Fosse stata da subito la sceneggiatura
di un film, non sarebbe venuta così bene. Per fortuna di chi ama
raccontare storie inimitabili, come noi, ci ha pensato Chuck Wepner a
viverla, quell’esistenza inimitabile. Proprio per questo, dopo, è
venuto così bene pure il film.
Bayonne è un piccolo, insignificante
centro del New Jersey, potremmo dire che si trova nel lato oscuro
della baia, visto che dall’altra parte della baia splendono le luci
di Manhattan: non un grande inizio, Chuck, un giorno di fine febbraio
del 1939. Da quel momento in poi, il resto è letteratura, incisa su
centimetri di pelle che arriveranno a un metro e novantasei, per
cento chilogrammi, più o meno, a seconda delle bevute e delle
mangiate che si concede quando manca ancora un po’ di tempo al
match che ha in programma. Già, perché Chuck Wepner impara a boxare
tra i Marines, dopo un’adolescenza di lavoretti saltuari ed
espedienti. Da operaio per un’azienda elettrica, si allena
all’alba, o a tarda sera, prima o dopo il turno di lavoro; quindi
nel 1964 diventa un peso massimo vero e proprio. Con una
caratteristica che è contemporaneamente pregio e difetto: pur di non
andare giù, è disposto a farsi ridurre la faccia in poltiglia. Per
questo diventa “Il sanguinolento di Bayonne”, non il
sanguinario.
Secondo una stima che ha sempre
rivendicato e che è difficile da confutare, sulla pelle del suo viso
sono stati praticati 329 punti di sutura in tutto. Valli a ritrovare,
Chuck, ora, i tuoi veri connotati. Più di settanta di quei punti di
sutura se li becca al termine dell’incontro con George Foreman, nel
1969: come sdraiarsi per tre riprese sotto un martello pneumatico,
fino al KO tecnico. Un anno dopo, la sua faccia è destino che sia
l’ultima in assoluto a trovarsi di fronte le pupille terrificanti
di Sonny Liston, il cui enorme corpo da guerriero il 30 dicembre del
1970 viene trovato su un pavimento, in circostanze poco chiare, solo
come in fondo era sempre vissuto. Nove riprese, scambio di colpi
durissimo, anche Liston le prende, tanto che a un certo punto accenna
a piegare un ginocchio. Il mattino dopo il KO tecnico (un altro)
subito, Wepner non riesce a schiudere le palpebre.
Notti di prestigio, luci della ribalta
da co-protagonista; borse consistenti. Eppure a trentasei anni si
ritrova con tanti incontri senza storia dietro le spalle, con i soldi
che non bastano del tutto e che vanno guadagnati, oltre che sul
quadrato, anche scrollando per le spalle qualche ubriaco troppo
molesto in un nightclub di terz’ordine. E qualcuno lo riconosce
anche, se le ecchimosi e le tumefazioni gli danno tregua,
chiedendogli quanto duramente possa picchiare Foreman, o quanta paura
gli abbia fatto Liston.
Chi è stato Don King? Secondo Mike
Tyson, quando ancora oggi gli tocca descriverlo, “Un miserabile,
viscido e velenoso figlio di puttana”.
Secondo altri, più o meno, anche. Col
piccolo dettaglio che è pure un genio.
Alle pensate improbabili che gli
frullano nella zucca, sotto quella vertiginosa chioma per la quale
manipola ettolitri di lacca, dobbiamo gli eventi pugilistici più
memorabili degli anni Settanta, da “Rumble in The jungle” a
“Trilla in Manila”. Anche l’evento di Cleveland è un’idea
sua: “Ali vs Wepner”. Eh?! Gli è venuta leggendo un numero di
“Boxing Illustrated” in cui vede riportata la classifica dei più
forti pesi massimi di quegli anni. L’elenco è il seguente, a
scendere la graduatoria in ordine gerarchico: Ali, Foreman, Frazier
e… al quarto posto il primo bianco: Chuck Wepner. Se lo meriti o
meno, visto che molti sono i pareri contrari, a Don King non
interessa un fico secco. L’importante è che dopo quindici anni una
certa America bianca possa tornare a sperare di riprendersi il titolo
WBA dei Pesi Massimi. L’ultimo era stato lo svedese Ingemar
Johansson, demolito nel 1960 da Floyd Patterson. Secondo Don King,
che ha visto Wepner contro Liston, Ali può ricevere filo da torcere
dal gigante coi lineamenti pasticciati dai guantoni altrui. E
comunque, a quel punto i soldoni lui li avrà già guadagnati, visto
che il biglietto per l’arena del Richfield Coliseum di Cleveland e
per le sale dove l’incontro viene proiettato a circuito chiuso
costa la cifra esorbitante di dodici dollari. Per garantirsi il posto
in una sala cinematografica del Greenwich Village, li spende anche un
giovane attore in disarmo, che in tasca ne ha trenta in tutto e che
si sta chiedendo che senso abbia continuare col cinema, visto che
fino a quel momento ha girato più che altro lungometraggi softcore,
quasi porno, nella maggior parte dei casi senza spiccicare parola. La
stessa cosa che si stava chiedendo Wepner fino a quando riceve una
telefonata di sua madre che gli dice di aver sentito da qualche parte
che suo figlio avrebbe sfidato Muhammad Ali. Wepner ovviamente accusa
la mamma di essersi bevuta il cervello, salvo scoprire poco dopo che
Don King non si era preso nemmeno la briga di avvisarlo.
