Nel dibattito sempre acceso sull'efficacia delle arti marziali in un contesto di autodifesa reale, la boxe occupa una posizione tanto discussa quanto inaspettatamente dominante. Priva delle tecniche di lotta a terra o delle proiezioni, spesso etichettata come "incompleta", la nobile arte del pugilato può, tuttavia, rivelarsi devastante per chiunque non sia preparato ad affrontare la sua brutale semplicità.
Un pugile allenato possiede tre vantaggi fondamentali che lo rendono temibile anche in una rissa da strada:
Velocità di esecuzione – I pugni partono rapidi, con traiettorie dirette e pulite, spesso sorprendendo chi è abituato a movimenti più circolari o teleografati. In uno scontro improvvisato, il primo colpo può decidere tutto.
Gestione della distanza e del ritmo – Il pugile sa "leggere" il corpo dell’avversario, sa quando avvicinarsi e quando scivolare via, muovendosi su gambe allenate a sostenere round su round di spostamenti laterali e affondi fulminei.
Condizionamento fisico – Resistenza cardiovascolare, tolleranza al dolore e capacità di mantenere lucidità sotto stress fanno del pugile un avversario instancabile. In risse che si prolungano oltre i trenta secondi – più frequenti di quanto si pensi – molti contendenti amatoriali si esauriscono. Un pugile no.
Molti artisti marziali, specie quelli provenienti da discipline più "tradizionali", possono restare colti alla sprovvista quando si trovano di fronte a un pugile. Un esempio emblematico è quello di un praticante di jujitsu giapponese che racconta l’impatto devastante di un compagno di dojo cresciuto tra i guantoni nelle strade: snello, velocissimo, apparentemente fragile ma con colpi duri come macigni. Nonostante il background tecnico dei praticanti di jujitsu, la loro unica possibilità era accorciare la distanza, assorbire un colpo e portarlo a terra – una tattica rischiosa che, se mal eseguita, poteva portare al knockout.
Tuttavia, la boxe non è invincibile. Come qualsiasi disciplina, soffre quando viene portata fuori dal proprio ambiente:
Assenza di grappling: Un pugile che si trova clinciato, proiettato o portato a terra da un lottatore esperto, come un praticante di Brazilian Jiu-Jitsu (BJJ), può trovarsi rapidamente in svantaggio.
Dipendenza dallo spazio: La boxe richiede distanza per esprimersi. In spazi ristretti o su superfici irregolari, le schivate e i passi laterali diventano difficili, e i pugni perdono efficacia.
Gestione di armi o più avversari: Situazioni caotiche e imprevedibili, come risse con più aggressori o armi improvvisate, mettono alla prova la disciplina del pugilato, che non nasce per questi scenari.
È qui che la questione si fa interessante. Quando un pugile serio decide di colmare le sue lacune – magari imparando a difendersi da una proiezione, a schivare uno strangolamento, o a lottare a terra – diventa qualcosa di più. Nelle parole dello stesso testimone: “Dopo aver imparato il lavoro a terra, divenne un mostro. Le nostre cinture nere di jujitsu gli tenevano testa come fossero principianti.”
È il pugilato come base, rafforzato da altre competenze, a creare un combattente completo e spaventoso. Ma anche da solo, se praticato con rigore, può spostare radicalmente gli equilibri in uno scontro reale.
Dire che la boxe non sia un’arte marziale completa è tecnicamente corretto. Mancano prese, leve, lotta a terra, e difese contro le armi. Ma ridurre il suo impatto a queste mancanze è un errore. In un confronto disarmato e imprevisto, il pugile parte con un vantaggio tattico e fisico considerevole. E mentre la fortuna può sempre giocare il suo ruolo, quando un pugile "prende il combattimento sul serio", come sottolinea chi ha condiviso la propria esperienza, molti avversari scoprono – spesso nel modo più doloroso – quanto possano essere corti tre minuti contro chi sa come usarli.
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