Per i 67 anni compiuti il 9 febbraio
2019 da Vito Antuofermo, vi riproponiamo l’intervista che ci
rilasciò nella sua Brooklyn. Una lunga chiacchierata nella quale la
leggenda della boxe ci ha riportato indietro, nell’America di quel
tempo in cui Vito divenne simbolo degli immigrati italiani negli
Stati Uniti.
Esistono pugili, ma si potrebbe
dire uomini, che una volta raggiunto il successo dimenticano
all’improvviso le loro origini, e altri che continuano a
lottare con dignità,
schivando e incassando i colpi del fato per ripartire al contrattacco
appena si apre uno spiraglio. Sarebbe stato sufficiente vedere
combattere Vito Antuofermo
anche solo una volta per capire di
quale categoria facesse parte. Incassava senza arretrare, ogni
incontro si trasformava in una battaglia epica in cui il campione
della
working class
italo-americana tramutava la sua
“fame”
in ardore e audacia. Nato nel 1953
a
Palo del Colle (Bari),
Antuofermo emigra con la famiglia a
New York
negli
anni ’60
per cercare fortuna negli Stati
Uniti e nel
1979
conquista il
titolo di campione del
mondo dei pesi medi. Quello che sorprende non è solo la sua
carriera costellata di combattimenti memorabili, ma la semplicità
con la quale ha affrontato la vita una volta appesi i guantoni al
chiodo. Quando i riflettori si spengono e il telefono smette di
squillare, la quotidianità può diventare drammatica per chi ha
raggiunto l’apice; questo ad un
fighter
come Vito,
“the champ”
come lo chiamano ancora gli amici,
non è accaduto. Lo incontro nella sua
Brooklyn
e parliamo di boxe, di pugili, di
imprese leggendarie ma anche di cinema e di storie di vita.
In Italia ti ricordano sempre con
simpatia, forse anche per il tuo modo di combattere impetuoso e
trascinante.
Avevo uno stile semplice,
come il mio carattere.
Quando sei arrivato a New York?
Arrivai nel 1968 con mio
fratello e mia madre. Mio padre, un fratello di dieci anni più
piccolo di me e due sorelle rimasero in Italia; avevo anche una nonna
di novanta anni. Quando quest’ultima si ammalò, mia madre tornò
in Italia ma dopo poco mia nonna morì. A quel punto mia madre venne
in America con tutti gli altri miei fratelli. Mio padre invece ebbe
problemi con il passaporto per motivi politici, era un comunista e fu
anche arrestato per un paio di giorni in Italia. Poi glielo diedero e
venne anche lui.
Perché avete deciso di venire in
America?
In quel periodo in Italia non ce la
passavamo bene.
Come ti sei avvicinato alla boxe?
Era il
1969.
Stavo andando al mare con la
bicicletta insieme ad un amico, come facevamo spesso. Quel giorno
c’era molto traffico e decidemmo di tornare indietro. Indossavo una
maglietta aderente e avevo i muscoli in vista.
Tre afroamericani ci
affiancarono con la macchina e mi dissero che i miei muscoli erano
“shit”
(merda ndr). Io non conoscevo
bene l’inglese e chiesi al mio amico cosa ci stessero dicendo ma
lui aveva paura e non mi disse niente. Nel traffico continuavano a
venirci dietro e ad un certo punto uno di loro ci fece vedere un
coltello. Il mio amico andò di corsa a chiamare un poliziotto
italiano che conoscevamo ma quando tornarono io già ne
avevo steso uno.
Poi arrivò la polizia, ci
fermò e ci portò via in macchina. Accanto all’ufficio di polizia
c’era la
PAL (Police Athletic
League), i poliziotti non ci arrestarono ma ci portarono
in palestra e ci dissero che se ci piaceva fare a botte
potevamo andare alla palestra della polizia
e combattere lì. C’era una
stanza piccola con
un ring a 20 cm dal muro.
