venerdì 25 aprile 2025

Il giorno in cui Mike Tyson incontrò il suo enigma: come Evander Holyfield decifrò il codice del più temuto dei pesi massimi

Nel vasto panorama della storia del pugilato, pochi nomi evocano terrore e ammirazione come quello di Iron Mike Tyson. Un prodigio della violenza incanalata, un uragano in calzoncini neri, una forza bruta mascherata da tecnica scolpita sotto la guida di Cus D’Amato e Kevin Rooney. Eppure, esistette un uomo, Evander Holyfield, che riuscì a decifrare ciò che pareva indecifrabile. Lo fece con intelligenza tattica, forza d’animo e un piano di battaglia preciso: combattere Tyson là dove Mike era più vulnerabile. Semplicemente, all’interno.

Per quanto possa sorprendere i meno esperti, Mike Tyson non era affatto un combattente da corta distanza. Il suo stile, elaborato nel solco della “peek-a-boo” di D’Amato, era basato su velocità esplosiva, angolazioni improvvise, e combinazioni micidiali partite da una media distanza. Là dove poteva caricare il destro e seguire con il sinistro in una danza letale. Ma ridurre quella distanza significava rompere il suo tempo di esecuzione, neutralizzare la sua potenza, obbligarlo a lottare nel clinch, dove non era a suo agio. E questo, esattamente questo, fu ciò che Evander Holyfield fece con arte chirurgica.

Quando i due si affrontarono per la prima volta nel novembre del 1996, le aspettative erano sbilanciate. Tyson era ancora l’uomo più temuto del pianeta. Ma Holyfield non solo aveva sparring di qualità alle spalle, aveva una memoria storica e un’intelligenza tattica superiore alla media. Anni prima, da dilettante nei pesi massimi leggeri, aveva incrociato i guanti con un giovane Tyson, accumulando esperienze preziose. Per prepararsi al match del ‘96, Holyfield fece anche qualcosa di insolito: assunse David Tua come sparring partner, un pugile noto per la sua compattezza, aggressività e potenza esplosiva, simile al Tyson dei giorni migliori.

Non era una scelta casuale. Evander stava perfezionando una strategia ben precisa: soffocare Mike all’interno, impedirgli di caricare i colpi, e sfinirlo col fisico, col volume e con il clinch, un’arte che conosceva bene. Chi oggi riduce quella prestazione storica a “testate e trattenute” dimostra una comprensione superficiale del pugilato. Holyfield neutralizzò Tyson tecnicamente, tatticamente, atleticamente.

È utile ricordare che il Tyson degli anni ’90 non era più quello plasmato dal defunto Cus D’Amato o dal disciplinato Kevin Rooney. Don King, sempre più influente nel suo entourage, spinse Tyson a licenziare Rooney, rompendo l’ultimo legame con quella fase aurea della sua carriera. Da lì in avanti, Mike divenne una versione incompleta di sé stesso: meno testa, più impulso. Più attacco, meno difesa. Meno disciplina, più istinto.

Quel Tyson non era pronto per un combattente come Holyfield. Lo dimostrò in ogni scambio ravvicinato, dove Evander lo malmenava, lo controllava, lo frustrava. Il match fu più psicologico che fisico: Tyson, per una volta, non era l’uomo che dettava il ritmo. Era l’uomo che lo subiva.

Non fu solo Holyfield a trovare la chiave. Anni prima, nel 1990, James "Buster" Douglas – snobbato da molti – aveva già scritto una pagina epica, dominando Tyson a distanza con un jab preciso e una gestione intelligente della distanza. Douglas, alto, dotato di buona tecnica e resistenza, non cadde nella trappola della paura. Lo stesso farà, anni dopo, Lennox Lewis, forse il più dotato dei pesi massimi tecnici degli anni ‘90. Anche lui, con altezza, allungo e una scuola pugilistica britannica raffinata, mantenne Mike fuori portata, dominandolo con geometrie impeccabili.

Ecco dunque la verità poco raccontata: Tyson poteva essere battuto. Bastava combatterlo o da molto vicino, come Holyfield, oppure da molto lontano, come Douglas e Lewis. Il suo territorio naturale, la media distanza, dove poteva esplodere le sue combinazioni, andava evitato. E i grandi pugili lo capirono.

Spesso i paragoni volano tra Mike Tyson e Joe Frazier, altro icona del pugilato aggressivo. Ma è un confronto fallace. Frazier era un maestro del combattimento da dentro, con uno dei migliori ganci sinistri della storia e uno scivolamento di tronco fenomenale. Come ricordava Jerry Quarry, “Joe Frazier mi avrebbe distrutto completamente da dentro”. Tyson, invece, aveva un potere esplosivo ma meno raffinato nel corpo a corpo.

La sua arma era il volume di colpi, la ferocia, la velocità. Ma non era il tipo di pugile che viveva nell’infighting. Quando Holyfield ridusse lo spazio, Tyson non aveva le risposte tecniche, né il piano B. La sua forza, come quella di un predatore, era l’effetto sorpresa, la tempesta improvvisa. Ma quando la tempesta veniva contenuta, quando l’avversario restava in piedi e rispondeva colpo su colpo, Mike si dissolveva.

Una delle sliding doors della carriera di Tyson fu senza dubbio la rottura con Kevin Rooney. Fino a quel punto, Mike era un sistema perfetto, un equilibrio di potenza e controllo, un progetto iniziato da Cus D’Amato e realizzato con metodo. Ma con Rooney fuori scena, e Don King saldamente al timone, la disciplina cedette all’egocentrismo, la dedizione alla distrazione.

Non è un caso che la sconfitta contro Buster Douglas arrivi proprio in quel periodo. Tyson non era preparato mentalmente, né fisicamente. E l’ombra del grande Don King, seppur brillante nelle trattative, fu deleteria per la crescita tecnica di Iron Mike.

Sia chiaro: Tyson è stato un pugile straordinario, probabilmente unico nel suo genere. Ma l’aura di invincibilità, alimentata dai KO fulminanti e dall’estetica della paura, non deve far dimenticare le fragilità strutturali che Holyfield, Douglas e Lewis seppero sfruttare. Il suo picco, tra il 1986 e il 1988, fu travolgente. Ma fu anche breve. Il pugilato, come la storia, è spietato con chi non evolve.

Mike aveva bisogno di un angolo intelligente, di allenatori competenti, di strategia. Non solo di talento e potenza. Quando tutto questo mancò, emersero le crepe. Quando affrontò Holyfield, quelle crepe divennero fratture irreparabili.

Quella notte del 1996, Evander Holyfield non sconfisse solo un pugile, ma un’illusione. Dimostrò che Mike Tyson poteva essere contenuto, controllato, persino dominato. Lo fece con disciplina, fede, strategia e coraggio. In uno sport dove la brutalità spesso oscura l’intelligenza, Holyfield ci ricordò che il pugilato è prima di tutto una battaglia di menti, e poi di corpi.

Mike Tyson rimane, e rimarrà sempre, una delle icone più luminose (e controverse) del pugilato moderno. Ma in quelle notti in cui incontrò Holyfield, il mondo vide qualcosa di raro: la caduta di un titano, e la vittoria dell’uomo che, semplicemente, aveva capito come combatterlo nel suo punto cieco.

E il punto cieco di Tyson era, sorprendentemente, l’interno.





Nessun commento:

Posta un commento