali sono quattro: -85 kg , +85 kg per il settore maschile e -70 kg , +70 kg per quello femminile.

Gestione del Beach Wrestling

L'intento della federazione internazionale FILA Wrestling è quello di promuovere e diffondere la Lotta anche al di fuori delle palestre, sfruttando un ambiente di gara naturale e molto popolato. Il Beach Wrestling è stato incluso con grande successo fra le discipline presenti agli Asian Beach Games, manifestazione sportiva nata nel 2008. La "lotta sulla spiaggia" è stata inserita fra le discipline presenti nelle scorse Olimpiadi giovanili tenutesi nel 2010 a Singapore.

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martedì 1 maggio 2018

Kiai

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Il Kiai (気合, 気合い, kor. 기합) nelle arti marziali è il suono gutturale che accompagna i momenti "topici" di un kata (forma) o di un kumite (combattimento), in cui si dirige la massima energia vitale per intimorire e sopraffare l'avversario.
Essa è un'espressione di senso compiuto: Ki () sta per energia vitale e ai (, 合い) può essere tradotto come unione. L'individuo unisce la propria energia vitale e quella della natura attraverso l'espirazione provocata dalla forte contrazione addominale. La tradizione orientale fa risiedere la vitalità fisica nell'addome (tanden) e ritiene che degli appropriati esercizi respiratori possano incrementarla. È il diaframma che consente una respirazione profonda e ampia, mentre il movimento dei soli muscoli costali induce una respirazione superficiale e di difficile controllo. Il tempo dell'espirazione corretta (ventrale), determinata dalla decisa contrazione dei muscoli addominali corrisponde, quindi, al momento di massima espressione di forza.
L'altra componente del Kiai è psicologica. Il grido è intimamente connesso alle emozioni individuali, quando le nostre normali risorse non possono assicurarci la sopravvivenza, la forza e la volontà che necessitano emergono solo con l'esasperazione delle emozioni. La possibilità di ampliare le capacità in condizioni estreme ha permesso agli antichi guerrieri di codificare il grido, che divenne il kiai.
Si osserva un diverso momento di espressione del kiai nelle diverse arti marziali, per esempio nel kendo il kiai avviene prima e non all'atto finale, questo perché l'uso di un'arma, la katana in questo caso, implica di per sé un risultato devastante che invece, a mani nude, può essere conseguito solo con il ricorso all'esasperazione fisica. Nel kendo, non dovendosi incrementare l'aspetto fisico, viene dato grande risalto alla volontà risolutiva che induce l'azione.

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lunedì 30 aprile 2018

Dakimakura

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Il dakimakura (抱き枕) da daki (抱き abbracciare o avvinghiarsi) e makura ( cuscino) è un tipo di cuscino molto grande, tipico della subcultura otaku. I dakimakura sono molto simili ai cuscini ortopedici occidentali, e sono comunemente utilizzati dai giovani giapponesi come oggetti transizionali. Tuttavia, dal punto di vista occidentale, la parola "dakimakura" viene utilizzata per indicare cuscini con illustrazioni di personaggi femminili dello stile bishōjo.

Storia

Negli anni novanta, il dakimakura cominciò ad entrare a far parte della sotto-cultura otaku, questo portò alla produzione di cuscini con stampate immagini di personaggi appartenenti a manga e ad anime. I primi dakimakura furono prodotti dalla compagnia Cospa, specializzata in cosplay e in oggettistica per otaku, che continua ancora oggi a produrli.

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domenica 29 aprile 2018

Idol sudcoreano

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Con il termine idol sudcoreano (대한민국의 아이돌, Daehanmingug-ui a-idol) ci si riferisce a un artista musicale k-pop generalmente rappresentato da un'agenzia di talenti, la quale ne predispone l'esordio nel mondo dello spettacolo dopo un periodo di preparazione in discipline come canto e danza.

