lunedì 26 settembre 2016

Wabi-cha

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«Ci si dovrebbe rendere conto che la Via del tè è solo bollire l'acqua, preparare il tè e berlo.»
(Sen no Rikyū, 千利休, 1522-1591)



Wabi-cha (侘茶) è lo stile della Cerimonia del tè giapponese praticata secondo gli insegnamenti dei monaci buddhisti zen Murata Shukō (村田珠光, 1423-1502), Takeno Jōō (武野紹鴎, 1502-1555), e Sen no Rikyū (千利休, 1522-1591).
Essa si caratterizza per la semplicità e la sobrietà del rito e per il suo stretto collegamento agli insegnamenti buddhisti.
Il fondamento della concezione wabi () della Cerimonia del tè è già presente fin dall'opera di Murata Shukō quando egli evidenziava come "uno splendido cavallo si manifesta meglio in un'umile capanna che in una sontuosa stalla". Secondo lo studioso giapponese Masao Shoshin Ichishima la metafora di Murata Shukō è evidente: il meraviglioso cavallo rappresenta la "mente originaria" (giapp. hongaku, 本覺) mentre l'umile capanna di paglia indica la "stanza del tè" (Chashitsu, 茶室 soprattutto nel suo stile yojouhan 四畳半). La sobria e semplice bellezza wabi si oppone dunque alla bellezza sontuosa, denominata in giapponese basara (伐折羅, tale termine deriva dal sanscrito vajra che in quella lingua indica il diamante) di cui lo shogun Toyotomi Hideyoshi (豊臣秀吉, 1536-1598) fu per lungo tempo propugnatore.
Murata Shukō riprendeva questa sua particolare concezione della Cerimonia del tè proprio dalle dottrine buddhiste enunciate, nel II secolo, dal maestro indiano Nāgārjuna.
Nel Mahāprajñāpāramitā-śāstra (Commentario al Mahāprajñāpāramitā-sūtra, 大智度論 pinyin: Dà zhìdù lùn, giapp. Daichidoron, T.D. 1509, 25.57c-756b, opera attribuita a Nāgārjuna e tradotta da Kumārajīva in 100 fascicoli. Conservato nel Shìjīnglùnbu) si legge:
«I saggi conoscono la loro soddisfazione per mezzo di piccoli desideri. La terra del Buddha è piena di gemme preziose che ricoprono tremila grandi mondi. Da dove derivano tali gemme preziose? Quando i buddha e i saggi soddisfano le loro menti con un desiderio minimo, allora tali gemme si manifestano per loro»
(Mahāprajñāpāramitā-śāstra 大智度論, T.D. 1509, 25.57c-756b)



L'ideale del Shōyuku Chisoku (少欲知足)

La dottrina del "desiderio minimo" (sanscrito: alpecchatā, cinese 少欲 shǎoyù, giapp. shōyoku, tib. 'dod pa chung ngu) che porta ad una piena soddisfazione (知足, cin. zhīzú, giapp. chisoku), verrà ripresa dal nipote di Sen no Rikyū, Jakuan Sotaku nel suo Zencharoku (禅茶録, scritto nel 1826 ma su una tradizione orale ben più antica) con la dottrina Shōyuku Chisoku (la soddisfazione si conosce attraverso piccoli desideri). Ovvero non bisogna cercare il "desiderio" perfetto attraverso le "gemme" ma attraverso la realizzazione di piccoli desideri le "gemme" si manifestano.
Kobori Enshu (小堀遠州, 1579-1647) chiese al suo maestro Furuta Oribe (古田織部, o Furuta Shigenari, 古田重然, 1545-1615, già allievo di Sen no Rikyū ), come dovesse essere un giardino in stile wabi. Furuta Oribe rispose con una poesia:
«La luna di sera,
un lago appena visibile
attraverso gli alberi.»
(Furuta Oribe)



Secondo il principio del Shōyuku Chisoku l'autentica bellezza non può essere scorta nella piena visuale, ciò impedisce di scorgere la propria mente-cuore meravigliosa se questa viene disturbata da tutto ciò che si presenta.

Il wabi-cha e il Sutra del Loto

Il Zencharoku affronta anche un altro tema importante, sottinteso nella Cerimonia del tè, secondo il wabi-cha: incorporare l'essenza dei suoi insegnamenti attraverso la pratica concreta della "Via del tè" (Chado) e non attraverso la loro comprensione teorica o dottrinaria.
L'insegnamento di questa pratica concreta, la "Via del tè", avviene esclusivamente per mezzo di un rapporto diretto tra il maestro del tè e il suo discepolo, relazione denominata in giapponese con il termine kuden (口傳, cinese kǒu chuán o anche 口訣 giapp. kuketsu, cin. kǒu jué) e che ha origine nella trasmissione orale dell'insegnamento buddhista (Dharma).
L'insegnamento kuden avviene con l'utilizzo dei "mezzi abili" (giapponese hōben, dal sanscrito उपाय upāya, cinese 方便 fāngbiàn) da parte del maestro. A tal proposito, il Zencharoku cita espressamente il terzo capitolo del Sutra del Loto (giapp. 妙法蓮華經 Myōhō Renge Kyō), con la narrazione della parabola della Casa in fiamme dove il maestro del tè rappresenta il padre che vuole salvare i figli che si intrattengono in giochi all'interno di una casa incendiata.

domenica 25 settembre 2016

Sen no Rikyū

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Sen no Rikyū (千利休, anche Sen Rikyū; Sakai, 1522 – 21 aprile 1591) è stato un monaco buddhista giapponese, zen, riformatore della cerimonia del tè giapponese, che codificò in maniera definitiva nella forma wabi-cha, e maestro del tè di personaggi politici di primo piano del suo tempo quali Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi.

