Mantra (devanāgarī: मन्त्र)
è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che
indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del
pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra"
e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra
indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad
una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e
religiosa.
La nozione di mantra ha origine
dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture
religiose che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo,
Buddhismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la
pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta
l'Asia giungendo in Tibet, in Cina e, attraverso quest'ultima, in
Giappone, Corea e Vietnam.
Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue
asiatiche
Il termine mantra deriva
dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII
classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas:
"pensiero", "mente", "intelletto" ma
anche "principio spirituale" o "respiro", "anima
vivente") unito al suffisso tra che corrisponde
all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che
agisce").
Un'etimologia tradizionale fa invece
derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma
collegato al sanscrito tra che, in fine compositi,
diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi
"pensare, pensiero, che offre protezione".
Nelle altre lingue asiatiche il termine
sanscrito mantra viene così reso:
in cinese: 曼憺羅
màndáluó, ma anche 眞言
zhēnyán;
in giapponese 眞言
shingon;
in coreano 진언
jin-eon;
in vietnamita chân ngôn;
in tibetano botswanaghana.
Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica
Nella più antica letteratura vedica,
il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato
e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere
la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita:
(SA)
«śatamin nu śarado anti
devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro
bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»
|
(IT)
«Ci stan davanti cento
anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei
nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano
padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo
cammino.»
|
(Ṛgveda, I,89,9.
Traduzione di Saverio Sani,
in Ṛgveda,
Venezia, Marsilio, 2000, pag.178) |
In tale accezione, l'inno vedico, o
mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato
come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in
prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda),
se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel
Sāmaveda).
I mantra appartenenti al Ṛgveda
venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato
come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano
intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo
sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma),
mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati
dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente
nel periodo dei Brāhmaṇa). Ogni particolare rito
sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei
mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di
entrare in comunicazione con la o le divinità (deva)
prescelte.
Essendo i Veda tradizionalmente
intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì
trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi)
all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati
dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed
"eterni" che mostravano la vera natura del cosmo.
I testi risalenti alla fine del secondo
millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come
l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro
significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi
risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono
indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole
bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi
del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il
mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore
a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il
verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa). In
particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa ciò che non è
possibile definire e che non è manifesto (anirukta)
rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni
contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle
successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne
quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda
conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare
meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e
alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C.,
una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di
Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa)
propria dei Veda e per questo collocati all'interno del
Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).
I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche
La vita di un devoto hindu è pervasa
dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari
momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri
(rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche
magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa);
onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali
(siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni
altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei
riti; eccetera. Ogni mantra va usato nel modo corretto e, a
seconda del modo, può dare differenti risultati:
«I mantra 'comprovati'
danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che
aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o
se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra
'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici'
distruggono quelli che vogliono usarli.»
|
(Mantra-Mahodadhi,
24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei
dell'India, Op.
cit., p. 381)
|
Questi usi e forme dei mantra non
appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il
mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie
liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire
magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito
tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e
hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere.
Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono
considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra
rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.
La pratica
dei mantra
Un mantra, rigorosamente in lingua
sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo
enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con
la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre
evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo o da
generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un
maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono
dissimili dalla consacrazione delle icone.
L'atto di enunciare un mantra è detto
uccāra in
sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di
japa,
e di solito è praticata servendosi dell'
akṣamālā, un
rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono
ripetuti fino a un milione di volte:
«Ogni ripetizione
indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune
tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la
condizione delle ulteriori esperienze.»
|
(Mircea Eliade,
Lo Yoga, a cura di
Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
|
Un aspetto importante nell'uccāra
è il controllo della resipirazione. Frequente, soprattutto nelle
tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le
mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche
di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è
"movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione
interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante
lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia
interiore.
I
bīja
I
bīja ("seme") sono monosillabi che
generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel
corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a
esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e
ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che
variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali"
sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come
mantra essi stessi (
bījamantra). Alcuni fra i più noti sono:
AUṂ: è il bīja
più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il
suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia
come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in
sé. Le lettere che compongono il bīja sono A, U ed Ṃ:
nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale
viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La
recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di
grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo
mantra.
AIṂ: la coscienza. È
associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
HRĪṂ: l'illusione. È
associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
ŚRĪṂ: l'esistenza. È
associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
KLĪṂ: il desiderio. È
associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la
distruttrice.
KRĪṂ: il tempo. È
associato alla dea Kālī.
DUṂ: la dea Durga.
GAṂ: il dio Ganapati.
HŪṂ: protegge dalla
collera e dai demoni.
LAṂ: la terra
VAṂ: l'acqua
RAṂ: il fuoco
YAṂ: l'aria
- HAṂ: l'etere
Nella
Yogattatva Upaniṣad i suddetti
bīja,
corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione
con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle
ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al
cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da
quest'ultimo alla sommità del capo: etere. La recitazione consente
di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.
SAUḤ: il cuore, simbolo
dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così
come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat
("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la
manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra
simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza
in Dio, la sua immanenza nel mondo.
Infine, i cinquanta fonemi
dell'alfabeto sanscrito possono essere utilizzati come mantra essi
stessi, singolarmente o variamente combinati; ogni fonema può
corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo
quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo
aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi,
fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo
d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto
di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione
più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune
parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con
altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della
potenza dei mantra.
Alcuni mantra
ॐ त्र्यम्बकम्
यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम्
।उर्वारुकमिव बन्धनान्
मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ
puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya
māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi,
profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci
dai legami della morte."
Il mantra è rivolto a Śiva nel suo
aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di
allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si
ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211);
Uddīsha Tantra (94).
ॐ भूर्भुवस्व:
| तत् सवितूर्वरेण्यम्
| भर्गो
देवस्य धीमहि | धियो
यो न: प्रचोदयात्
Oṃ
bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya
dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera
terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo
splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli
guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi
della vita]."
Composto di dodici più dodici sillabe,
è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo
uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova
per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10);
Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad
(5, 15).
ॐ
मणि पद्मे हूँ
Om Mani
Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in
tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il
mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è
in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le
situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri
esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati
più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello,
simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha
altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù
contemplata dal Buddhismo.
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna,
Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."
Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con
riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti
del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino.
- Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā
Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere
qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei:
Karpūradi
Stotra (5);
Karpura-stava (5).
ॐ नम:
शिवाय
Oṃ
namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."
È il mantra principale nelle correnti
devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara
vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero
sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte
tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad
esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa.
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra
dell'occhio di Śiva", ed è citato nel
Netra Tantra,
cap. VII.
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino
davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."
Il mantra è rivolto a Viṣṇu,
essendo Nārāyaṇa appellativo del dio.
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa
Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare
Noto anche come Mahā mantra
("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti
devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a
partire dagli anni sessanta per opera della International Society
for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come
"gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di
devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York. Hare è uno
degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra
di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come
il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa
medesimo, completa manifestazione di Īśvara.
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