Caratteristiche

Il percorso per diventare idol comincia con delle audizioni indette da agenzie di talenti (come S.M. Entertainment, YG Entertainment e JYP Entertainment, le tre più grandi agenzie) a cui ogni anno partecipano centinaia di giovani nella speranza di entrare nello show business. Coloro che superano le varie fasi dei provini hanno la possibilità di firmare un contratto a lungo termine e ricevere una preparazione artistica che dura diversi anni. Gli apprendisti solitamente iniziano il loro percorso all'età di 9 o 10 anni, ricevendo lezioni di canto, danza e lingue straniere, in particolare giapponese, cinese e inglese, dato che la musica pop coreana possiede un largo seguito anche all'estero. Le attività di scouting e formazione di un idol comportano alle agenzie costi ragguardevoli: per esempio, le spese di preparazione di un singolo membro del gruppo Girls' Generation si aggirano sui 3 miliardi di won (circa 2,6 milioni di dollari).
La preparazione si svolge in concomitanza con il periodo di formazione didattica, quindi non è raro che gli apprendisti convivano e condividano la stessa routine fatta di lezioni scolastiche mattutine e lezioni preparatorie alla sera; mentre altri preferiscono ritirarsi dalle attività scolastiche per dedicare tempo ed energie al raggiungimento dell'obiettivo di diventare idol.
Secondo The Vancouver Observer lo stereotipo di idol sudcoreano è «incredibilmente giovane, di bell'aspetto e capace di mantenere un tono melodrammatico».

Storia del fenomeno

Gli idol in Corea del Sud hanno assunto negli anni un ruolo iconico all'interno dell'industria musicale nazionale andando ad occupare il posto di quelle che in passato venivano chiamate "star". L'ascesa del fenomeno in Corea è strettamente legata alla crescita del capitalismo estremo nel Paese a seguito della fine della crisi finanziaria asiatica degli anni novanta.
Il fenomeno è esploso a livello globale grazie alla costante crescita della popolarità della cultura coreana, iniziata a fine anni novanta e culminata nei primi anni dieci del XXI secolo. Secondo l'agenzia delle entrate sudcoreana, nel 2013 il guadagno medio annuale di un idol era di 46,74 milioni di won (circa 42.000 dollari), cifra quasi raddoppiata rispetto al 2010 quando questa era di 26,97 milioni.
Grazie al massiccio sostegno da parte dei fan, gli idol sudcoreani hanno incominciato a ricevere notevole attenzione anche dai media, e i più famosi arrivano a guadagnare milioni di dollari in dischi venduti e diritti d'autore. Altri riescono a farsi un nome in patria e all'estero non solo grazie alla musica, ma anche grazie agli accordi di sponsorizzazione con aziende, alle apparizioni in spot pubblicitari e al merchandising loro dedicato.

Aspetti culturali

Dagli anni dieci del XXI secolo i prodotti mediatici relativi alla musica pop coreana hanno incominciato a circolare anche al di fuori del mercato nazionale grazie alla massiccia presenza di fan blog dedicati e alla diffusione tramite social network e siti di condivisione video. In particolare gli idol group maschili hanno guadagnato notevole seguito grazie a YouTube, attirando appassionati dal differente background culturale.
Uno dei fattori che ha permesso agli idol sudcoreani di affacciarsi con successo al mercato internazionale è la loro versatilità e promiscuità culturale, esemplificata dalle caratteristiche della musica k-pop che tendenzialmente mischia R&B, dance e hip-hop.
La fanbase degli idol sudcoreani, formata principalmente da ragazze adolescenti, è soggetta a critiche da parte dell'opinione pubblica coreana a causa di comportamenti giudicati ai limiti del fanatismo. In particolare, con il termine sasaeng (사생팬) ci si riferisce a quei fan che fanno degli idol la loro ossessione, e i cui comportamenti estremi sfociano in atti di stalking e invasione della privacy.

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sabato 28 aprile 2018

Ishida Mitsunari

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Ishida Mitsunari (石田 三成) (giapponese: 石田 三成; settembre 1559 – 6 novembre 1600) è stato un militare giapponese che condusse la fazione opposta a Tokugawa Ieyasu nella battaglia di Sekigahara.

