In ogni città del mondo, dietro i riflettori delle palestre, al
di fuori dei tatami e lontano dalle competizioni ufficiali, esiste un
terreno dove la violenza prende forme diverse, brutali, irregolari. È
il terreno della strada. Le risse che esplodono nei vicoli, nei bar o
nei parcheggi non seguono regole codificate né principi
cavallereschi: obbediscono solo all’istinto, alla disperazione o
alla brutalità. In questo contesto, ciò che vale non è la tecnica
raffinata di una disciplina marziale, ma l’abilità di adattarsi
all’imprevisto, spesso facendo ricorso a tattiche che in un dojo
nessun maestro insegnerebbe mai.
La distinzione è cruciale. Le arti marziali, anche nelle loro
versioni più dure, nascono con un’etica, una cornice di
disciplina, regole e principi. Una palestra di karate, judo o
taekwondo insegna non solo a colpire, ma soprattutto a controllarsi.
Le risse di strada, invece, sono l’opposto: mancano di regole e si
basano su un pragmatismo spietato. Un pugno con un tirapugni non è
una tecnica, è un colpo progettato per spezzare ossa. Una bottiglia
spaccata non è un kata, è un’arma improvvisata che punta dritto
al terrore.
Uno degli aspetti più frequenti e temuti delle risse di strada è
l’uso di oggetti comuni come armi. Dove l’arte marziale insegna a
colpire con le mani nude, la strada insegna che qualsiasi cosa a
portata può diventare letale. Una bottiglia di vetro diventa una
lama, una sedia pieghevole un manganello, un ombrello un bastone.
Strumenti contundenti come mazze, bastoni, catene e manganelli
sono classici delle risse urbane, così come i tirapugni, capaci di
trasformare un pugno in un colpo fratturante. Nell’Ottocento, non
era raro che ufficiali o sceriffi del vecchio West portassero proprio
i tirapugni, utilizzati per sedare risse nei saloon. Questi
strumenti, oggi illegali in gran parte del mondo, restano diffusi
nell’ambiente criminale per la loro efficacia immediata.
L’arte marziale tradizionale non insegna ad afferrare una
bottiglia e brandirla, ma il combattente di strada parte dal
presupposto opposto: qualunque cosa diventi un vantaggio, va usata
senza esitazione.
Un’altra differenza sostanziale sta nei bersagli. In un incontro
regolamentato i colpi alla nuca, agli occhi, alla gola o ai genitali
sono vietati. In strada, invece, sono tra i primi a essere cercati.
Gli aggressori sanno che un dito nell’occhio può neutralizzare
istantaneamente un avversario, che un calcio all’inguine può
stroncare una reazione, che un pugno diretto alla gola può impedire
di respirare. Non c’è stile né eleganza in queste mosse, ma
efficacia immediata.
Molti veterani delle forze dell’ordine raccontano che nelle
risse urbane i colpi più comuni sono proprio quelli “sporchi”,
invisibili nei manuali ma devastanti nella pratica. Ed è per questo
che i maestri seri sottolineano: l’arte marziale non è pensata per
imitare la strada, ma per preparare la mente e il corpo a non cadere
nel caos.
Un altro aspetto ignorato nei corsi di arti marziali è il
contesto stesso del combattimento. A differenza dei duelli “uno
contro uno” che il cinema ha reso celebri, le risse di strada
raramente si giocano ad armi pari.
Molti scontri iniziano con un agguato: un colpo improvviso, alle
spalle, mentre la vittima è distratta. Oppure con il fattore
numerico: due, tre o più aggressori contro uno solo. È qui che
l’illusione della palestra cade: nessun kata prepara davvero a
combattere cinque uomini in un vicolo stretto.
A rendere il tutto più insidioso c’è la componente
psicologica. La strada utilizza la paura come arma: grida, insulti,
minacce, posture aggressive. Non si tratta di pura intimidazione:
spesso serve a paralizzare la vittima, a farle commettere errori o a
scoraggiarla dal reagire. L’arte marziale allena la concentrazione
e il controllo emotivo, ma non sempre riproduce il caos e
l’adrenalina di un vero scontro improvviso.
Mentre discipline come il judo o il Brazilian jiu-jitsu insegnano
leve articolari e strangolamenti codificati, la strada conosce
versioni più brutali e meno tecniche. Una presa ai capelli, un morso
improvviso, un’unghia che lacera la pelle, un colpo di testa
improvviso al volto: sono azioni che in palestra verrebbero
immediatamente interrotte, ma che nella realtà hanno un impatto
devastante.