La vita

Sen no Rikyū nacque a Sakai, cosmopolita città portuale di mercanti, ubicata vicino a Ōsaka. Figlio di un gestore di magazzini di nome Tanaka Yohei (田中与兵卫, date sconosciute) e di Gesshin Myōchin (月岑妙珎, date sconosciute), il suo nome era Yoshiro. All'età di diciassette anni divenne discepolo del maestro del tè Kitamuki Dochin (北向道陳, 1504-1562) e, poco dopo, entrò come monaco nel tempio buddhista zen rinzai Nanshu-ji di Sakai, ricevendo il nome monastico di Sōeki (宗易). Lì studio sotto il maestro zen Dairin Sōtō (1480-1568). Due anni dopo divenne allievo di un altro maestro zen, Takeno Jōō (武野紹鴎, 1502-1555) che era a sua volta stato allievo dei discepoli di Murata Jukō (村田珠光, 1423-1502), Sochin e Sogo. Takeno Jōō era dunque erede del lignaggio della cerimonia del tè avviata circa mezzo secolo prima da Murata Jukō e dal grande maestro zen Ikkyū Sōjun (一休宗純, 1394 – 1481). Sen no Rikyū rimase allievo di Takeno Jōō per i successivi quindici anni, nei quali approfondì lo stile wabi-cha.
Ciò che rimane oggi dell'antica residenza di Sen no Rikyū a Sakai (Ōsaka) sua città natale. Sul lato destro della foto si può osservare il pozzo dell'acqua a cui il maestro attingeva per la Cerimonia. La stanza del tè (chashitsu, 茶室), denominata Jisso-an, è andata perduta durante i bombardamenti della II Guerra mondiale, ma è stata ricostruita ed è attualmente conservata presso il tempio buddhista zen rinzai, Nanshu-ji di Sakai.
Successivamente si trasferì presso il monastero buddhista zen rinzai, il Daitoku-ji (大徳寺) di Kyōto, approfondendo gli studi religiosi e quelli inerenti alla cerimonia del tè. Nel 1580, a 58 anni, Sen no Rikyū divenne maestro del tè personale dello shogun Oda Nobunaga (織田 信長, 1534-1582). È il periodo della diffusione presso la casta dei samurai della cerimonia del tè di ispirazione zen nello stile wabi-cha, uno stile che se da una parte si presentava come estremamente disciplinato ed estetico, nella sua radicale sobrietà esponeva quei principi religiosi sulla vita e sulla morte tipici dello zen. Non di rado questa cerimonia era praticata negli accampamenti militari. Entrato in rapporto con Oda Nobunaga, nel ruolo di suo maestro del tè, questa carica andava al di là delle sue finalità apparenti. In un'epoca difficilissima come quella dell'ultimo quarto del cinquecento, funestata da lotte intestine sanguinosissime, gli equilibri tra i vari clan dominanti erano difficilissimi e assai instabili. Alla corte del daimyo, Sen no Rikyū svolgeva quindi anche un ruolo politico e diplomatico, oltre quello istituzionale legato al cerimoniale. Alla morte di Oda Nobunaga, nel 1582, passò al servizio del suo successore Toyotomi Hideyoshi (豊臣秀吉, 1536-1598). Quest'ultimo era un generale di Oda Nobunaga dalla personalità molto forte e dai metodi piuttosto sbrigativi. Tuttavia Toyotomi Hideyoshi era anche un raffinato esteta e un sincero appassionato dell'arte del tè e di tutto il contesto estetico-religioso che circondava questa disciplina. Così in occasione della presentazione della cerimonia del tè nello stile wabi-cha all'imperatore Ōgimachi (正親町天皇 Ōgimachi-tennō, 1517-1593), evento procuratogli grazie all'intercessione di Toyotomi Hideyoshi, Se no Rikyū ottiene dall'imperatore il nome onorifico buddhista Rikyū Koji (利休 居士che il maestro semplificherà successivamente in Rikyū.
Nel 1587, sempre con l'aiuto di Toyotomi Hideyoshi, Sen no Rikyū organizzò un'importante riunione sulla cerimonia del tè presso il Kitano Tenman-gū (北野天満宮, un tempio scintoista a Kamigyō-ku nei pressi di Kyōto) invitando centinaia di persone di ogni estrazione sociale e consentendo ai meno abbienti l'utilizzo di riso tostato al posto del tè, prodotto più costoso.
Il grande ricevimento del 1587 fu uno degli ultimi episodi dell'amicizia tra lo shogun Hideyoshi e il maestro del tè.
Col tempo i due entrarono in rotta di collisione. Di fondo, il dissidio era di tipo filosofico: il wabi-cha di Sen no Rikyū, cioè la ricerca instancabile della semplicità e il rifiuto, connaturato al suo carattere, di qualsiasi ostentazione, si contrapponeva al gusto sfarzoso di Toyotomi.
Il conflitto dei due è stato minuziosamente analizzato e sono state fatte molte ipotesi. Si disse che Toyotomi si fosse invaghito di Ogin, giovane figlia di Rikyu. Che si rimproverasse a Rikyu il tentativo di griffare gli utensili del tè, imponendo e sfruttando la moda per ritrarre dalla vendita degli oggetti profitti considerevoli.
Sembra che Toyotomi accusasse Rikyu di culto della personalità in relazione alla presunta erezione di una statua, rappresentante il maestro, all'ingresso del Daitoku-ji.
Di certo il dissidio si aggravò con la spedizione militare in Corea, organizzata da Toyotomi per spirito di conquista e giudicata da Rikyu un'operazione di espansionismo non condivisibile. Sicuramente l'estensione dei conflitti anche all'estero, e su rotte commerciali importanti, turbava non poco la classe mercantile di cui, per nascita, Rikyu faceva parte. Quindi la censura, ben lungi dall'essere morale, era incardinata su interessi economici rilevantissimi.
Va tuttavia considerato che l'espansionismo di Totyotomi era ampiamente giustificato dalle esigenze della classe samurai che erano divenute ormai difficilissime, se non impossibili, da soddisfare in Giappone, in quanto le terre disponibili erano ormai tutte occupate e non si poteva materialmente far luogo a nuove assegnazioni al numero sempre crescente di samurai che le esigenze di potere di Toyotomi richiedevano.
Da ultimo sembra che un supposto avvicinamento di Rikyu ai Tokugawa fosse visto come un tentativo di tradimento. Toyotomi non aveva tutti i torti a temere il clan rivale, se è vero che alla sua morte divennero i nuovi signori e che in seguito alla battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600) riuscirono in un'impresa, giudicata impossibile: l'unificazione del paese sotto il loro potere.
Il conflitto tra i due si acuiva e Toyotomi insisteva nella sua politica di utilizzare l'arte del tè per costruire un'estetica di corte sfarzosa e nello stesso tempo popolare. Ai suoi ricevimenti, cosiddetti chakai, partecipava un numero sempre più grande di persone. Al famoso daichakai (grande cerimonia del tè) di Kitano, furono invitati tutti quelli che coltivassero interesse per il cha no yu trasformandolo in un fenomeno di massa.
A un certo punto il conflitto giunse al suo epilogo e le personalità dei due contendenti erano troppo forti per cercare un compromesso. Toyotomi ordinò a Rikyu di eseguire il seppuku, forse sperando in un cedimento dell'altro. Ma Rikyu non era tipo da piegarsi e, dopo aver offerto a Toyotomi per l'ultima volta il tè nella sua spoglia ed essenziale chashitsu, si suicidò. Prima di morire scrisse una poesia di addio, secondo l'usanza, e incise un ultimo chashaku, il cucchiaino di bambù che si usa per preparare il tè, cui diede il nome di Namida cioè "Lacrime". Si dice che in quest'ultimo oggetto Rikyu abbia trasfuso tutta la sua forza spirituale, tutto il suo credo estetico.