Un poliziotto chiamò
l’allenatore di pugilato, era un italiano e si chiamava
Joe LaGuardia,
e quest’ultimo mi chiese se volevo boxare. Io risposi di sì ma
sapevo solo fare a botte per strada, tirare pugni, “dare le
stoppate”. Mi mise sul ring con un afroamericano che aveva più
esperienza di me e me le diede. LaGuardia si rese subito conto che
ci mettevo il cuore ma che
non avevo esperienza e mi disse:
“voglio vedere se torni
domani”. Tornai il giorno dopo perché volevo imparare a boxare e
per avere la rivincita su quel pugile afroamericano. I tre ragazzi
con i quali avevo discusso invece non tornarono mai più in palestra,
perché gliene avevo già date abbastanza (sorridendo ndr). Una
settimana dopo LaGuardia mi disse se volevo fare un
incontro a Manhattan.
Accettai e vinsi, quello fu
il mio primo vero incontro. Era il settembre del 1969.
I primi anni ti sei allenato lì?
Sì i primi due anni mi allenai lì
con Joe. Nel
gennaio del 1970,
dopo circa tre mesi, mi iscrissi al torneo dilettantistico del
Golden Gloves
(guanti d’oro ndr) e vinsi
nella categoria welter
dopo aver messo KO sei
pugili. È un torneo molto prestigioso. Quando andai a registrarmi
volevo iscrivermi nella categoria dei pesi medi; avevo visto
combattere Benvenuti
e volevo fare la sua stessa
categoria nonostante pesassi 150 libbre (circa 68kg ndr).
L’allenatore addirittura voleva farmi combattere come peso leggero
ma gli dissi di no. Nel 1971 arrivai di nuovo in finale del Golden
Gloves ma persi contro Eddie Gregory. Una sera
dello stesso anno andai a vedere un incontro tra professionisti.
Arrivai presto e a volte, quando erano previsti più incontri, poteva
capitare che qualche pugile non si presentasse. Quella sera mancava
un pugile ed una persona che mi conosceva mi chiese se volessi
combattere. “Guadagni dei soldi” mi disse. Io chiesi quanto fosse
il compenso perché in quel periodo non stavo lavorando. “400
dollari per 4 rounds”.
Accettai e da quel momento
diventai professionista.
Vinsi quell’incontro contro
Ivelaw Eastman
ma nessuno mi informò che
una volta diventato professionista non avrei più potuto combattere
come dilettante e così saltai le Olimpiadi di Monaco nel
1972.
Dalle Olimpiadi infatti sono
esclusi i professionisti.
Quando hai iniziato a combattere
c’era qualche pugile al quale ti ispiravi?
Nino Benvenuti.
Fece tre incontri contro
Griffith
ed il terzo incontro lo vidi
al Madison Square Garden; in quel periodo ancora non avevo iniziato
ad allenarmi.
Ti ispiravi a Benvenuti ma i vostri
stili erano molto diversi.
Sì mi ispiravo a lui
perché ero italiano.
Mi ricordo quando
vinse il titolo nel 1967
contro Griffith, ero ancora in Italia e da noi era notte,
scappai di casa per andare a sentire l’incontro con gli amici. Fu
il primo incontro che seguii. I miei pensavano che stessi dormendo.
Nel
1974
ebbi l’occasione di
battermi con Griffith che ammiravo. Quando salii sul ring, in un
attimo mi ricordai dell’incontro con Benvenuti, stavo per
combattere con un mio idolo. Mi tornò in mente tutto insieme prima
del combattimento, un misto di paura e di meraviglia. Quella sera
vinsi nettamente (ai punti ndr).
Nel 1976 hai conquistato il titolo
europeo dei superwelter.
Sì sconfissi in Germania il tedesco
Eckart Dagge,
che pochi mesi dopo
diventò campione del
mondo.
Prima di quel match nel 1974
feci un incontro a New York con
John L. Sullivan
che era un pronipote del
primo campione mondiale dei pesi massimi (John Lawrence Sullivan
ndr).
Veniva
da 24 incontri vinti tutti
per KO.