Molti rissaioli ricorrono al morso nei momenti di colluttazione,
soprattutto quando finiscono a terra. È un’azione primitiva, ma in
uno scenario senza arbitri può cambiare l’esito. Allo stesso modo,
il colpo di testa — non insegnato nelle scuole per l’alto rischio
di autolesionismo — è frequente nelle risse, rapido e
difficilmente difendibile a distanza ravvicinata.
Un dojo è uno spazio neutro, ordinato, sicuro. La strada non lo
è. I combattenti reali sfruttano l’ambiente come arma: spingere un
avversario contro un muro, sbattergli la testa sul cofano di un’auto,
buttarlo a terra sulle scale o trascinarlo nel traffico.
In un parcheggio, il cemento diventa un’arma: cadere
sull’asfalto significa riportare lesioni gravi anche senza che il
colpo in sé sia devastante. Nei bar, i tavoli e i bicchieri
diventano proiettili. In metropolitana, un semplice spintone può
trasformarsi in tragedia. La strada non è mai neutra, ed è proprio
questa la differenza più radicale.
Non serve guardare lontano per capire la brutalità di certe
dinamiche. Lo scorso mese, un giovane ha cercato di difendere la sua
compagna da un aggressore in un locale. Non aveva armi, solo il
coraggio. Ma l’aggressore, senza esitazione, ha estratto un
tirapugni e lo ha colpito al costato. Le costole si sono incrinate, e
l’intervento è terminato con l’ospedale. Nessuna tecnica di
karate, per quanto raffinata, avrebbe potuto impedire l’impatto
devastante di un colpo così.
È un esempio che illustra con chiarezza perché la difesa
personale reale non si riduce alla pratica sportiva. La strada
introduce variabili che nessun regolamento contempla: l’arma
improvvisa, il colpo a tradimento, la brutalità cieca.
La domanda, a questo punto, è inevitabile: se queste tattiche
sono così diffuse, perché non vengono insegnate nelle palestre? La
risposta è semplice quanto essenziale: perché le arti
marziali hanno uno scopo diverso.
Un dojo non è un ring clandestino, ma una scuola di disciplina,
autocontrollo e rispetto. Insegnare a colpire con un tirapugni o a
mordere non significherebbe preparare alla vita, ma istigare alla
violenza. L’arte marziale non ignora la realtà: insegna invece a
gestire il conflitto senza degenerare, a usare il
corpo con consapevolezza e a conoscere le proprie possibilità. È un
percorso educativo prima ancora che fisico.
Molti sistemi di difesa personale moderni — dal krav maga a
specifici corsi di law enforcement — affrontano però con maggiore
realismo le dinamiche della strada, simulando scenari multipli,
aggressioni improvvise e l’uso di oggetti comuni. Tuttavia, anche
in questi casi, lo scopo resta quello di difendersi e
fuggire, non di replicare le tattiche dei criminali.
C’è una differenza fondamentale tra essere consapevoli delle
tattiche di strada e impararle. Conoscerle significa riconoscere i
segnali di pericolo: sapere che un aggressore potrebbe avere un’arma
nascosta, che un gruppo può accerchiare, che un insulto gridato può
essere l’anticamera di un attacco fisico. Questo tipo di conoscenza
è essenziale per evitare lo scontro o, se inevitabile, per
sopravvivere.
Imitarle, invece, significherebbe scivolare nello stesso terreno
di violenza cieca. E qui risiede la linea etica che separa la difesa
dall’aggressione. Un’arte marziale non ti insegna a colpire con
un tirapugni perché il suo scopo è farti vivere senza averne
bisogno, non incoraggiarti a diventare ciò che temi.
Le risse di strada e le arti marziali condividono lo stesso campo:
il corpo umano e la sua capacità di colpire e resistere. Ma
divergono in tutto il resto. La strada è caos, sorpresa, violenza.
L’arte marziale è ordine, controllo, crescita.
Comprendere le tattiche di strada — dalle armi improvvisate ai
colpi proibiti, dagli agguati al fattore ambientale — è
fondamentale non per replicarle, ma per proteggersi. La realtà
insegna che non basta conoscere il karate o il judo per sopravvivere
a un vicolo buio. Servono prudenza, consapevolezza, capacità di
leggere il pericolo e, quando possibile, il coraggio di allontanarsi.
La vera lezione, dunque, non è come combattere come un rissaiolo,
ma come non diventare la sua vittima. Perché alla
fine, l’unica vittoria reale in strada è non dover combattere
affatto.