Le prime campagne

Ishida Mitsunari nacque nella provincia di Ōmi nel 1559, figlio di Ishida Masatsugu, samurai che adempiva mansioni logistiche e serviva come medico sotto la famiglia Azai. Mitsunari era il terzogenito, dopo Yajirou (primogenito morto in tenera età) e Masazumi; aveva forse anche una sorella e un fratellastro, che il padre aveva avuto da una concubina. Nel 1573, quando il generale Toyotomi Hideyoshi (che all'epoca si chiamava Hashiba) sconfisse la famiglia Asai, Masatsugu si ritirò a vita privata. Mitsunari fu presto notato dal nuovo signore per le sue capacità di calcolo e per la destrezza nella cerimonia del tè (una leggenda nata nel primo periodo Edo lo vuole monaco buddista, ma tale supposizione si è rivelata infondata). Hideyoshi gli affidò il comando delle salmerie e lo portò con sé nelle sue campagne fino al 1580.
Mitsunari nel frattempo si sposò ed ebbe sei figli dalla moglie: una primogenita (1578) e una secondogenita (1582) di cui si ignora il nome, Shigeie (1583), Shigenari (1588, adottato Gengo Sugiyama), Tatsuko (1591) e Sakichi (1594), più un altro figlio avuto da una concubina. Quando Nobunaga fu assassinato, Ishida seguì Hideyoshi alla battaglia di Yamazaki contro Akechi Mitsuhide. Mitsunari combatté anche a Shizugatake nel 1583, epoca a cui probabilmente risale il suo astio nei confronti di Katō Kiyomasa e Masanori Fukushima, prestando servizio in prima linea. Dal 1585 divenne amministratore della città di Sakai, riformando il sistema finanziario e spezzando il monopolio dell'élite dei mercanti. Nel 1587 Hideyoshi affidò a Masazumi Sakai e diede l'amministrazione di Hakate a Mitsunari. Ishida partecipò alla campagna di Odawara nel 1590 contro gli Hōjō, con alterne fortune visto che non riuscì a conquistare il castello di Oshi.

Daimyō

Hideyoshi fece Mitsunari daimyō nel 1591, affidandogli la provincia di Ōmi come feudo, assieme al castello di Sawayama. Mitsunari volle come suo ufficiale Shima Sakon, all'epoca ronin, a cui diede ben metà del suo feudo. Ishida partecipò alla campagna di Corea come supervisore delle truppe. Amico di Konishi Yukinaga, si attirò le ire e il disprezzo di Katō, che lo definì "un civile immischiato in un'armatura". Ishida criticò la condotta indolente di Kobayakawa Hideaki, nipote del Taiko, alienandosi le simpatie di molti. Tornato in Giappone nel 1593, cercò di avviare una trattativa di pace con l'esercito cinese, intervenuto nella guerra coreana, tuttavia l'indifferenza di Hideyoshi fece fallire i negoziati. Tornato in Corea nell'inverno del 1597, vi restò fino al disastro, per poi tornare in patria nel 1598, quando si capì che la malattia stava portando Hideyoshi alla tomba. Ishida fu nominato fra i cinque amministratori del Giappone da Hideyoshi morente, affiancandolo ai cinque reggenti che avrebbero aiutato il governo dell'infante Toyotomi Hideyori. Preoccupato dalle ambizioni di Tokugawa Ieyasu, Hideyoshi affidò segretamente a Mitsunari il compito di vigilare su Hideyori e la concubina Yodogimi (di cui si diceva Mitsunari fosse amante).