Il wabi-cha

L'essenza del pensiero di Rikyu è il concetto di wabi-cha. Al sabi, cioè la patina del tempo che segna l'aspetto delle cose e allo yūgen, l'incanto sottile che non si può descrivere con le parole, tanto caro agli autori dei drammi Nō, Rikyu aggiunse questo concetto che dopo di lui diverrà il fulcro di tutta l'estetica zen.
Il wabi è la semplicità, la povertà ricercata fino a divenire estrema sintesi di ogni forma. È anche il rifiuto di qualsiasi orpello, di ogni ostentazione, che appesantisca l'espressione. Più che gli scritti di Rikyu, descrivono il concetto gli aneddoti che rappresentano assai bene il suo pensiero. Come quando, dovendo ricevere Toyotomi, eliminò tutti i fiori del giardino per lasciarne uno solo esposto nel tokonoma affinché la sua forma fosse essenziale, concettuale, archetipica. La vita stessa di Rikyu è un paradigma del wabi.
E anche la sua morte, così scarna, dignitosa, quasi disumana. Rikyu fu costretto al seppuku, al suicidio rituale, da Toyotomi e nulla fece per sottrarsi al suo destino. Protestando contro l'atto del tiranno nella forma più semplice possibile: avviandosi alla morte senza concedere nulla alla debolezza, alla fragilità umana.
Dei due fu Rikyu il vincitore: Toyotomi morì nel 1598 e nulla rimase del suo sogno egemonico. Due successive spedizioni in Corea ebbero esito catastrofico. Il clan Tokugawa riunificò il Giappone ponendo fine all'epoca terribile delle guerre civili e iniziando una signoria destinata a durare oltre due secoli e mezzo, fino alla restaurazione imperiale Meiji. Di Rikyu e della sua filosofia è rimasta una traccia profonda sia in Giappone che in molti paesi e ancora oggi ogni giorno migliaia di suoi epigoni ripetono i gesti da lui fissati più di quattro secoli fa.

L'eredità di Rikyu

Dopo la morte del maestro non ci furono particolari atti persecutori nei confronti della sua famiglia e i suoi discendenti, con l'avvento dell'era Tokugawa, ritornarono nelle case dei Sen. I nipoti fondarono varie scuole ancora oggi esistenti. Le due principali sono l'Ura Senke ((JA) 裏千家) e l'Omote Senke ((JA) 表千家). Il nome deriva dalla posizione delle case davanti (omote) o dietro (ura) rispetto al fronte della strada. Le case sono ancora lì: in una via periferica di Kyōto, con tutto il loro contenuto di tesori sia materiali che spirituali.
Il cha no yu, un tempo corredo spirituale e di etichetta delle giovani spose giapponesi, è divenuto un fenomeno che raccoglie, nel mondo, migliaia di adepti. E il pensiero di Rikyu è ancora vivo e costituisce ancora un sostegno per i samurai di oggi. Si dice che nella sede di ogni grande multinazionale giapponese vi sia, in disparte, una chashitsu, dove i manager ritrovano l'armonia, lontani dal frastuono del mondo. L'arte è comunque assai praticata anche in occidente e molti capiscuola, in vari paesi, sono degli occidentali.



sabato 24 settembre 2016

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Il ( lett. "abilità") è una forma di teatro sorta in Giappone nel XIV secolo che presuppone una cultura abbastanza elevata per essere compreso, a differenza del kabuki che ne rappresenta la sua volgarizzazione. I testi del nō sono costruiti in modo da poter essere interpretati liberamente dallo spettatore, ciò è dovuto in parte alla peculiarità della lingua che presenta numerosi omofoni. È caratterizzato dalla lentezza, da una grazia spartana e dall'uso di maschere caratteristiche.

