lunedì 24 giugno 2019

IL KOR KAPTAN DI SAN STAE: L'AMMIRAGLIO LAZZARO MOCENIGO (1624-1657)

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La storia di Venezia è costellata da ammiragli, proveditor da mar e pure semplici sopracomiti capaci di rovesciare le sorti di una battaglia e portare alla vittoria la potentissima flotta della città lagunare. Nomi quali Antonio Zeno, Antonio Canal, Vincenzo Cappello, Carlo Zen e molti altri rifulgono nella storia della Serenissima, ma ben pochi hanno conseguito imprese coraggiose e al limiti della follia come Lazzaro Mocenigo.
Nato a Venezia il 9 luglio 1624, a San Stae, da Giovanni di Antonio, del ramo della Carità e da Elena di Antonmaria Bernardo, già vedova di Giorgio Contarini, Lazzaro Mocenigo non si sposò mai, nè si narra fosse stato mai trattenuto da affetti o interessi di studio, bensì dimostrò una dedizione quasi ascetica per la militanza marittima, e si dimostrò essere uno dei più coraggiosi ammiragli della Serenissima.
Allo scoppio dell'ennesima guerra contro i turchi, nel 1645, partì come Volontario nell'armata nel 1646, e, nominato vicegovernatore di galeazza a fine novembre del 1649, subito si distinse nello scontro di Nixia: sebbene colpito da una freccia turca al braccio sinistro e mutilato di un dito da un colpo di moschettata, il giovane continuò a combattere per l'intera giornata senza domandare cure ai compagni di bordo.
Nonostante una nomina come magistrato al Sale, presto Lazzaro s’imbarcò nuovamente, spinto dalla sua passione per il mare e per la guerra.
Lo si ritrova nel 1655 al comando di una galeazza, sotto gli ordini del proveditor d'Armata Francesco Morosini, alla spasmodica ricerca di uno scontro dinnanzi ai Dardanelli.
I rapporti con il suo superiore divennero tesi a causa dell'irruenza del Lazzaro, ma quando si giunse allo scontro, il 21 giugno, le ostilità tra i due lasciarono al posto alla lotta per la sopravvivenza, in una battaglia che si protrasse per 17 ore.
Lazzaro, disposte le navi nella prima insenatura dell’Ellesponto, investì le unità turche quando uscirono dallo stretto scompaginandone l’ordine e costringendo alla fuga lo stesso ammiraglio Mustafà: vi furono 3000 perdite tra i nemici e vennero presi molti cannoni, mentre le navi del Turco furono date alle fiamme e 3 vennero catturate. Nella consulta del 27, il giovane Mocenigo perorava un ulteriore attacco alle forze del Sultano, ma prevalse il parere di Morosini di procedere subito all’assedio di Malvasia.
Subentratogli nella carica Marco Bembo, continuò lo stesso a militare quale «venturiere» nella sultana (ossia un vascello di grandi dimensioni) S. Marco. Questa era tra le 66 unità schierate il 24 gennaio dal capitano generale da Mar Lorenzo Marcello a bloccare l’uscita dai Dardanelli. Il 23 giugno la flotta turca, forte di 94 unità, tentò, col favor del vento, di sfondare il blocco e la battaglia che ne seguì infuriò per 14 ore.
Stando a una relazione non ufficiale la squadra di Bembo si inoltrò sopravento e intercettò la rotta al Turco, gettando lo scompiglio tra le galere ammassate. La S. Marco con Lazzaro a bordo, che chiudeva il passo alle galee sottili nemiche, si ritrovò in mezzo alle navi in fuga. Per non soccombere alle maree nemiche e pure cannoneggiata, non poté riguadagnare il mare e toccò terra. Il suo capitano Giovanni Gottardo, prima che il nemico se ne impadronisse, decise di farla bruciare.
Ciò senza il consenso di Lazzaro, il quale, pur ferito da un colpo di moschetto a un occhio, non desistette dal combattere. A suo avviso, per quanto malandata, la nave era ricollocabile in mare; e, in effetti, Gottardo fu sottoposto a processo per la sua discutibile decisione,.
Fu a ogni modo una trionfale vittoria veneta: 10.000 turchi caduti e 5000 fatti prigionieri; 84 unità perse, alcune catturate, altre arse, altre affondate. Appena 3, di contro, le navi perse da Venezia, e tra questa la S. Marco; e appena 300 i caduti. Un successo strepitoso che era stato reso possibile anche grazie all'intraprendenza del Mocenigo, la cui nave nonostante un discutibile comando altrui, era riuscita a imbottigliare molti dei legni ottomani.