Era irlandese e c’era una
certa rivalità con gli italiani. Anche io venivo da circa 20
incontri imbattuti (unica sconfitta con Harold Weston nel luglio
1973 ndr).
L’incontro era stato
molto pubblicizzato e si tenne al Madison Square Garden. Vinsi, i
giudici mi assegnarono 9 round su 10, e
la notizia arrivò anche
in Italia.
C’era un famoso promoter
italiano
Rodolfo Sabbatini
che mi mandò un
ambasciatore, così cominciai a
combattere anche in
Italia.
Nel 1975 a Napoli affrontai
il palermitano
Nino Castellini
che era campione italiano;
vinsi anche quel match.
Nel 1976 al Palazzetto dello Sport
di Roma però hai perso il titolo contro il britannico Maurice Hope.
È stato un brutto colpo?
Sì ero molto dispiaciuto, volevo
smettere.
Persi per ferita,
15 secondi prima della fine del combattimento
l’arbitro sospese il
match.
Ero in vantaggio di un punto
e se avessi perso la quindicesima ripresa saremmo stati pari. Avevo
appena 23 anni e così ricominciai ad allenarmi e vinsi un paio di
incontri per KO.
A volte perdere fa
bene.
Tra l’altro anche Hope in
seguito diventò campione del mondo battendo Rocky Mattioli.
Ricominciai e vinsi tutti gli incontri, mettevo tutti KO.
I tuoi genitori cosa pensavano del
fatto che praticassi la boxe?
Mio padre non veniva mai a
vedermi nonostante i suoi amici lo invitassero spesso.
Non voleva che combattessi.
Mi ricordo il combattimento con Sullivan al Madison Square Garden, 10
riprese, era circa il mio ventesimo incontro da professionista.
C’erano tutti
italoamericani sugli spalti.
Alla fine dell’incontro
vidi uno che saltò sul ring, i poliziotti volevano prenderlo ma lui
si buttò sul ring e mi prese in braccio. “Chi è questo qua?” mi
chiesi.
Era mio padre.
Quella sera alcuni suoi amici
erano andati a casa sua e lo avevano convinto a venire. Dopo quel
match mi seguì sempre, anche quando andai in Italia.
Nel 1979 hai avuto l’opportunità
di combattere contro Hugo Corro per il titolo mondiale dei medi. Non
ti davano molte chance.
Sì, Corro era il favorito.
L’incontro si tenne il 30 giugno del 1979 al Principato
di Monaco.
Lui era in vantaggio ai punti
fino alla settima, ottava ripresa. Il mio allenatore mi disse che
stavo perdendo e dalla nona ripresa passai al contrattacco e
vinsi il titolo mondiale.
Corro era considerato l’erede
di Monzon.
Non tirava forte come Monzon ma era
più veloce. Avrei voluto combattere contro
Monzon
perché era uno di quelli che
non scappava, Corro era più difficile perché si muoveva, era
svelto.
Io volevo incontrare i
pugili più forti del mondo.
Dopo la vittoria con Corro
potevo fare due incontri decidendo gli avversari ma in quel momento
Marvin Hagler era il favorito, il numero uno mondiale della WBC e
WBA, e dissi “andiamo”. Potevo scegliere due incontri più
semplici.
Con il titolo è arrivato anche il
successo, come lo hai affrontato?
Fu bello. Fin da quando vinsi il
Golden Gloves immaginavo che sarei diventato un campione.
Dove ti allenavi in quel periodo?
Fino al 1977 mi allenavo nel
Queens,
poi abbatterono tutto il
palazzo e andai alla Gleason’s Gym a Manhattan. A quel tempo la
palestra era un buco in una fabbrica, c’erano tre ring, poi
è diventata la più
famosa al mondo.
Durante le riprese di
Toro Scatenato (1980)
alla Gleason, Isabella
Rossellini, che all’epoca lavorava come giornalista nel programma
di Renzo Arbore ‘L’altra domenica’, voleva intervistarmi.
Rossellini poi si sposò
con Scorsese.