Storia

Si evolse, insieme alla strettamente correlata farsa kyōgen, da varie forme d'arte popolari ed aristocratiche, tra cui il dengaku, lo shirabyoshi e il gagaku. Kan'ami e suo figlio Zeami portarono il nō alla sua forma presente durante il periodo Muromachi. A sua volta il Nō influenzò successivamente altre forme d'arte teatrali come il kabuki e il butō. Durante la restaurazione Meiji il nō ed il kyōgen vennero riconosciuti ufficialmente come due delle tre forme teatrali tradizionali.
Inizialmente faceva parte, insieme al kyōgen, di una forma drammatica nota come sarugaku. Mentre il nō era centrato sulla danza e sul canto il kyōgen era soprattutto basato sui dialoghi e sull'improvvisazione che seguiva canovacci predeterminati. In realtà, Zeami utilizza i termini "nō" e "sarugaku" indistintamente. Egli stesso ha creato l'etimologia della parola sarugaku. Per "saru" egli non utilizza il kanji tradizionale di scimmia, ma usa quello di scimmia dello zodiaco. Quest'ultimo tra l'altro, è presente anche nella parola "kami" che significa Dio e che ritroviamo anche in "kagura". Il secondo kanji è quello che si legge "gaku" in "sarugaku", e quindi il sarugaku può essere inteso come parte del kagura. Infine, i due caratteri che compongono la parola "sarugaku", possono anche essere letti come "tanoshimi wo mōsu", cioè "comunicare la gioia".
A partire dal XVI secolo i due generi si diversificarono. Il nō veniva recitato da attori in maschera ed era basato su testi scritti. I primi risalgono al XV secolo ma la maggior parte fu composta nel XVI. Il Kyōgen invece continuava a basarsi in gran parte sull'improvvisazione. I personaggi principali di un nō sono esseri soprannaturali (divinità, spiriti) oppure personaggi storici o leggendari. Anche in questo si differenziava dal kyōgen i cui protagonisti erano gente comune.
Il primo autore di nō fu Kan'ami Kiyotsugu (1334-1384). Insieme a suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1443) e al nipote Motomasa Jūrō (1394-1431) formano la triade della scuola Kanze. Zeami è forse l'autore più importante di ogni epoca con all'attivo oltre duecento opere, che vengono tuttora messe in scena, e molti scritti sul teatro e sull'esecuzione delle opere.
Va comunque considerato che il nō è una forma teatrale antica tuttora in vita, caso piuttosto raro, e che anche in tempi moderni ci sono stati autori che hanno scritto per questo genere. Uno fra tutti Yukio Mishima (Kindai nogaku shu, Cinque nō moderni, 1956).
L'okina o kamiuta è una forma di rappresentazione unica che combina la danza con rituali shintoisti. Viene considerata la più antica rappresentazione nō.
L''Heike monogatari, un racconto medievale dell'ascesa e della caduta del clan Taira, cantata originariamente da monaci ciechi che si accompagnavano con il biwa, è un'importante fonte di materiale per il nō (e per successive forme teatrali), particolarmente per rappresentazioni di guerrieri. Un'altra fonte importante è il Genji monogatari, un lavoro dell'XI secolo, definito a volte il primo romanzo del mondo. Gli autori si ispirarono anche a classici del periodo Nara e del periodo Heian ed a fonti cinesi.
Al giorno d'oggi ci sono in Giappone circa 1500 attori professionisti di nō e la forma d'arte continua ad esistere. Le cinque scuole esistenti di nō sono la Kanze (観世), la Hosho (宝生), la Komparu (金春), la Kita (喜多) la Kongo (金剛). Ognuna ha a capo una famiglia conosciuta come sō-ke e solo il capofamiglia di questa ha il diritto di creare nuove rappresentazioni o modificare quelle esistenti. La società degli attori nō è ancora abbastanza feudale e protegge strettamente le tradizioni dei propri antenati.
Secondo Zeami (attore e autore di questa forma d'arte nel XIV secolo) tutte le rappresentazioni nō dovrebbero creare un ideale estetico chiamato yugen, che significa uno spirito profondo e sottile e di hana, che significa novità. Il nō rappresenta davvero la cultura giapponese di ricercare la bellezza nella sottigliezza e nella formalità.

Caratteristiche

La scena

Palco di un teatro nō
  1. 1: Kagami-no-ma (Stanza degli specchi)
  2. 2: Hashigakari (Ponte)
  3. 3: Palcoscenico
  4. 4-7: Quattro colonne chiamate rispettivamente Metsuke-Bashira, Shite-Bashira, Fue-Bashira e Waki-Bashira.
  5. 8: Jiutai-za. Jiutai (i componenti del coro) siedono qui.
  6. 9: I suonatori siedono qui. Dalla sinistra verso destra: Kue-za (suonatore di flauto traverso chiamato No-kan), Kotsuzumi-za (un piccolo tamburo), Ohtsuzumi-za (un tamburo di medie dimensioni) e occasionalmente Taiko-za (un largo tamburo).
  7. 10: kohken-za (suggeritore)
  8. 11: Kyogen-za (Kyogen-shi, un attore comico, appare in alcune opere)
  9. 12: Kizahashi (scalini)
  10. 13: Shirazu (sabbia bianca)
  11. 14-16: Pini (Rispettivamente il primo, secondo e il terzo)
  12. 17: Gakuya (Backstage)
  13. 18: Makuguchi (L'entrata principale al palcoscenico. Kagamino-ma e Hashigakari sono circondate da una tenda chiamata Agemaku. Agemaku è colorata in tre o cinque colori. Gli attori e i suonatori passano attraverso questa entrata.)
  14. 19: Kirido-guchi. Entrata per le cantanti del coro (Jiutai) e gli assistenti di scena (Kohken).
  15. 20: Kagami-ita. Il disegno di un rigoglioso pino verde, nello stile della scuola Kano
La scena è molto semplice e ridotta anch'essa all'essenziale. La rappresentazione Nō ha luogo su un palco fatto di Hinoki (cipresso giapponese). Il palcoscenico è completamente vuoto a parte il "kagami-ita", un dipinto di un pino, realizzato su un pannello di legno, posto sul fondo del palco. Ci sono molte spiegazioni possibili per la scelta di questo albero, ma una tra le più comuni è che simboleggia il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra, secondo il rituale shintoista.
In contrasto con il palco completamente disadorno, i costumi sono estremamente ricchi: Molti attori, in particolari quelli Shite, sono vestiti con abiti di broccato di seta.
Gli attori, per salire alla ribalta, percorrono una passerella posta a sinistra del palcoscenico detta Hashigakari. Questa soluzione fu poi trasposta nel Kabuki, dove viene denominata Hanamichi, cioè ponte dei fiori.
Il butai, cioè lo spazio scenico, viene considerato come un mondo intermedio in cui si incontrano il mondo divino e quello umano. Ciò è dimostrato dalla sua stessa struttura architettonica che ha valenze cosmologiche: il tetto che lo ricopre lo definisce in quanto spazio sacro, e i pilastri che lo sostengono sono considerati tramiti tra il mondo umano e il mondo sovrannaturale. L'honbutai, cioè la parte centrale dello spazio scenico è collegato alla camera dello specchio (kagami no ma) da un corridoio detto hashigakari. L'hashigakari si immette nella kagami no ma da occidente, così come a occidente, nell'immaginario comune, si trova il paradiso della Terra Pura buddhista. Infine il ponte presente sul palcoscenic può essere considerato come il tramite tra il nostro mondo, rappresentato dal palco, e l'altro mondo, rappresentato dalla camera dello specchio.



