domenica 13 aprile 2025

Ali-Frazier II: il match dimenticato che ribaltò gli equilibri

Nel panorama infuocato della rivalità tra Muhammad Ali e Joe Frazier, il secondo atto – passato alla storia come “Super Fight II” – resta forse il meno celebrato, eppure fu cruciale nel definire l’equilibrio tra i due titani della boxe. A distanza di tre anni dal leggendario "Fight of the Century", e a poco meno di due dall’epica conclusione del “Thrilla in Manila”, questo match di metà trilogia segna un punto di svolta: il momento in cui Ali dimostrò di poter battere Frazier anche sul piano tattico, e non solo emotivo o mediatico.

Il contesto era teso, quasi viscerale. Non c’era un titolo in palio, ma l’aria era intrisa di rivalsa. Frazier voleva dimostrare che la sua vittoria del ’71 non era un caso, che Ali fosse solo un’ombra del passato; Ali, invece, bramava il riscatto e, soprattutto, la riappropriazione di una narrativa che – dopo la sua sospensione per motivi politici – sembrava essere sfuggita al suo controllo. Le provocazioni pre-incontro furono al vetriolo: Ali insultò Frazier con epiteti che ancora oggi suscitano imbarazzo, e Frazier rispose con un odio viscerale che andava oltre il ring.

Ma quando la campanella suonò quella sera del 28 gennaio 1974, Ali non era più l’uomo spettacolare e indisciplinato del 1971. Era diventato un pugile maturo, strategico, freddo. Abbandonò la volontà di dominare con la pura danza e si affidò a un piano chirurgico: colpire rapido e legare immediatamente. Il clinch divenne la sua arma difensiva più efficace. In molte fasi del match, Frazier sembrava impotente, stretto in abbracci tattici che ne disinnescavano la micidiale aggressività a corto raggio. Ali lo colpiva con jab veloci e precisi, poi bloccava ogni tentativo di risposta corpo a corpo.

Il pubblico – che si aspettava un nuovo scontro all’ultimo sangue – restò perplesso. L’intensità emotiva del primo incontro mancava, e il terzo era ancora un'ipotesi lontana. Eppure, sul piano tecnico, Ali fu semplicemente superiore. Non si trattò di un dominio spettacolare, ma di una lezione tattica impartita con lucidità. I giudici assegnarono il match ad Ali con decisione unanime, confermando una sensazione palpabile: Joe Frazier era stato arginato, neutralizzato, controllato.

Chi cerca nella boxe soltanto il colpo del KO, il sangue e il dramma, potrebbe giudicare “Super Fight II” come il meno riuscito della trilogia. Ma per chi comprende l’arte del ring nella sua essenza più raffinata, questo incontro rappresenta una vetta di consapevolezza strategica. Ali non vinse con la forza, ma con l’intelligenza. Non cercò l’applauso, ma il risultato. Ruppe il ritmo di Frazier, lo privò di spazio, lo costrinse a un tipo di match che non gli apparteneva.

Dominatore? Dipende dal significato che si attribuisce al termine. Nessuno mise l’altro al tappeto. Nessuno dominò sul piano della brutalità. Ma Ali dominò l’incontro sul piano mentale e tecnico, adattandosi meglio al contesto e imponendo il proprio gioco. Fu meno epico, certo. Ma in quella freddezza clinica c’era già il seme della sua futura vittoria nelle Filippine.

Oggi, nel bilancio storico, il secondo match appare spesso come una semplice parentesi tra due giganti narrativi. Ma fu, in verità, il passaggio necessario per restituire ad Ali la certezza di essere ancora “The Greatest”. E per spingere entrambi i pugili verso quello che sarebbe stato – e rimane – uno degli scontri più intensi della storia dello sport.

“Super Fight II” fu il silenzio prima della tempesta. Fu la prova generale prima del gran finale. Ma, soprattutto, fu la sera in cui Muhammad Ali riconquistò se stesso.



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