Conobbi anche Peter Savage,
amico di LaMotta, perché i provini per il film li fecero alla
Gleason ma io ero già troppo famoso per partecipare.
La prima sfida con “The Marvelous”
Marvin Hagler (30 novembre 1979) è stata epica.
Fu davvero un bel match ma quel
combattimento non avrei dovuto farlo.
Mi stavo allenando a Miami e
mi trasferirono a Las Vegas pochi giorni prima. Venivo dalla Florida
dove faceva molto caldo, ero vestito in pantaloncini e canottiera e
quando scesi dall’aereo, camminando sulla pista, mi accorsi che
c’era un clima umido e freddo. Era fine novembre. Quando mi
portarono in hotel per riposare
mi resi conto di essermi
raffreddato e di avere la febbre.
Prima dell’incontro feci
sparring in palestra e l’altro con cui mi allenavo mi mise sotto.
Hagler era dato vincente per 2 a 1 ma, dopo che i giornalisti mi
videro fare sparring, i bookmaker alzarono le quote a 5 a 1. Ero
svantaggiato anche se ero il campione, i giornali poi dicevano che mi
avevano regalato il titolo. Il mio manager mi chiese se volevo
combattere, io volevo farlo ad ogni costo perché Hagler
era uno che metteva tutti KO ma io ero il campione.
Sapevo che se non avessi
combattuto le persone ci sarebbero rimaste male. Avevo vinto il
titolo cinque mesi prima,
non potevo deluderli.
La schiena mi faceva male,
non potevo nemmeno alzarmi dal letto. Era la prima difesa con Hagler,
pensavo che se non avessi combattuto mi avrebbero considerato un
perdente. Avrebbero detto che avevo paura.
Mi arrabbiai con me stesso
a tal punto da non sentire più dolore.
Più mi arrabbiavo e più mi
sentivo bene, un’ora prima del combattimento mi sentivo al 100%. I
miei due manager ed il trainer non erano sicuri ma gli dissi che per
perdere mi avrebbe dovuto ammazzare.
I primi 5,6 round li persi perché
quando sei raffreddato i muscoli sono un po’ duri, quando cominciai
a sudare iniziai a sciogliermi e a sentirmi meglio. Feci 15 riprese.
Lui vinse le prime 7,8 riprese
ma le ultime 5 riprese le
vinsi tutte io nettamente.
Il verdetto di parità ti consentì
di mantenere il titolo.
Credo di
essere stato l’unico
oltre a Leonard a fare 15 riprese con Hagler, anzi Leonard
nel 1987 ne fece 12 perché nel frattempo abbassarono il limite delle
riprese. Hagler non ha fatto 15 riprese con nessuno perché metteva
tutti KO.
Credeva di aver già vinto e
quando annunciarono la mia vittoria si vedeva che era arrabbiato.
Quella sera a Las Vegas
Sugar Ray Leonard
sconfisse il portoricano Wilfred Benítez, diventando per
la prima volta
campione mondiale dei pesi
welter; fu un’incredibile serata per la boxe.
Fisicamente come ti sentivi?
Mi capitava spesso che
prima dell’incontro
uscissero dei dolori.
Anni dopo il combattimento
con Hagler mi bloccai di nuovo con la schiena, non potevo alzarmi dal
letto. Quando ricominciai a camminare mia moglie mi
convinse a frequentare una scuola serale.
Quando entrai in classe con
le stampelle, il professore, che era di pochi anni più giovane di
me, mi chiese se fossi Antuofermo l’ex campione.
Non poteva credere che
stessi in quelle cattive condizioni per un mal di schiena.
Mi diede un libro di John
Sarno sulla Tension myositis syndrome e sul
rapporto fra dolore fisico
e stato mentale.
Lessi metà libro e mi alzai
dal letto, la maggior parte dei dolori proviene dalla mente.
Pensi che Hagler sia il pugile più
forte che tu abbia incontrato?
No, il secondo. Il primo fu un
pugile di Philadelphia
che si chiamava Eugene “Cyclone” Hart.
