sabato 12 aprile 2025

New York, 1971: L’istante in cui il genio strategico spazzò via la leggenda

JOE FRAZIER VS MUHAMMAD ALI: CHI DOMINÒ DAVVERO IL COMBATTIMENTO DEL SECOLO

Quando le luci del Madison Square Garden si accesero l’8 marzo 1971, il mondo si fermò. Non era semplicemente un incontro di pugilato: era il simbolo di uno scontro epocale tra due visioni del mondo, due caratteri inconciliabili, due eroi per milioni di persone. Da una parte Muhammad Ali, il profeta del carisma e della velocità; dall’altra Joe Frazier, l’uomo d’acciaio che veniva dalla fatica e dalla terra. Fu il primo incontro tra due campioni del mondo imbattuti, e sarebbe diventato leggenda.

Ma tra i molti momenti memorabili di quella notte, uno – preciso, chirurgico, devastante – ne incarna il cuore più profondo: la finta che Joe Frazier mise in atto nel 15° round, culminata in un gancio sinistro che rovesciò non solo l’equilibrio del match, ma l’intera narrativa dell’evento.

Molti osservatori, e anche gli stessi cronisti dell’epoca, avevano dato per scontato che Ali – con la sua danza ipnotica, le schivate millimetriche e il jab fulmineo – avrebbe avuto la meglio. Nei round centrali sembrava proprio così: Ali manovrava con eleganza, colpiva con precisione e riusciva a far sembrare pesante e prevedibile il pressing di Frazier. Ma fu un’illusione. E Frazier lo sapeva.

Nel 15° round, quando la stanchezza segnava i volti di entrambi i pugili, accadde l’impensabile. Frazier, leggendo le intenzioni di Ali con la lucidità di un maestro, abbassò appena il sinistro. Una mossa rischiosa, ma calcolata. Invitò Ali a lanciare il destro, come un toro accecato dal rosso. Ali accettò l’invito e allungò il colpo, ma era ciò che Frazier aspettava: si piegò sulle ginocchia con il tempismo di un predatore e scaraventò un gancio sinistro così violento che Ali, l’uomo che “volava come una farfalla e pungeva come un’ape”, cadde pesantemente al tappeto.

Non fu solo un colpo riuscito: fu l’incarnazione di un piano strategico. Fu la dimostrazione che la preparazione mentale, la pazienza e la consapevolezza dei propri limiti possono piegare anche un avversario tecnicamente superiore. Frazier non era più il “secondo”, lo sfidante, il braccio potente contro il cervello geniale. Quella finta lo consacrò come architetto della propria vittoria.

Eppure, la domanda rimane: chi dominò veramente quell’incontro?

In termini di punteggio, la risposta è netta: Joe Frazier vinse per decisione unanime. Dei tre giudici, due lo diedero largamente in vantaggio (9-6 e 11-4 in termini di round), e il terzo solo leggermente. Dal punto di vista dei colpi significativi, Frazier colpì di più, soprattutto con il sinistro, mentre Ali – seppure preciso – sembrava meno incisivo. Ma oltre le statistiche, fu il contesto emotivo a decretare il vero trionfatore.

Ali arrivava da un esilio di tre anni dalla boxe per il suo rifiuto di partecipare alla guerra del Vietnam. Era tornato sul ring come una leggenda vivente, ma non ancora pronto a gestire la fisicità devastante di Frazier. Joe, invece, si era allenato con feroce determinazione. Non voleva solo vincere: voleva essere riconosciuto come il legittimo campione, contro ogni narrazione, contro ogni mito.

Ali non dominò l’incontro. Fu brillante, sì, e in certi momenti sembrò sul punto di prendere il sopravvento. Ma Frazier aveva costruito la sua vittoria round dopo round, come un artigiano paziente. Lavorò al corpo, accorciò le distanze, impose il suo ritmo. Non vinse con una sola finta: la finta del 15° round fu il suggello, l’acuto finale di una sinfonia studiata e suonata con precisione brutale.

Oggi, oltre cinquant’anni dopo, quel colpo viene studiato nelle palestre, sezionato nei documentari, ammirato dagli analisti. È diventato la testimonianza di ciò che rende grande un pugile: non solo la forza, ma l’intelligenza. Non solo il talento, ma la capacità di aspettare. Non solo il colpo, ma la mente che lo guida.

Ecco perché, al di là del risultato, Joe Frazier dominò quell’incontro. Non solo perché mandò al tappeto Muhammad Ali. Ma perché lo fece nel momento in cui il mondo era convinto che non potesse più farlo. Perché pianificò quel colpo come un generale che aspetta l’errore dell’avversario. Perché dimostrò che la boxe è sì sangue e sudore, ma è soprattutto visione.

Ali avrebbe poi vinto gli altri due incontri della trilogia. Sarebbe diventato leggenda anche per la sua capacità di rialzarsi dalle sconfitte. Ma quella notte del 1971 fu di Joe Frazier. La sua finta, il suo gancio, il suo trionfo.

Un trionfo che, ancora oggi, risuona come uno dei momenti più alti della storia dello sport.



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