Dalla morte di Hideyoshi a Sekigahara

Hideyoshi morì il 18 agosto 1598, lasciando il Giappone nell'incertezza più totale. L'anno 1599 trascorse relativamente tranquillo, con Mitsunari che teneva d'occhio Ieyasu tramite l'amicizia con uno dei cinque reggenti, Maeda Toshiie. Alla morte di quest'ultimo e con l'entrata di Mitsunari nel consiglio di reggenza, i rapporti con Ieyasu si inasprirono sempre di più. Cominciarono scaramucce che si tramutarono in guerra aperta nella primavera del 1600, nonostante Mitsunari cercasse di evitarlo. Parecchi daimyō si unirono a Ieyasu per l'astio contro Mistunari, che poté invece contare sull'aiuto dei feudatari fedeli alla casa dei Toyotomi. È noto l'episodio a causa di cui Hosokawa Tadaoki servì la causa di Tokugawa: pare che Mitsunari volesse prendere la moglie di quest'ultimo, Tamako o Grazia secondo il nome cristiano, come ostaggio. Ma la dama preferì uccidersi, in segno di fedeltà al marito. Le dinamiche dell'accaduto restano ancora per lo più oscure.
La guerra sembrava sorridere alla fazione dei Toyotomi, con la vittoria di Mitsunari al castello di Fushimi. Tuttavia, all'interno dell'armata, la leadership di Mitsunari venne più volte messa in dubbio, soprattutto da Mori Hidemoto, che sosteneva di avere maggiormente diritto al comando supremo. Fu così che alla battaglia nel villaggio di Sekigahara la sorte tirò un brutto tiro a Ishida. Fino a mezzogiorno sembrava che la giornata gli fosse favorevole, nonostante l'inattività dei Mōri e di Kobayakawa. Tuttavia, nel primo pomeriggio, le truppe di Kobayakawa disertarono e attaccarono alle spalle Ōtani Yoshitsugu, daimyō alleato di Ishida e suo personale amico.
Le truppe dei Toyotomi si trovarono presto circondate e attaccate su più fronti. Shima Sakon morì sul campo per permettere la fuga di Mitsunari, che cercò di ricongiungersi con le truppe lasciate al castello di Sawayama sotto il comando di Masazumi. Tuttavia vi giunse troppo tardi: i Tokugawa avevano già cinto d'assedio il castello. Vi morì l'intera famiglia di Mitsunari, con l'unica eccezione dei figli, che furono risparmiati dal generale Ii Naomasa, fedelissimo di Ieyasu.
Mitsunari si nascose per una settimana sui monti vicino a Hakone, quando fu trovato sempre da Ii e vi si consegnò quasi spontaneamente. Nonostante la maggior parte dei fedeli a Tokugawa Ieyasu lo volessero morto, questi gli offrì la grazia, che tuttavia Mitsunari rifiutò. Si oppose anche a fare seppuku, ma chiese che i suoi figli fossero risparmiati (cosa che avvenne). Ishida fu portato a Kyoto assieme ai suoi due alleati Yukinaga Konishi (catturato durante la battaglia di Sekigahara) e Ekei Ankokuji (consigliere dei Mōri), per essere decapitato. Sul palco dell'esecuzione Ieyasu gli offrì un caco, che tuttavia Mitsunari rifiutò poiché lo avrebbe fatto star male di stomaco (fedele alla filosofia Zen, si comportava come se non fosse affatto sul punto di morire). Fu decapitato da Masanori Fukushima in persona e il suo corpo fu gettato nel fiume vicino.

Considerazioni

La figura di Ishida è stata rivalutata solo recentemente, poiché nei secoli precedenti è sempre stato messo in cattiva luce e demonizzato dalla propaganda dei Tokugawa. Si dice che avesse un carattere brusco e che molti lo snobbassero per questo ma anche a causa delle sue modeste origini. I favori che Hideyoshi gli rivolgeva rendevano gli altri daimyō gelosi all'inverosimile, come Fukushima e Kobayakawa. Si suppone che Ishida, da buddista zen, detestasse i cristiani, tuttavia fra i suoi migliori amici figurava Konishi, famoso daimyō di religione cattolica. La sua figura resta ancora per lo più controversa.

Al di fuori della storia

  • È stato usato da James Clavell come base per il personaggio di Ishido Kazunari (seppur con sostanziali differenze) nel romanzo Shogun.
  • Compare anche nel romanzo di Shiba Ryotaro Sekigahara.
  • Infine, la battaglia di Sekigahara fa da sfondo storico ai giochi per la Play Station Kessen e Samurai Warriors, in cui Ishida comanda uno dei due schieramenti.

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venerdì 27 aprile 2018

Mantra

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Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra" e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.
La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture religiose che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo, Buddhismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta l'Asia giungendo in Tibet, in Cina e, attraverso quest'ultima, in Giappone, Corea e Vietnam.

Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue asiatiche

Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce").
Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione".
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito mantra viene così reso:
  • in cinese: 曼憺羅 màndáluó, ma anche 眞言 zhēnyán;
  • in giapponese 眞言 shingon;
  • in coreano 진언 jin-eon;
  • in vietnamita chân ngôn;
  • in tibetano botswanaghana.

Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica

Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita:
(SA)
«śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»
(IT)
«Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino.»
(Ṛgveda, I,89,9. Traduzione di Saverio Sani, in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag.178)
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda).
I mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa). Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte.
Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo.
I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa). In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche

La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera. Ogni mantra va usato nel modo corretto e, a seconda del modo, può dare differenti risultati:
«I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli.»
(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'India, Op. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.

La pratica dei mantra

Un mantra, rigorosamente in lingua sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo o da generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono dissimili dalla consacrazione delle icone.
L'atto di enunciare un mantra è detto uccāra in sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di japa, e di solito è praticata servendosi dell'akṣamālā, un rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono ripetuti fino a un milione di volte:
«Ogni ripetizione indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la condizione delle ulteriori esperienze.»
(Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
Un aspetto importante nell'uccāra è il controllo della resipirazione. Frequente, soprattutto nelle tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è "movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia interiore.

I bīja

I bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono:
  • AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
  • AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
  • HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
  • ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
  • KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
  • KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
  • DUṂ: la dea Durga.
  • GAṂ: il dio Ganapati.
  • HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
  • LAṂ: la terra
  • VAṂ: l'acqua
  • RAṂ: il fuoco
  • YAṂ: l'aria
  • HAṂ: l'etere
Nella Yogattatva Upaniṣad i suddetti bīja, corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da quest'ultimo alla sommità del capo: etere. La recitazione consente di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.
  • SAUḤ: il cuore, simbolo dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat ("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza in Dio, la sua immanenza nel mondo.
Infine, i cinquanta fonemi dell'alfabeto sanscrito possono essere utilizzati come mantra essi stessi, singolarmente o variamente combinati; ogni fonema può corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei mantra.

Alcuni mantra

  • Rudra mantra
ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम् ।उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi, profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci dai legami della morte."
Il mantra è rivolto a Śiva nel suo aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211); Uddīsha Tantra (94).
  • Gāyatrī mantra
ॐ भूर्भुवस्व: | तत् सवितूर्वरेण्यम् | भर्गो देवस्य धीमहि | धियो यो न: प्रचोदयात्
Oṃ bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi della vita]."
Composto di dodici più dodici sillabe, è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10); Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (5, 15).
  • Oṃ Maṇi Padme Hūṃ
ॐ मणि पद्मे हूँ
Om Mani Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello, simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù contemplata dal Buddhismo.
  • Mantra rāja
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna, Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."
Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino.
  • Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā
Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei: Karpūradi Stotra (5); Karpura-stava (5).
  • Śiva panchākśara mantra
ॐ नम: शिवाय
Oṃ namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."
È il mantra principale nelle correnti devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa.
  • Netra mantra
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra dell'occhio di Śiva", ed è citato nel Netra Tantra, cap. VII.
  • Viṣṇu astākśara mantra
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."
Il mantra è rivolto a Viṣṇu, essendo Nārāyaṇa appellativo del dio.
  • Hare Kṛṣṇa mantra
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare
Noto anche come Mahā mantra ("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a partire dagli anni sessanta per opera della International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come "gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York. Hare è uno degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa medesimo, completa manifestazione di Īśvara.

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giovedì 26 aprile 2018

Programma di arti marziali del Corpo dei marine

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Il Programma di arti marziali del Corpo dei marine (in inglese MCMAP, Marine Corps Martial Arts Program) è un sistema di combattimento sviluppato dal Corpo dei marine degli Stati Uniti per combinare tecniche di combattimento corpo a corpo nuove e già esistenti con il sistema etico di questa branca delle forze armate statunitensi.
Lanciato nel 2001 allo scopo di "rivoluzionare e sostituire le precedenti tecniche di combattimento nella formazione delle forze armate statunitensi", il programma addestra Marines e personale della Marina nel combattimento a mani nude, con armi da taglio, armi non convenzionali, fucile e baionetta. Si concentra anche sullo sviluppo mentale e personale, dedicando grande attenzione allo sviluppo di caratteristiche quali la leadership e il lavoro di gruppo.