Prima del nostro
combattimento (1977) perse un incontro proprio con Hagler.
Questo menava forte e fu
l’unico che mi fece sentire le campane.
Quella stessa sera mia moglie
ebbe la mia prima figlia ed io la salutai ai microfoni dopo la
vittoria ma credevo fosse un baby boy. Poi ho avuto tre maschi, il
secondo si chiama Vito come me. Dopo la sconfitta contro Hagler si
parlava di un possibile match contro Duran. Non so perché il mio
manager non accettò.
Duran è stato un grande
campione e all’epoca era un peso leggero.
Mi sarebbe piaciuto
combattere con lui, lo farei anche adesso (ridendo ndr). Duran era
uno che veniva incontro ed era più facile per me; io avevo problemi
con quelli che “tiravano e scappavano” come Benvenuti e Minter.
In palestra infatti mi piaceva fare sparring con i pesi massimi
perché sono un po’ più lenti.
Dopo nemmeno quattro mesi eri di
nuovo sul ring per difendere il titolo dei medi contro Alan Minter.
Sì dopo aver sconfitto Hagler mi
fecero
combattere con Minter
il 16 marzo del 1980.
Non mi diedero abbastanza
tempo per recuperare perché quello con Hagler fu un incontro duro.
Feci 15 riprese anche con Minter e credevo di aver vinto il
match ma me lo rubarono.
Portarono due giudici dal
Regno Unito, uno in realtà abitava a Las Vegas ma era inglese, e
Minter era britannico. Il terzo giudice era spagnolo e fu l’unico a
votare per me, assegnando un paio di round in meno a Minter. Io ero
un italiano in America, mi annunciavano dicendo “from
Bari Italy”, perché non portarono un giudice italiano?
Se vedi l’incontro eravamo piuttosto in parità. I giudici inglesi
invece assegnarono 13 round a Minter, 1 round pari e 1 a me. Mi
diedero un solo round su 15 riprese. Mi fregarono il titolo.
Minter era uno dei pugili più
odiati in Italia in quegli anni, anche a causa della morte di
Jacopucci.
Sì purtroppo
Jacopucci
morì in seguito all’incontro
con Minter nel 1978 ma prima di quel match fece un paio di incontri
duri in cui vinse ma prese molti colpi.
Gli sconsigliarono di
combattere e Minter lo mise KO.
Dopo l’incontro andò a
mangiare ma non si sentiva bene, lo portarono in albergo e poco dopo
morì. Spesso quando accadono queste tragedie,
la causa della morte è da
ricercare nei combattimenti precedenti.
Dopo quell’incontro
iniziarono a fare controlli approfonditi al cervello, prima ai pugili
venivano fatti solo i raggi.
Io
nel 1978 feci un
combattimento con un certo Willie Classen, un peso medio
del Porto Rico che sembrava un medio massimo. I nostri manager erano
amici e in palestra lo battevo sempre. Iniziarono a scrivere sui
giornali che avevo paura di affrontarlo; non mi piaceva quella storia
e decisi di combattere. L’incontro fu in un Madison Square Garden
pieno fino all’ultima fila; c’era anche Benítez quella sera.
Vinsi quell’incontro con molto vantaggio e, nonostante
Classen fosse imbattuto, quella sera le prese. C’erano i
portoricani ma anche gli italiani e quelli che avevano scommesso per
lui fecero un casino, tirarono sedie e bottiglie. Due settimane dopo
fece un altro incontro e andò KO per tre volte; dopo l’incontro
con Wilford Scypion (novembre 1979 ndr), che lo mise nuovamente KO,
Classen morì in ospedale. Penso che tutto sia iniziato con me.
Così a volte muoiono
i pugili.
Perché hai deciso di fare subito la
rivincita con Minter?
Non lo decisi io ma il mio manager,
non so perché.
Mi portarono in
Inghilterra ma non ero pronto. Avevo fatto 15 riprese con
Corro, poi 15 riprese con Hagler e di nuovo 15 round con Minter, mi
avevano distrutto. Dopo circa tre mesi (28
giugno 1980 ndr) facemmo l’incontro
ma ero già “squagliato'”.