Gli attori

Nel nō i movimenti degli attori sono estremamente stilizzati e ridotti all'essenziale. Piccoli cenni del capo o movimenti del corpo hanno significati ben precisi. I ruoli sono fissi: esistono quattro tipi principali di attori: shite, waki (comprimario), kyogen, e hayashi.
  • Gli Shite sono gli attori più comuni, recitano molti ruoli tra cui:
    • "Shite" (primo attore)
    • "Tsure" (compagno dello shite)
    • "Jiutai" (coro, solitamente di 6-8 membri)
    • "Koken" (assistenti di scena, di solito 2-3 attori).
  • I kyogen rappresentano alcuni interludi durante le rappresentazioni.
  • Gli "hayashi" sono i musicisti che suonano i quattro strumenti del teatro nō.
Una tipica rappresentazione del nō vedrà in scena tutte le categorie di attori e solitamente dura dai 30 ai 120 minuti. Il repertorio del nō conta circa 250 rappresentazioni suddivisibili in cinque categorie (organizzate in base al tema principale):
  • 1ª Categoria: Rappresentazioni sulle divinità.
  • 2ª Categoria: Rappresentazioni sui guerrieri.
  • 3ª Categoria: Rappresentazioni sulle donne.
  • 4ª Categoria: Rappresentazioni varie.
  • 5ª Categoria: Rappresentazioni sui demoni.



La musica

La musica di accompagnamento è eseguita con strumenti a fiato (fue, flauto) e a percussione (ōtsuzumi, kotsuzumi, tamburi).
Il nō è cantato, per questa ragione, molte persone tendono pensare al nō come ad una forma di opera giapponese. Ciò nonostante, il canto nel teatro nō sfrutta una scala tonale limitata e presenta lunghi passaggi ripetitivi. La chiarezza e la melodia non rappresentano l'obiettivo del canto nel teatro Nō benché i testi siano poetici e le strofe riprendano pesantemente il tipico ritmo giapponese sette-cinque, familiare a chi conosce i waka o i più recenti haiku. Il canto del Nō nonostante sia povero di espressioni risulta pregno di allusioni. In realtà la musica nō e il kakegoe (lo strano suono gutturale delle voci dei percussionisti) sono state ricalcate dai rituali sciamanici. I tamburi sono tradizionalmente strumenti giapponesi per indurre la trance, il flauto è uno strumento per evocare la discesa degli spiriti, e i kakegoe sono parte dell'invito agli dei a manifestarsi.

L'uso delle maschere

Lo shite recita in maschera il che ovviamente toglie ogni possibilità di esprimersi con la mimica facciale. Però la grande abilità degli attori produce quasi espressività della maschera anche grazie al fatto che quest'ultima è scolpita in modo tale che a secondo dell'orientamento e della diversa incidenza della luce si producano mutamenti espressivi. Poiché i buchi posti all'altezza degli occhi sono di ridottissime dimensioni, per aumentare ulteriormente l'espressività, gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Tutte le maschere del teatro nō (能面 nō-men o omote) hanno un nome.
Di solito solo lo shite, l'attore principale, porta la maschera. Può comunque accadere, che in alcuni casi, anche gli tsure possano indossare una maschera, in particolare per i personaggi femminili. Le maschere Nō sono di solito ritratti di personaggi femminili o non umani (divinità, demoni o animali), ci sono comunque anche maschere rappresentanti ragazzi o vecchi. Gli attori senza maschera hanno sempre un ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant'anni. Anche il comprimario waki non indossa maschere.
Usata da un attore capace la maschera è in grado di mostrare differenti espressioni e sentimenti a seconda della posizione della testa dell'attore e dell'illuminazione. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste o una grande varietà di altre espressioni. Studi condotti da Michael J. Lyons della ATR Intelligent Robotics and Communication Labs a Kyōto, Giappone e Ruth Campbell della Università di Londra, hanno esplorato questa particolare caratteristica delle maschere.
La maschera inoltre, ha una funzione mediatrice cioè può incarnare entità superiori e costituire quindi un punto di incontro tra il tempo mitico e il tempo storico. Essa ha anche la funzione di richiamare i morti sulla terra: indossando la maschera del defunto, l'attore ne incarna lo spirito. Ecco perché qualsiasi spettacolo è preceduto da una sorta di venerazione nei confronti della maschera: in questo modo l'attore pensa che potrà incarnare al meglio il personaggio. Nei drammi più antichi le maschere erano addirittura considerate delle divinità, ecco perché ogni spettacolo era preceduto da preghiere rivolte a tali divinità.