Imbarcato sulla capitana turca catturata, stracarica di trofei e di schiavi liberati, giunse il 1° agosto a Venezia, dove venne accolto dal festoso saluto di replicate cannonate a salve.
Qui – dove per tre giorni si cantò il Te Deum e per tre notti vi fu l’illuminazione a giorno – il Senato gli conferì il cavalierato di S. Marco e un collare del valore di 2000 ducati. E l’indomani il Maggior Consiglio lo promosse capitano generale da Mar.
Ripartito in novembre, il 20 dicembre giunse ad Argostoli, quindi il 26 febbraio 1657, si ricongiunse con l’armata di cui ora aveva il comando. Con 12 galee, si portò a Scio, base per le operazioni della caccia alle imbarcazioni turche. In quei mesi si trovò impegnato nella caccia alle sfuggenti navi ottomane, di cui ne catturò numerose e riuscì a vincere un contrattacco nella battaglia del canale di Scio.
Soprannominato dal nemico Kor Kaptan (ossia «capitano orbo»), in un rapporto del 19 maggio il Mocenigo esibì la cattura di 44 legni nemici mentre il giorno prima era avvenuta, quasi senza spargimento di sangue, la presa della piazza di Suazich, con considerevole bottino di polveri, munizioni e cannoni. Per Lazzaro era giunto il momento di puntare con una grande offensiva al Turco in difficoltà, da lui considerato allo sbando, con la flotta inattiva a Rodi, in parte vagante senza una strategia, in parte tremebonda «dentro de’ Castelli». Smanioso di un confronto definitivo, l'ammiraglio fece pressione per accelerare i tempi, insistendo sul fatto che l’ammiraglio ottomano, l’albanese Mehmed Köprülü, stesse allestendo una possente flotta adeguata a fronteggiare l’armata da lui capitanata. Se, da un lato, esprimeva il desiderio di prendere congedo, anche in ragione delle conseguenze della perdita dell’occhio, dall'altro lato voleva chiudere in bellezza, con un memorabile trionfo.
La flotta si spostò allora di fronte ai Dardanelli: contava, annoverando le maltesi e le pontificie, 68 unità, di contro alle 53 unità della flotta ottomana con circa 150 imbarcazioni minori. Questa, attestatasi ai Castelli, azzardò l’uscita dai Dardanelli, ma con l'unico risultato di aver perse 5 navi e 5 maone. Nel mentre, i venti compromisero la disposizione a semicerchio voluta da Lazzaro a sbarramento del canale. Un blocco che la furia dei venti contrari e il mare agitato resero, il 18 e il 19 luglio, insostenibile. In una giornata di pioggia e vento fortissimo, quindi, iniziò la battaglia. Nel caos che ne seguì con incredibile sorpresa le navi veneziane risultarono vincitrici e i turchi, forse intimoriti dalla presunta invincibilità della armate veneziane, si diedero alla fuga. Il Mocenigo, conscio che tutto si sarebbe giocato in poche ore, pur essendo quasi sera e avendo attorno a sé appena 10 navi, ordinò l'assalto, ma una burrasca bloccò l'azione che venne rinviata alla mattina successiva. La mattina trascorse senza vento e, alla sera, quando finalmente s'alzò, la flotta riprese la navigazione. Le batterie costiere tempestarono senza effetto l'avanzata delle navi e ormai Costantinopoli era quasi in vista quando accadde la disgrazia che mutò il corso dell'intera guerra. Un colpo di cannone colpì una velatura che, cadendo, fratturò il cranio di Mocenigo, che morì sul colpo; pochi secondi dopo un ulteriore colpo centrò la polveriera della nave, facendola saltare in aria.
L'avanzata si fermò e la notte portò al cessare delle ostilità.
Il nuovo ammiraglio era Lorenzo Renier, un ultrasettantenne che non aveva mai avuto un vero comando e che era giunto lì solo per anzianità. Timoroso per il morale della truppa decise di ritirarsi, concludendo in un nulla di fatto la campagna
Valutando le perdite inflitte al Turco, questo fu sconfitto. Vittoria veneta, dunque; una «vittoria grandissima», insistono i rapporti veneti, «in faccia» al cuore dell’Impero nemico, il pieno tripudio per la quale è però trattenuto dal cordoglio per la morte del Mocenigo. Non era soltanto la perdita dell'unico ammiraglio veneto che era stato capace quasi di raggiungere la Sublime Porta e attaccare una Istanbul vicina al collasso, bensì era stata la morte di uno dei più grandi eroi delle armate della Serenissima.

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