Sistema di gradazione

Al contrario di molte altre arti marziali di origine militare, l'MCMAP prevede un preciso sistema di cinture finalizzate ad indicare il grado di conoscenza del praticante; in ordine crescente esse sono di colore marrone chiaro, grigio, verde, marrone e nero. A partire dalla cintura verde è possibile applicare anche una striscia (rosa da verde a marrone, rossa per le cinture nere) per indicare un istruttore qualificato. Le cinture nere vanno dal primo al sesto dan.

Addestramento e tecniche

Come già sottolineato, l'MCMAP è finalizzato non solo a fornire agli appartenenti alle forze armate una adeguata preparazione militare ma anche a favorirne la crescita come individui: per questo i praticanti vengono sottoposti ad allenamenti fisici e mentali specializzati, come ad esempio il combattimento con sottoposizione di spray urticanti al volto.
Le principali arti marziali utilizzate come base per la creazione di questo sistema possono essere individuate nelle seguenti: Jiu jitsu brasiliano, lotta libera, pugilato, Savate, Jiu-jitsu, Judo, Sambo, Krav Maga, Karate stile Isshin-Ryu, Aikidō, Muay Thai, Eskrima, Hapkido, Taekwondo, Kung Fu e Kickboxing.
I praticanti vengono inoltre istruiti in modo da applicare ad ogni singola fattispecie il giusto livello di pericolosità circa la tecnica utilizzata, indicando l'uso di quelle letali come extrema ratio.
 
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mercoledì 25 aprile 2018

Mark Dacascos

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Mark Alan Dacascos (Honolulu, 26 febbraio 1964) è un attore, artista marziale e stuntman statunitense.

Biografia

Infanzia

Suo padre, Al Dacascos, è un famoso maestro di arti marziali e creatore dello stile Wun Hop Kuen Do (che unisce stili cinesi e filippini): diviene il primo insegnante del figlio quando questi compie 6 anni, così come lo era stato di Moriko McVey, madre di Mark. Lo stile del padre è una derivazione del Kajukenbo (il cui nome deriva dalle iniziali degli stili che raggruppa: karate, Jūdō, kenpo, boxe), ed è stato sviluppato nelle isole Hawaii.
Quando il padre di Mark si risposa con Malia Bernal, più volte campionessa femminile statunitense di arti marziali (armi, combattimento e forme), quest'ultima diviene la seconda maestra di Mark. Malia è stata anche la prima donna ad apparire sulla copertina dell'illustre rivista statunitense Black Belt, dedicata al mondo delle arti marziali. Nel 1973, all'età di 9 anni, Mark vince il suo primo torneo internazionale, il Long Beach Internationals.

Adolescenza

Nel 1981, all'età di 17 anni, si trasferisce a Taipei, in Taiwan, per studiare con il suo terzo maestro, Shen Muo-Hui, esperto di Chin-Na e di Shuai Jiao (versione cinese della lotta). Studia anche alcuni stili del kung-fu Shaolin dal maestro Jiang Hao-Quane il Karate. Inoltre studia capoeira con Amen Santo, il quale recita con Mark nel film Solo la forza (Only the Strong, 1993).