Famosi drammi nō

(Le categorie sono della scuola Kanze)
  • Aoi no uye -- "Court Lady Aoi" (Categoria 4)
  • Dojoji -- "Dojoji" (Categoria 4)
  • Hagoromo -- "Il mantello di piume" (Categoria 3)
  • Izutsu -- "The Well Cradle" (Categoria 3)
  • Matsukaze -- "Pining Wind" (Categoria 3)
  • Sekidera Komachi -- Komachi a Sekidera (Categoria 3)
  • Shakkyo -- "Il ponte di pietra" (Categoria 5)
  • Shojo -- "L'Elfo che beve" (Categoria 3)
  • Yorimasa -- "Yorimasa" (Categoria 2)
  • Yuya -- "Yuya" (Categoria 3)






venerdì 23 settembre 2016

Go-kyō-no-waza

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Il Go-kyō-no-waza (五教の技, le tecniche dei cinque gruppi), o anche più comunemente solo gokyō, è il principale metodo di insegnamento delle tecniche classiche del jūdō.
Creato dal Prof. Jigorō Kanō pochi anni dopo la fondazione del Kōdōkan, è stato successivamente perfezionato fino all'ottenimento dell'attuale sistema, risalente al 1920.
Tale metodo si basa sulla classificazione delle 40 principali nage-waza (tecniche di proiezione) in cinque gruppi di difficoltà crescente sia per complessità esecutiva che per i principî esplicitati.
In Italia, come in molte altre nazioni, il gokyō è parte fondamentale degli esami di graduazione da 5° a 1º kyū e la sua completa conoscenza è indispensabile per qualunque jūdōka, infatti il Prof. Kanō selezionò (principalmente ma non esclusivamente) dal jū-jutsu della Kitō ryū quelle tecniche che meglio rispondevano ai suoi criteri educativi e che non presentavano pericoli per i praticanti. È fondamentalmente una progressione didattica, un programma scolastico.
L'insieme del go-kyō-no-waza (revisione del 1920), habukareta-waza e shinmeishō-no-waza, costituisce la lista dei 67 nage-waza ufficiali, riconosciuti dal Kōdōkan e dall'IJF. Tali tecniche non costituiscono più una progressione didattica ma una Classificazione, suddivisa secondo gli stessi principi biomeccanici presenti nel Nage-no-kata (te-waza; koshi-waza; ashi-waza; ma-mae-sutemi-waza; yoko-sutemi-waza).

Go-kyō-no-waza del 1920 (Shin-go-kyo)

Dai Ikkyō

(Primo gruppo, 5º kyū)
  1. De Ashi Barai
  2. Hiza Guruma (膝車)
  3. Sasae Tsurikomi Ashi
  4. Uki Goshi
  5. Ō Soto Gari
  6. Ō Goshi
  7. Ō Uchi Gari
  8. Seoi Nage



Dai Nikyō

(Secondo gruppo, 4º kyū)
  1. Ko Soto Gari
  2. Ko Uchi Gari
  3. Koshi Guruma
  4. Tsurikomi Goshi
  5. Okuri Ashi Barai
  6. Tai Otoshi (体落)
  7. Harai Goshi
  8. Uchi Mata (内股)

Dai Sankyō

(Terzo gruppo, 3º kyū)
  1. Ko Soto Gake
  2. Tsuri Goshi
  3. Yoko Otoshi
  4. Ashi Guruma (足車)
  5. Hane Goshi
  6. Harai Tsurikomi Ashi
  7. Tomoe Nage
  8. Kata Guruma



Dai Yonkyō

(Quarto gruppo, 2º kyū)
  1. Sumi Gaeshi
  2. Tani Otoshi
  3. Hane Makikomi
  4. Sukui Nage
  5. Utsuri Goshi
  6. Ō Guruma
  7. Soto Makikomi
  8. Uki Otoshi

Dai Gokyō

(Quinto gruppo, 1º kyū)
  1. Ō Soto Guruma
  2. Uki Waza
  3. Yoko Wakare
  4. Yoko Guruma
  5. Ushiro Goshi
  6. Ura Nage
  7. Sumi Otoshi (隅落)
  8. Yoko Gake



Habukareta waza (tecniche escluse)

Le seguenti sono tecniche di proiezione addizionali, escluse dall'ultima formulazione del gokyō ma presenti nel gokyō del 1895:
  1. Obi Otoshi
  2. Seoi Otoshi
  3. Yama Arashi
  4. Ō Soto Otoshi
  5. Daki Wakare
  6. Hikkomi Gaeshi
  7. Tawara Gaeshi
  8. Uchi Makikomi

Shinmeishō-no-waza (tecniche di nuova denominazione)

Le seguenti sono tecniche aggiunte successivamente dal Kōdōkan Jūdō Institute a seguito degli studi della Commissione di Ricerca oppure perché di uso comune nello shiai, ovvero nella competizione agonistica:
  1. Morote Gari
  2. Kuchiki Taoshi
  3. Kibisu Gaeshi
  4. Uchi Mata Sukashi
  5. Daki Age
  6. Tsubame Gaeshi
  7. Ko Uchi Gaeshi
  8. Ō Uchi Gaeshi
  9. Ō Soto Gaeshi
  10. Harai Goshi Gaeshi
  11. Uchi Mata Gaeshi
  12. Hane Goshi Gaeshi
  13. Kani Basami
  14. Ō Soto Makikomi
  15. Kawazu Gake
  16. Harai Makikomi
  17. Uchi Mata Makikomi
  18. Sode Tsurikomi Goshi
  19. Ippon Seoi Nage

Gokyo-no-waza del 1895 (Kyu-go-kyo)

Dai Ikkyō

  1. Hiza Guruma
  2. Sasae Tsurikomi Ashi
  3. Uki Goshi
  4. Tai Otoshi
  5. Ō Soto Gari
  6. De Ashi Barai
  7. Yoko Otoshi

