mercoledì 12 giugno 2019

"VOI CI UCCIDETE, MA NOI NON MORIREMO MAI": I FRATELLI CERVI

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All'alba del 28 dicembre 1943 al poligono di tiro di Reggio Emilia un unico sparo sembrava porre fine alla storia della famiglia Cervi. Si tratta di una storia che comincia subito dopo l'Unità, quando il contadino emiliano Agostino Cervi si rende conto che la tassa sul macinato è iniqua e diventa uno dei capi della protesta: finisce in carcere per sei mesi. Ne esce, si sposa e ha tre figli, fra i quali Alcide. Quest'ultimo sposa nel 1899 Genoeffa Cocconi, dalla quale avrà nove figli: Gelindo, Antenore, Diomira, Aldo, Ferdinando, Rina, Agostino, Ovidio ed Ettore. La famiglia è il perfetto esempio di quel movimento che fra Ottocento e Novecento porta i contadini a sviluppare nuove forme di organizzazione e aggregazione di massa, come cooperative, case del popolo, leghe di soccorso e mutue in contrasto con la tradizionale struttura patriarcale e chiusa della famiglia contadina. Importante è anche la spinta verso lo sviluppo tecnico, infatti i Cervi danno vita a una biblioteca nutrita che gli permette di apprendere e applicare innovativi principi di agronomia, che gli permettono di volgersi verso un modello produttivo che superi la semplice economia di sussistenza. Il culmine simbolico di questo processo di ammodernamento e progresso è il trattore, macchina avveniristica e miracolosa, acquistata dalla famiglia nel 1939.
Questa autocoscienza, amore per la cultura e organizzazione collettiva della vita sono fondamentali per sviluppare e maturare la consapevole scelta antifascista. Di forti radici cattoliche e legati al partito popolare, i Cervi si volgono al comunismo, convinti che il sapere unito al duro lavoro fosse la via per l'emancipazione sociale e politica. La conseguenza logica di queste forti convinzioni era l'adesione netta e decisa alla lotta contro il fascismo che si aprì con l'armistizio dell'8 settembre, anche contro la volontà dei compagni di lotta che preferirebbero aspettare. Già un mese dopo la cessione delle ostilità fra l'Italia del re e gli Alleati, la casa colonica ai Campirossi, tra Campegine e Gattatico, diventa un centro di resistenza, ora anche armata oltre che culturale. Nella cascina dei Cervi trovano rifugio, ospitalità e conforto partigiani, antifascisti e prigionieri di guerra fuggiti, dei quali molti si uniranno alla "banda Cervi" nella lotta contro i nazifascisti. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro col prete partigiano Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari. Ma i Cervi si muovono in un ambiente ancora poco organizzato, dove i compagni sono pochi e i delatori sono tanti.
Infatti dopo solo pochi mesi, nella notte fra il 24 e il 25 novembre 1943 un nutrito gruppo di militi della Guardia Nazionale Repubblicana circonda il casale. Per oltre un'ora i Cervi e i loro compagni si difendono sparando con fucili e mitragliatrici dalle finestre della casa colonica, ma scoppia un incendio, quasi certamente appiccato dagli assalitori, e le fiamme divorano il fienile e la stalla. I partigiani sono costretti ad arrendersi, vengono trascinati via sotto lo sguardo atterrito delle donne e dei bambini in lacrime. I fascisti li portano al carcere di San Tommaso di Reggio Emilia, dove li attende il loro destino. Dopo un mese di interrogatori, violenza, lettere ai familiari fuori dal carcere nelle quali emerge sempre di più la consapevolezza della fine imminente, arriva la fine. All'alba del 28 dicembre i sette fratelli Cervi vengono svegliati bruscamente e separati dal padre Alcide, loro compagno di prigionia, per essere portati al poligono di tiro della città. Le guardie li indirizzano verso un muro, davanti al quale vengono allineati.
Si abbracciano e si baciano. Ettore piange sommesso. I fratelli gli rivolgono parole di incoraggiamento. Gelindo grida: "Voi ci uccidete, ma noi non moriremo mai". Poi la raffica.
Tutti e sette i fratelli hanno ricevuto postuma la medaglia d'argento al valore militare. Il padre Alcide riesce a celebrarne le esequie solo il 28 ottobre del 1945, fra la commozione e la partecipazione dei cittadini emiliani che scortano i feretri al cimitero di Campegine. Per il suo impegno nella lotta partigiana a "papà Cervi" venne assegnata una medaglia d'oro creata dall'artista Marino Mazzacurati, recante da un lato la sua effige e dall'altro un tronco di quercia tra i cui rami spezzati compaiono le sette stelle dell'orsa. Durante la cerimonia di consegna, Alcide pronunciò un celebre discorso: "Mi hanno sempre detto... tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta... la figura è bella e qualche volta piango... ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo".
Al suo funerale, svoltosi il 27 marzo 1970, si riuniranno a Reggio Emilia oltre 200.000 persone per tributargli l'ultimo saluto.



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