La notorietà

Mark ottiene la copertina e uno speciale su di lui su Men's Fitness del novembre 1998, e appare sulla copertina della rivista specialistica Inside Kung Fu nel gennaio 1999.
Nel 1985, come racconta lo stesso Mark, mentre gira con la fidanzata per Chinatown, a San Francisco, viene fermato da due agenti cinematografici che gli chiedono se sia un attore. Alla risposta negativa gli propongono un provino, e così lo stesso anno Mark si ritrova attore in un film, Dim Sum: A Little Bit of Heart (alla fine delle riprese, però, le sue scene verranno tagliate). Dopo qualche apparizione in film minori come Angel Town (1990) o L'oro dei Blake (Dead on the Money, 1991), il successo arriva con Solo la forza (Only the Strong, 1993), dove interpreta un insegnante di capoeira che tenta di insegnare questo stile a dei ragazzi sbandati per salvarli dalla vita di strada. Lo stesso anno viene preso in considerazione (ma poi scartato) per la parte di Bruce Lee nel film briografico Dragon - la storia di Bruce Lee. Seguono altri B-movie come Guerriero senza tempo (American Samurai, 1993) e Double Dragon (1994), quest'ultimo tratto dal famoso videogioco omonimo. Nel 1995 interpreta l'amico di uno dei fratelli Sloane in Kickboxer 5, quinto e ultimo episodio della saga iniziata da Jean-Claude Van Damme.
Il successo e la notorietà cinematografica gli arrivano nel 1995 con Crying Freeman di Christophe Gans, trasposizione del famoso manga omonimo. Ma mentre aumenta la sua fama, diminuisce la sua marzialità sullo schermo. Infatti in Crying Freeman Mark riduce al minimo la sua prestanza atletica, lasciando così trapelare anche la sua bravura recitativa. Infatti nei film seguenti, come Incubo mortale (Deadly Past, 1995) o DNA (1997), Mark si impegna esclusivamente come attore, lasciando da parte la sua eccezionale prestanza atletica o la sua marzialità. L'unica eccezione arriva con Drive (1997), di Steve Wang, film che nasce esclusivamente come film di arti marziali, e in cui Mark mostra il meglio delle sue capacità, come a voler dimostrare di essere sì un bravo attore, ma anche un ottimo artista marziale. Una curiosità è data dal fatto che nel film, quando al personaggio di Mark viene chiesto come si chiami, per nascondere la propria identità lui risponde "Sammo Hung", per omaggiare il grande regista e attore di Hong Kong. Il quale, come a volerlo ringraziare, lo chiama l'anno successivo a partecipare ad un episodio della serie Più forte ragazzi (Martial Law), da lui ideata e interpretata.

Il corvo

Il 1998 è l'anno che vede Mark nei panni di Eric Draven, il protagonista de Il Corvo (The Crow, 1994) interpretato da Brandon Lee. Visto infatti il successo di questo film, nasce una serie di telefilm con Mark protagonista, intitolati The Crow: Stairway to Heaven. Ne viene girata solo una stagione, per un totale di 22 episodi. In Italia escono i primi due episodi in home video col titolo Il corvo: La resurrezione, in seguito la serie completa viene trasmessa dalla televisione pubblica.

Anni 2000

Mentre Mark negli anni successivi sembra specializzarsi in B-movie d'azione (ma non di arti marziali), come Codice criminale (No Code of Conduct, 1998) o La base (The Base, 1999), un'altra eccezione arriva nel 2001, quando Christophe Gans, il regista di Crying Freeman, lo rivuole per un suo film, Il patto dei lupi (Le Pacte des loups). Il film è prima un grande successo europeo, poi internazionale, e anche se Mark non ha spazio come attore, può però mostrare la sua bravura atletica e marziale, dando corpo a dei combattimenti a cui ormai i suoi fan non erano più abituati.
Un'altra occasione "marziale" arriva nel 2003 da Andrzej Bartkowiak, che lo chiama per il suo Amici per la morte (Cradle 2 the Grave), dove interpreta il suo primo ruolo da cattivo. Il film però vede la presenza in ruoli da protagonisti di Jet Li e DMX, due grandi personaggi, in generi differenti, che rubano la scena a Mark, il quale non ha modo di farsi apprezzare nel film.
Nel 2010 viene ingaggiato dalla CBS per interpretare il cattivo per eccellenza, Wo Fat, nel remake di Hawaii Five-0
Dal 2013 prende parte alla seconda stagione della web serie di Mortal Kombat: Legacy, nel ruolo di Kung Lao.

Vita privata

Nel 1998 sposa Julie Condra, con cui aveva recitato insieme nel film Crying Freeman (1995). Con lei ha avuto un figlio, Makoalani Charles Dacascos, nato il 31 dicembre 2000 ad Oahu nelle Hawaii.