Dai Nikkyō

  1. Sumi Gaeshi
  2. Ō Goshi
  3. Ko Soto Gari
  4. Koshi Guruma
  5. Seoi Nage
  6. Tomoe Nage
  7. Tani Otoshi

Dai Sankyō

  1. Okuri Ashi Barai
  2. Harai Goshi
  3. Ushiro Goshi
  4. Ura Nage
  5. Uchi Mata
  6. Obi Otoshi
  7. Hane Goshi

Dai Yonkyō

  1. Uki Otoshi
  2. Uki Waza
  3. Daki Wakare
  4. Kata Guruma
  5. Hikkomi Gaeshi
  6. Soto Makikomi
  7. Tsuri Goshi
  8. Utsuri Goshi
  9. Ō Soto Otoshi
  10. Tawara Gaeshi

Dai Gokyō

  1. Yoko Guruma
  2. Yoko Wakare
  3. Uchi Makikomi
  4. Ko Uchi Gari
  5. Ashi Guruma
  6. Seoi Otoshi
  7. Yoko Gake
  8. Harai Tsurikomi Ashi
  9. Yama Arashi
  10. Ō Soto Guruma
  11. Tsurikomi Goshi




giovedì 22 settembre 2016

Haidate

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Haidate (佩楯) era il cosciale tipico dell'armatura giapponese, da agganciarsi sotto alla corazza () e ad essa non direttamente interconnesso (come invece valeva per il cosciale dell'armatura a piastre europea).
Consisteva di un grembiule formato da grossi pezzi rettangolari che, come lo spallaccio (sode), erano realizzati da lamine kozane di cuoio e/o ferro (più raramente, osso di balena) congiunte da rivetti e lacci. Per tramite di apposite corde (tsubo-no-o), veniva legato dal bushi sul ventre, intorno alla cintura.
I guerrieri giapponesi utilizzavano anche altre tipologie di cosciale, avvolgenti l'arto, più simili ai cosciali delle armature europee moderne:
  • ita-haidate - cosciali composti da lamine metalliche allacciate con cingoli di cuoio e fissate ad una pesante fodera di seta/cuoio; e
  • igo-haidate - cosciali composti da piccole lamine metalliche cucite su di una fodera di stoffa, preferite dai cavalieri perché "più flessibili del solito tipo".

mercoledì 21 settembre 2016

Chigiriki

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Il Chigiriki o Chigirichi è un'arma giapponese costituita da un bastone della lunghezza di circa 60 centimetri, munito di una catena della stessa lunghezza montata ad un'estremità; tale catena termina con una palla o cilindro di legno chiodato.
È simile al mazzafrusto della tradizione occidentale.

martedì 20 settembre 2016

Alalà

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Alalà (in greco: Ἀλαλά) è una divinità femminile minore della mitologia greca, personificazione del grido di battaglia degli opliti. Il suo nome deriva dal greco Αλαλος, con il significato di "muta".

Antica Grecia

Figlia di Polemos, Alalà accompagnava in battaglia il dio della guerra Ares: secondo le tradizioni degli Antichi, il grido di battaglia del Dio greco consisteva infatti nel suo nome "Alale alala".
I soldati greci lo fecero quindi proprio e presero anch'essi l'abitudine di usarlo durante i combattimenti.
Si crede che l'uso di questa parola sia derivato per onomatopea dall'inquietante gracchiare emesso dai corvi che, all'epoca, sorvolavano a migliaia i campi di battaglia, per cibarsi dei cadaveri insepolti.
Adottata per calco linguistico come grido di guerra nel Medioevo, soprattutto dai Crociati, "Alalà" riaffiorò nei componimenti poetici di Giosué Carducci e Giovanni Pascoli, sul finire del XIX secolo.
«Ma s'io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,
ti getto allora un alalà di guerra, …»
(da L'Amore di Giovanni Pascoli)



Eia! Eia! Eia! Alalà!

In epoca moderna, il termine fu ripreso da Gabriele D'Annunzio per coniare il celebre incitativo "Eia! Eia! Eia! Alalà!" (o più comunemente "Eia, Eia! Alalà!") , quale grido di esultanza degli aviatori italiani che parteciparono all'incursione aerea su Pola del 9 agosto 1917, durante la Prima guerra mondiale. Se "Alalà!" era l'urlo di guerra greco, "Eia!" era il grido con cui, secondo una tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo.
In seguito, l'esclamazione fu inserita ne La canzone del Quarnaro che racconta l'avventura della Beffa di Buccari; raid dimostrativo portato a termine dagli incursori della Regia Marina l'11 febbraio 1918.

«Siamo trenta d’una sorte,
e trentuno con la morte.
EIA, l’ultima!
Alalà!»
(da La canzone del Quarnaro di Gabriele D'Annunzio)



Il motto venne poi usato anche dai soldati italiani ribelli che seguirono D'Annunzio nell'Impresa di Fiume del 1919 e divenne popolare in tutta Italia quando fu adottato dal Fascismo, quale grido collettivo d'esultanza o incitamento. Nonostante la diffusione nazionale, il motto declinò rapidamente dopo la caduta del fascismo, essendovi per la cultura di massa indissolubilmente legato. Oggi viene usato soltanto in ambiti legati al neofascismo.

lunedì 19 settembre 2016

Annen

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Annen (安然; 841 – 915) è stato un importante monaco buddhista giapponese appartenente alla scuola Tendai, vissuto nella prima parte dell'era Heian.
Tra i suoi titoli postumi si ricordano Godai'in Ajari (五大院阿闍梨), Akaku Daishi (阿覚大師) Fukushū e Shinnyo Kongō (福集, 真如金剛). Nacque ad Ōmi, non lontano dall'odierna Kyōto ma l'origine della sua famiglia non è nota, sebbene si tramanda fosse un discendente dello stesso Saichō (最澄). Allievo di Ennin, dopo la morte di costui divenne discepolo del monaco Henjō (遍照). Oltre ad approfondire lo studio delle due fonti principali del Tendai, cioè il mahāyāna (顕教) e il mantrayāna (密教), si dedicò allo studio della Regola (vinaya) e delle basi della scrittura sanscrita (shittan, 悉曇) disciplina in cui divenne uno dei più grandi esperti della sua epoca. Nell'anno 877 (primo anno di gen'ei, 元慶) dovette rinunciare ad un viaggio di studio in Cina ma nell'884 ottenne il titolo di Ajari e divenne abate del tempio Gen'eiji (元慶寺). Negli ultimi anni fece costruire sul monte Hieizan il padiglione Godai'in (五大院) e si dedicò esclusivamente agli studi. In particolare si deve ad Annen l'importanza attribuita alle dottrine del sūtra Dainichikyō (大日経, sanscrito Mahāvairocanasūtra) nel Tendai ed è per questo considerato il principale fondatore della corrente Taimitsu (台密).

