sabato 26 aprile 2025

Muhammad Ali contro i pesi massimi moderni: cosa accadrebbe se “The Greatest” combattesse oggi?

È una delle domande più affascinanti e ricorrenti tra gli appassionati di pugilato: come se la caverebbe un Muhammad Ali nel suo periodo di massimo splendore contro i pesi massimi di oggi? L’uomo che si definiva “il più grande” ha lasciato un’eredità sportiva e culturale incalcolabile, ma nel mondo del pugilato – dove stili, regole, preparazione atletica e corporature si evolvono – il confronto diretto tra epoche diverse richiede una riflessione rigorosa e multilaterale.

Per rispondere con onestà, bisogna prima chiarire di quale Ali stiamo parlando. Se intendiamo il giovane Cassius Clay, l’Ali del 1964–1967, quello che sconfisse Sonny Liston, Henry Cooper, Cleveland Williams e Zora Folley, allora parliamo di un fenomeno atletico e tecnico senza precedenti, probabilmente il più veloce peso massimo mai esistito. Jimmy Jacobs, manager di Mike Tyson e collezionista della più vasta biblioteca di filmati pugilistici d’archivio, lo affermava senza esitazione: “Il primo Ali era il più rapido, il più elegante, il più inafferrabile”.

Quell’Ali era in grado di ballare per dodici round senza perdere un’ombra della sua lucidità, con un jab ipnotico, combinazioni rapidissime e una capacità di reazione che lasciava gli avversari letteralmente disorientati. Era pugilato trasformato in arte, in performance teatrale, in provocazione intellettuale.

Ma l’Ali successivo, quello che tornò sul ring dopo quasi quattro anni di inattività forzata a causa del rifiuto di essere arruolato nella guerra del Vietnam, era un pugile diverso. Meno mobile, più statico, ma con una resistenza e una durezza mentale sovrumane. Fu quest’ultimo Ali a entrare nella leggenda grazie alle battaglie con Joe Frazier, alla vittoria epica contro George Foreman nello “Rumble in the Jungle” del 1974, alla trilogia contro Ken Norton e, in seguito, alle dolorose guerre contro Larry Holmes e Leon Spinks.

Oggi, i pesi massimi sono cambiati profondamente. Non si tratta solo di altezza e massa muscolare – anche se è evidente che i campioni attuali superano i 2 metri e i 110 kg con regolarità – ma anche di filosofia di allenamento. I pugili moderni si allenano con supporto medico-scientifico, nutrizionisti, fisioterapisti, team tattici e analisti video. Un pugile contemporaneo ha accesso a strumenti che un Ali degli anni ’60 non avrebbe nemmeno potuto immaginare.

Eppure, lo sport non è solo una questione di tecnologia. La tecnica, l’intelligenza tattica, il talento grezzo e il cuore restano le variabili determinanti, e in questo senso, Muhammad Ali eccelleva come pochi altri nella storia dello sport. Era un uomo capace di reinventarsi sul ring, di assorbire il dolore, di superare limiti apparentemente biologici grazie a una forza mentale ineguagliabile.

Prendiamo ad esempio Anthony Joshua, ex campione unificato dei pesi massimi, oggi ancora tra i più noti rappresentanti della categoria. Joshua è dotato, atletico, potente. Ma il suo stile è relativamente rigido, scolastico, poco creativo. L’Ali del 1965 avrebbe probabilmente scherzato con lui per dodici round, frustrandolo con movimenti laterali e jab a ripetizione, costringendolo a colpire il vuoto.

Joshua ha dimostrato più volte di soffrire pugili mobili e imprevedibili: basti vedere i due match persi contro Oleksandr Usyk, che – con una mobilità e una tecnica lontanamente ispirata a quella di Ali – è riuscito a neutralizzarne la potenza. Ali, con una maggiore statura, un jab più affilato e una difesa elusiva nettamente superiore, avrebbe probabilmente avuto vita ancora più facile.

Il caso di Tyson Fury è più complesso. Alto 2,06 metri, dotato di grande mobilità per la sua stazza, Fury è un pugile atipico, capace di cambiare stile, boxare all’indietro, lavorare al corpo e anche usare la forza nel clinch. Il suo QI pugilistico è elevato, e la sua capacità di adattamento è ammirevole.

Ma contro un Ali del 1966, persino Fury si sarebbe trovato in difficoltà. Il suo jab, pur solido, è meno veloce di quello di Ali. La sua mobilità, pur sorprendente per un uomo della sua mole, non avrebbe retto il confronto diretto. Soprattutto, Ali avrebbe trovato in Fury un avversario troppo poco incisivo nei colpi, senza quella potenza esplosiva in grado di tenerlo lontano. È lecito immaginare un match combattuto, ma con una vittoria ai punti per Ali, che lo avrebbe colpito più volte e con maggiore precisione.

Il match più interessante sarebbe senza dubbio quello contro Oleksandr Usyk, campione ucraino con una formazione nei pesi cruiser e una transizione tra i massimi gestita con maestria. Usyk è un pugile tecnico, agile, con grande volume di colpi e una mentalità tattica evoluta. In molti sensi, ricorda proprio Ali, almeno nella filosofia di combattimento.

Questo scontro sarebbe una partita a scacchi ad alta velocità, con scambi rapidi, footwork raffinato e letture continue. Ma qui entra in gioco il vantaggio naturale di Ali: è più alto, ha più allungo, e – nella sua versione degli anni ‘60 – era ancora più veloce. A parità di intelligenza tattica, l’atleta fisicamente superiore tende ad avere la meglio. Anche in questo caso, lo scenario più plausibile è una vittoria ai punti per Ali, forse in un match stretto, dove l’efficienza nei colpi e il controllo del ring farebbero la differenza.

Daniel Dubois, uno dei nomi emergenti nella scena britannica, rappresenta un’altra generazione: giovani pugili potenti, ma non ancora maturi dal punto di vista tecnico. Dubois è un colpitore pericoloso, ma estremamente vulnerabile agli avversari con gioco di gambe, esperienza e resistenza. L’Ali degli anni ’60 lo avrebbe probabilmente fermato per KO tecnico nei round centrali, dopo averlo confuso e fatto sbagliare ripetutamente.

Infine, l’ipotesi più affascinante: come sarebbe stato Muhammad Ali se fosse nato nel 1995 e si fosse allenato con le tecnologie, le conoscenze e le risorse di oggi?

Semplice: sarebbe stato ancora più dominante.

Con accesso alla biomeccanica, alla nutrizione scientifica, ai recuperi controllati, agli analytics video e agli sparring specifici, Ali avrebbe potuto perfezionare ulteriormente le sue già incredibili doti naturali. Avrebbe potuto preservare le ginocchia e la schiena per più anni, dosare meglio le energie, prevenire i danni neurologici con una carriera più gestita.

In un mondo dove i pugili sono spesso prodotti industriali, Ali sarebbe stato l’artista ribelle, ma con l’intelaiatura da professionista moderno. Il connubio tra genio antico e scienza moderna lo avrebbe reso, con ogni probabilità, ancora più invincibile.

In definitiva, immaginare Muhammad Ali nel contesto odierno non è solo un esercizio di stile. È un tributo alla sua grandezza. Il pugilato è evoluto, sì, ma alcune qualità – la visione di gioco, il tempismo, la resistenza mentale, il carisma – trascendono le epoche.

Ali avrebbe potuto battere la maggior parte dei pesi massimi odierni. E, in molti casi, con una superiorità disarmante. Perché, al di là delle misure e delle statistiche, un grande resta grande in ogni tempo.

“The Greatest” non era un soprannome. Era una constatazione.


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