Tornei vinti

  • Long Beach Internationals (Pee Wee) - 1973
  • Long Beach Internationals, forme (Brown Belt Division) - 1980
  • Hamburg Karate Championships (Junior) - 1980
  • Hamburg Karate Championships (Junior Division) - 1982
  • Italian Kung Fu and Karate Championships, pesi leggeri (Brown Belt Division) - 1982
  • European Kung Fu and Karate Championships, pesi leggeri (Brown Belt Division) - 1982


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martedì 24 aprile 2018

Wai

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Il wai è un gesto con cui in Thailandia si saluta e si dimostra rispetto. In Cambogia tale termine viene tradotto con la parola sampeah ed in Laos con nop. In alcuni casi è in tali Paesi anche un modo di dimostrare la propria devozione. Il gesto e il contesto in cui viene usato sono analoghi a quelli del namasté indiano, cingalese e nepalese, con l'utilizzo della posizione di preghiera detta pranamasana o Añjali Mudrā.
Viene realizzato congiungendo le mani, unendo i palmi con le dita rivolte verso l'alto, e tenendole all'altezza del petto, del mento o della fronte, facendo al contempo un inchino. Alcuni dettagli cambiano a seconda della persona o divinità a cui è rivolto il saluto o la riverenza. Viene usato quando le persone si incontrano, al momento dei saluti finali, nonché per ringraziare o per scusarsi.

Saluto

Secondo la tradizione di Thailandia, Laos e Cambogia, wai, nop e sampeah esprimono rispetto e devono essere fatti per primi dalla persona più giovane o da chi ha uno status sociale inferiore a colui il quale il saluto è rivolto. Sono quindi gli studenti a rivolgere il saluto per primi agli insegnanti, i giovani agli anziani, figli e nipoti a genitori, zii e nonni, impiegati al capo-ufficio ecc. Le mani giunte vanno tenute con le punte delle dita vicine al mento ed il gesto va accompagnato con un inchino della testa. Più differenza di status c'è tra le due persone o più benevolenza si vuole ottenere, maggiore è l'inchino che di solito si fa con la testa e più alte van tenute le mani giunte.
La persona più anziana o di status più alto risponde al saluto tenendo le mani giunte leggermente più in basso e flettendo meno il capo nell'inchino o non flettendolo affatto. Tra coetanei, persone di pari grado sociale o tra estranei di cui non si conosca il grado sociale si usa tenere le mani giunte vicine al mento senza chinare la testa.
Il wai in Thailandia di solito viene fatto dicendo sawat dii krap o sawat dii kah, il primo detto dai maschi e il secondo dalle femmine. Sawat dii (in thai: สวัสดี) viene dal sanscrito ed ha la stessa origine della radice svasti, compresa nel termine svastica, a sua volta composta dal prefisso su- (buono, bene) e da asti (coniugazione della radice verbale as: "essere"). Significato simile all'italiano salve (salute a voi). Il termine sawat dii fu coniato negli anni trenta del Novecento presso l'Università Chulalongkorn di Bangkok.
In Laos, sia uomini che donne usano dire l'analogo sabai dii (in lingua lao: ສະບາຍດີ) quando fanno il nop, mentre in Cambogia dicono cumriep sue (in lingua khmer: ជំរាបសួរ) quando si incontrano e cumriep lie (in khmer: ជំរាបលា) ai saluti finali.

Riverenza

Il gesto va fatto in maniera diversa a un monaco buddhista, ad un'immagine del Buddha o quando si passa davanti a un monastero. In tali casi, in segno di riverenza, la punta delle dita va tenuta in corrispondenza della fronte e l'inchino va fatto con il busto e la testa contemporaneamente. Durante le cerimonie, i devoti buddhisti si inginocchiano davanti ai monaci con le mani giunte sulla fronte e durante l'inchino si portano le mani in avanti e si abbassa la testa fino a toccare il pavimento. Il rito andrebbe ripetuto per tre volte davanti alle immagini del Buddha.
Secondo un'antica tradizione religiosa, in presenza dei regnanti i sudditi si prostrano nello stesso modo in cui lo fanno per i monaci, senza alzare la testa a guardare i sovrani. Tale cerimoniale si basa sul fatto che il monarca in questi Paesi era un'emanazione della divinità. Le monarchie sono rimaste solo in Thailandia e Cambogia, quest'ultima ridimensionata dopo la presa di potere dei khmer rossi nel 1976, mentre l'ultimo re del Laos ha abdicato nel 1975. L'antica tradizione della prostrazione davanti al re viene tuttora praticata negli incontri privati con il re di Thailandia, malgrado l'obbligo di prostrarsi e di non guardare in faccia i reali sia stato rimosso ai tempi di re Chulalongkorn, che regnò dal 1868 al 1910.

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