Non dovevo accettare,
era troppo presto e
mentalmente non ero preparato.
Prima di partire per
l’Inghilterra mi fecero fare sparring con un pugile barese, veniva
da Giovinazzo. Mi tagliò sul sopracciglio due giorni prima del match
ma
il mio manager mi fece
combattere ugualmente.
Quando arrivai a Londra tutti
i giornalisti videro che avevo un taglio. Io non dissi niente ma
Minter lo sapeva già e quando mi colpì con il destro alla prima
ripresa usciva sangue dappertutto. Il match finì all’ottava
ripresa.
Nel giugno del 1981 hai incontrato
di nuovo Hagler che nel frattempo aveva conquistato il titolo proprio
contro Minter.
Sì il secondo incontro lo facemmo a
Boston, da dove veniva Hagler, ma il mio manager e il mio allenatore
decisero di fermare il match alla 5 ripresa. In quell’incontro
Hagler mi ruppe l’arcata
con una testata.
Quando ti tagli i medici
usano delle medicine che fermano il sangue. Nel primo incontro, i
manager di Hagler erano così sicuri di vincere che mi fecero usare
le mie medicine, lui avrebbe fatto lo stesso;
avevo 70 punti sulle
sopracciglia ma non c’era sangue.
Nel secondo incontro invece
mi dissero che avrei potuto usare solo il 5% delle medicine. Alla
seconda ripresa battemmo la testa, dopo che avevo già un taglio, e
alla terza ripresa lo fece di nuovo venendo sotto con la testa bassa.
Sospesero l’incontro.
Quante volte ti hanno ricucito le
sopracciglia?
Mi tagliavo sempre. Dopo il secondo
incontro con Hagler nel 1981, ritornai a combattere come medio junior
dopo tre anni. Trovai un dottore che mi disse che
mi tagliavo sempre
perché avevo le ossa della fronte sporgenti, feci
un’operazione in cui me le limarono. Due mesi dopo l’intervento
ero di nuovo sul ring, non gli diedi abbastanza tempo per guarire e
mi tagliai di nuovo, però vinsi l’incontro. Negli incontri
successivi
non mi tagliai più.
Molti mi sconsigliarono e il
mio manager mi lasciò quando decisi di tornare a combattere. Quando
ritorni non è mai la stessa cosa e all’epoca non volevo capire.
Molti amici mi dicevano che andavo meglio di prima e mi
incoraggiavano ad andare avanti. Nel 1985 a Montreal feci un
combattimento con il canadese Matthew Hilton.
Prima del match
conobbi un dentista che mi
convinse ad usare un paradenti che aveva brevettato e che mi avrebbe
dato più potenza.
Questo paradenti era diviso
tra sopra e sotto ed era ottimo con la bocca chiusa. All’epoca però
avevo il setto nasale deviato e dopo 3 o 4 round iniziavo a respirare
con la bocca. Stavo vincendo le prime riprese con Hilton ma poi
iniziai a respirare con la bocca e mi arrivarono due
uppercut.
Il primo mi fece saltare il
paradenti, il secondo i denti.
Due denti li trovarono
nel suo guantone e fermarono l’incontro
alla quarta ripresa, quello
fu il mio ultimo match.
Oggi i pugili diventano famosi con
molti meno incontri rispetto alla tua generazione. Il pugilato è
ancora un modo per farsi strada ed emergere?
Credo di sì. Adesso sono quasi
tutti sudamericani o dell’Europa dell’Est perché
hanno la stessa fame che
avevamo noi.
Ho sentito storie incredibili
di pugili degli anni ’50, loro avevano più fame di noi degli anni
’70. Sono un amico di
Jake
(LaMotta ndr), ho visto il
film di Scorsese
e ho letto il suo libro, era
davvero
un toro scatenato.
Ce n’erano anche altri come
lui, negli anni ’70 la situazione era già cambiata. Non
ci sono più i pugili di una volta, o meglio, sono molto rari.