“È da tutta la vita che sono un
sopravvissuto. Se ho salvato la pellaccia nei Marines, allora posso
resistere ad Ali”: così risponde ai cronisti che gli chiedono
quante possibilità si assegni di poter sopravvivere sportivamente al
confronto con Muhammad Ali.
Il 24 marzo 1975 Muhammad Ali, reduce
dalla vittoria con Foreman in Africa e con la terza battaglia contro
Frazier, quella di Manila, di là da venire, si ritrova davanti un
uomo che preferisce lasciargli i connotati sui guantoni, pur di non
andare giù. Su questo Don King ha avuto senz’altro ragione. E in
effetti, sin dalla prima campana, ogni cosa di Ali si abbatte su
Wepner: classe, forza, combinazioni mirate e spettacolari. Una
mattanza diluita lungo il corso di tante riprese; perché Ali vuole
dare spettacolo il più possibile e anche perché sa di aver di
fronte uno dei più grandi incassatori di sempre.
Alla nona ripresa, in effetti, Wepner è
ancora in piedi, ancora teso a cercare varchi per il suo jab.
Poi succede, ed è l’istante che non
cambia le sorti dell’incontro ma cambierà buona parte della vita
di Wepner: colpito al fianco da un colpo che nemmeno quest’ultimo
giudicherà così potente, il Campione del mondo va giù. Per quel
solo istante, ma va giù.
«Al, accendi la macchina, andiamo in
banca, siamo milionari!», urla Wepner rivolto all’allenatore Al
Braverman.
«Ehi, Chuck – replica il coach – è
meglio se ti giri. Si sta alzando e pare incazzato di brutto!».
Letteralmente massacrato da tutto il
campionario pugilistico di Ali, Wepner frana addosso alle corde
diciannove secondi prima del termine della quindicesima ripresa,
quasi senza più capire dove abbia il naso, dove sia la bocca. Ma ha
resistito oltre ogni previsione, fino al KO tecnico, forse uno dei
più impegnativi per il vincitore.
E quel giovane attore abbattuto e
squattrinato che ha assistito all’incontro in una sala del
Greenwich Village? Ah già: si chiama Sylvester Stallone, quando esce
dalla sala ha già in mente la sceneggiatura di “Rocky”. Troverà,
in mezzo a tanti rifiuti, un produttore che gli darà retta; grazie
ai fondi stanziati per il film potrà fare una proposta a Wepner,
ingaggiato in qualità di consulente: settantamila dollari subito o,
in alternativa, l’un per cento degli incassi. Chi crederebbe nel
successo di una pellicola del genere, ossia la storia del
semisconosciuto pugile bianco che resiste fino alla fine contro il
grande campione nero? Di certo non Wepner, che accetta i settantamila
subito.
“Avessi scelto l’altra possibilità,
sarei diventato miliardario in pochi mesi”.
Continuerà a essere masticata come la
sua faccia, la vita di Chuck Wepner, il vero Rocky; dilapiderà un
bel po’ di soldi appresso alle donne e al gioco, si riciclerà per
qualche patetica comparsata nel wrestling, finirà sente per qualche
mese a causa della cocaina.
Oggi ha ottantuno anni, vive ancora a
Bayonne, dall’altra parte della baia di Manhattan, anziano e sereno
nel grande corpo monumentale, segnato da tutti quei colpi ai quali ha
resistito, in un modo o nell’altro. Non soltanto sul quadrato.
Ogni volta che gli si parla di Rocky,
quasi si schermisce: – Oh ma io non sono italiano come Balboa, di
italiano ho soltanto la mia terza moglie: mi prepara fantastici
spaghetti.”.
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