domenica 18 settembre 2016

Sasaki Kojirō

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Sasaki Kojirō (佐々木 小次郎), noto come Sasaki Ganryū, (prefettura di Fukui, 1583 circa – Ganryū-jima, 13 aprile 1612) è stato un importante spadaccino giapponese.
Vissuto a cavallo dell'epoca Sengoku e l'inizio del periodo Edo, è principalmente ricordato per le circostanze della sua morte, avvenuta nel 1612 nel corso di un duello con Miyamoto Musashi.

Biografia

Nato in un villaggio appartenente alla provincia Echizen, da giovane Kojirō incontra Toda Seigen, istruttore di arti marziali del clan Asakura, che lo prende come suo allievo, riconoscendo le sue abilità come spadaccino. Durante l'addestramento si discosta dallo stile di Seigen, che predilige il kodachi, e sviluppa una tecnica che fa uso di ōdachi denominata Ganryū (letteralmente "Stile della Roccia"). La sua lunga katana prende il nome di Monohoshi Zao. Grazie ad essa sviluppa una tecnica, denominata Tsubame-Gaeshi (letteralmente "Contrattacco della Rondine"), ispirata al volo dell'uccello. Si distingue inoltre per indossare un haori di colore rosso.
Nel 1610 giunge a Kokura dove ottiene il permesso di Hosokawa Tadatoshi, futuro signore della città, di aprire un dojo. Divenuto popolare, la sua fama inizia ad attrarre l'interesse di numerosi studenti di arti marziali, incluso Miyamoto Musashi, uno spadaccino ventinovenne che nell'aprile del 1612 lo sfida formalmente a duello.
Il duello tra Musashi e Kojirō è oggetto di numerose leggende. Nonostante le diverse descrizioni differiscano nel dettaglio, l'esito dei racconti si conclude con la vittoria di Musashi. Lo scontro fu fissato il 13 aprile 1612 su una piccola isola a pochi chilometri da Kokura, chiamata in modo differente dai nativi del luogo, e doveva tenersi tra le 7 e 9 ante meridiem. Prima di recarsi nel luogo del duello, Musashi costruì un bokken utilizzando un remo e si presentò con oltre tre ore di ritardo (tra le 9 e le 11) davanti il suo avversario. Vedendolo arrivare in ritardo, Kojirō imprecò furiosamente contro di lui, estrasse la sua spada, lanciando rabbiosamente il fodero in acqua. Con la sua spada di legno Musashi uccise Kojirō con un colpo ben assestato alla testa, prima che lo sfidante potesse usare la sua tecnica.
Varie ipotesi sono state proposte per spiegare la vittoria di Miyamoto Musashi: si sostiene infatti che si sia presentato in ritardo di proposito al fine di fiaccare psicologicamente l'avversario, facendolo innervosire. Mentre il suo avversario attendeva sotto il sole il suo arrivo, arrabbiandosi e perdendo la concentrazione, Musashi si riposava in barca in attesa dell'incontro. Questa tattica era stata già utilizzata in precedenza, come ad esempio durante la sua serie di duelli con i fratelli Yoshioka. Anche un abbigliamento poco curato e la sua spada di legno hanno contribuito ad aumentare il risentimento in Kojirō.
Alcune teorie sostengono che Musashi abbia protratto in avanti l'ora dell'incontro per sfruttare l'effetto della luce solare (per accecare l'avversario) o delle maree (per agevolare la sua eventuale fuga sfruttando la bassa marea). Sebbene Sasaki Kojirō viene spesso descritto come sordo da un orecchio, è molto probabile che vinse sfruttando la maggior lunghezza del suo bokken rispetto alla spada di Kojirō.
Nonostante la sconfitta, l'isola dove si tenne il duello venne ribattezzata Ganryū-jima in onore di Sasaki Kojirō.

Nella cultura di massa

Copertina di Miyamoto Musashi kanketsuhen: kettō Ganryūjima (1956) di Hiroshi Inagaki, terzo titolo della trilogia adattata da Musashi. Nel film Kojirō è interpretato da Kōji Tsuruta.
Numerosi lungometraggi hanno raccontato la storia del duello tra Sasaki Kojirō e Miyamoto Musashi. In particolare il film del 1955 Zoku Miyamoto Musashi: ichijoji no ketto di Hiroshi Inagaki, seguito di Miyamoto Musashi (1954), basato sul romanzo Musashi di Eiji Yoshikawa e che ha ricevuto l'Oscar al miglior film straniero.
Kojirō Sasaki è uno dei personaggi giocanti del videogioco Samurai Warriors. Un personaggio omonimo è inoltre presente nel manga Vagabond. Nella visual novel Fate/stay night il personaggio di Assassin è basato su Kojirō: possiede una nodachi e utilizza la medesima tecnica.
Nel franchise Pokémon Jessie e James del Team Rocket in lingua originale sono noti come Musashi e Kojirō, dal nome dei due samurai. Nel videogioco è inoltre presente la mossa Aeroassalto (つばめがえし Tsubamegaeshi?). La celebre tecnica di Sasaki Kojirō compare inoltre come attacco in alcuni titoli della serie Final Fantasy.