Ad esempio quando vedevi
Tyson
combattere ti rendevi conto
subito che era un leone che veniva dalla foresta.
Hai sempre frequentato la comunità
italiana a New York?
Sì quasi sempre.
Quando combattevo venivano
tutti gli italoamericani.
C’era anche un giornale
italo-americano, “Il Progresso”, che
scriveva spesso di me.
Ti piace quando ti chiamano Paisà?
Sì perché vogliono essere tutti
miei paesani, anche i siciliani.
Mi chiamano tutti paesano o
campione.
Hai mai incontrato John Gotti?
Abitavamo a pochi blocchi di
distanza
ma non ci incontravamo
mai.
Ti racconto questo episodio
accaduto due o tre anni prima della sua morte (2002 ndr).
Ogni anno organizzano una
festa per la boxe al club Ring Eight
dove si ritrovano tutte le
persone che hanno fatto parte del mondo del pugilato. Ero al bancone
con altri ex pugili quando arriva Gotti con il suo seguito, era
famoso e tutti si alzano a salutarlo.
Lui mi vede e grida il
mio nome, gli vado incontro e lui mi abbraccia calorosamente mentre
ci fanno delle foto.
Il giorno dopo un giornalista
del Post mi chiama perché voleva farmi un’intervista. Ci
incontriamo in un ristorante a Manhattan, a Little Italy, e inizia a
farmi domande sulla mia carriera. Poi mi dice che
molti pugili frequentano i
mafiosi e mi domanda se ne conosco qualcuno.
Conoscevo molta gente ma non
ho mai fatto affari con loro. Mi chiede se conosco Gotti. Non mi
andava di rispondere e gli dico che abitavamo vicino e lui mi informa
che il giorno dopo sarebbe stata pubblicata una foto di noi due. Il
giorno dopo sul Post, in terza pagina, c’era questa foto a mezza
pagina con me e Gotti.
Quando hai smesso di boxare di cosa
ti sei occupato?
Non sono diventato ricco con la
boxe.
Quando smisi definitivamente
iniziai a gestire con mio fratello, che conosceva il settore, un
ristorante-pizzeria nel Queens.
Il secondo anno l’attività
cominciò ad andare male, non era una buona zona, persi dei soldi e
fui costretto a vendere. Lavorai per qualche anno come
distributore della Coca
Cola,
per la quale facevo la
pubblicità quando ancora combattevo, nel quartiere italoamericano di
Bay Ridge.
Successivamente iniziai a
lavorare al porto,
dove sono stato impiegato
fino a pochi mesi fa. Ora sono in pensione.
Hai avuto anche
una parentesi nel cinema.
Sì ho fatto un paio di film,
Il padrino III (1990), La
bomba (1999) con Gassmann e un paio di pubblicità.
Un giorno mi chiamarono degli
italiani per chiedermi se volevo andare a fare un provino ma non mi
spiegarono di cosa si trattasse; io pensavo fosse qualche manager che
voleva che tornassi a combattere. Quando arrivai all’appuntamento a
Manhattan ero un po’ contrariato perché non sapevo che fosse il
casting per Il Padrino III. Circa due mesi dopo,
alla vigilia di Natale, mi chiamarono per dirmi che avevo la parte
(guardia del corpo di Joey Zasa ndr) ma io non sapevo ancora nulla,
poi mi spiegarono tutto. Andai in Italia perché tutti gli interni li
girammo a Cinecittà. Rimasi a Roma tre mesi e conobbi
Pacino, Garcia, la
figlia di Coppola e gli altri.
Legai con Pacino anche perché
ero amico di James Caan, che all’epoca veniva ad allenarsi nella
mia stessa palestra, e lui gli aveva parlato spesso di me. Andammo a
cena insieme un paio di volte e Pacino mi venne a prendere; lui era
la star e aveva a disposizione una limousine, io invece ero in un
albergo lontano da Cinecittà. Dopo tanti anni mi piacerebbe tornare
in Italia, magari quest’estate.