venerdì 27 aprile 2018

Mantra

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Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra" e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.
La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture religiose che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo, Buddhismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta l'Asia giungendo in Tibet, in Cina e, attraverso quest'ultima, in Giappone, Corea e Vietnam.

Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue asiatiche

Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce").
Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione".
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito mantra viene così reso:
  • in cinese: 曼憺羅 màndáluó, ma anche 眞言 zhēnyán;
  • in giapponese 眞言 shingon;
  • in coreano 진언 jin-eon;
  • in vietnamita chân ngôn;
  • in tibetano botswanaghana.

Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica

Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita:
(SA)
«śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»
(IT)
«Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino.»
(Ṛgveda, I,89,9. Traduzione di Saverio Sani, in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag.178)
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda).
I mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa). Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte.
Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo.
I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa). In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche

La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera. Ogni mantra va usato nel modo corretto e, a seconda del modo, può dare differenti risultati:
«I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli.»
(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'India, Op. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.

La pratica dei mantra

Un mantra, rigorosamente in lingua sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo o da generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono dissimili dalla consacrazione delle icone.
L'atto di enunciare un mantra è detto uccāra in sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di japa, e di solito è praticata servendosi dell'akṣamālā, un rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono ripetuti fino a un milione di volte:
«Ogni ripetizione indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la condizione delle ulteriori esperienze.»
(Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
Un aspetto importante nell'uccāra è il controllo della resipirazione. Frequente, soprattutto nelle tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è "movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia interiore.

I bīja

I bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono:
  • AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
  • AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
  • HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
  • ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
  • KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
  • KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
  • DUṂ: la dea Durga.
  • GAṂ: il dio Ganapati.
  • HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
  • LAṂ: la terra
  • VAṂ: l'acqua
  • RAṂ: il fuoco
  • YAṂ: l'aria
  • HAṂ: l'etere
Nella Yogattatva Upaniṣad i suddetti bīja, corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da quest'ultimo alla sommità del capo: etere. La recitazione consente di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.
  • SAUḤ: il cuore, simbolo dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat ("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza in Dio, la sua immanenza nel mondo.
Infine, i cinquanta fonemi dell'alfabeto sanscrito possono essere utilizzati come mantra essi stessi, singolarmente o variamente combinati; ogni fonema può corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei mantra.

Alcuni mantra

  • Rudra mantra
ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम् ।उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi, profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci dai legami della morte."
Il mantra è rivolto a Śiva nel suo aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211); Uddīsha Tantra (94).
  • Gāyatrī mantra
ॐ भूर्भुवस्व: | तत् सवितूर्वरेण्यम् | भर्गो देवस्य धीमहि | धियो यो न: प्रचोदयात्
Oṃ bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi della vita]."
Composto di dodici più dodici sillabe, è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10); Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (5, 15).
  • Oṃ Maṇi Padme Hūṃ
ॐ मणि पद्मे हूँ
Om Mani Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello, simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù contemplata dal Buddhismo.
  • Mantra rāja
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna, Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."
Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino.
  • Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā
Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei: Karpūradi Stotra (5); Karpura-stava (5).
  • Śiva panchākśara mantra
ॐ नम: शिवाय
Oṃ namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."
È il mantra principale nelle correnti devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa.
  • Netra mantra
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra dell'occhio di Śiva", ed è citato nel Netra Tantra, cap. VII.
  • Viṣṇu astākśara mantra
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."
Il mantra è rivolto a Viṣṇu, essendo Nārāyaṇa appellativo del dio.
  • Hare Kṛṣṇa mantra
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare
Noto anche come Mahā mantra ("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a partire dagli anni sessanta per opera della International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come "gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York. Hare è uno degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa medesimo, completa manifestazione di Īśvara.

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giovedì 26 aprile 2018

Programma di arti marziali del Corpo dei marine

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Il Programma di arti marziali del Corpo dei marine (in inglese MCMAP, Marine Corps Martial Arts Program) è un sistema di combattimento sviluppato dal Corpo dei marine degli Stati Uniti per combinare tecniche di combattimento corpo a corpo nuove e già esistenti con il sistema etico di questa branca delle forze armate statunitensi.
Lanciato nel 2001 allo scopo di "rivoluzionare e sostituire le precedenti tecniche di combattimento nella formazione delle forze armate statunitensi", il programma addestra Marines e personale della Marina nel combattimento a mani nude, con armi da taglio, armi non convenzionali, fucile e baionetta. Si concentra anche sullo sviluppo mentale e personale, dedicando grande attenzione allo sviluppo di caratteristiche quali la leadership e il lavoro di gruppo.

Sistema di gradazione

Al contrario di molte altre arti marziali di origine militare, l'MCMAP prevede un preciso sistema di cinture finalizzate ad indicare il grado di conoscenza del praticante; in ordine crescente esse sono di colore marrone chiaro, grigio, verde, marrone e nero. A partire dalla cintura verde è possibile applicare anche una striscia (rosa da verde a marrone, rossa per le cinture nere) per indicare un istruttore qualificato. Le cinture nere vanno dal primo al sesto dan.

Addestramento e tecniche

Come già sottolineato, l'MCMAP è finalizzato non solo a fornire agli appartenenti alle forze armate una adeguata preparazione militare ma anche a favorirne la crescita come individui: per questo i praticanti vengono sottoposti ad allenamenti fisici e mentali specializzati, come ad esempio il combattimento con sottoposizione di spray urticanti al volto.
Le principali arti marziali utilizzate come base per la creazione di questo sistema possono essere individuate nelle seguenti: Jiu jitsu brasiliano, lotta libera, pugilato, Savate, Jiu-jitsu, Judo, Sambo, Krav Maga, Karate stile Isshin-Ryu, Aikidō, Muay Thai, Eskrima, Hapkido, Taekwondo, Kung Fu e Kickboxing.
I praticanti vengono inoltre istruiti in modo da applicare ad ogni singola fattispecie il giusto livello di pericolosità circa la tecnica utilizzata, indicando l'uso di quelle letali come extrema ratio.
 
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mercoledì 25 aprile 2018

Mark Dacascos

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Mark Alan Dacascos (Honolulu, 26 febbraio 1964) è un attore, artista marziale e stuntman statunitense.

Biografia

Infanzia

Suo padre, Al Dacascos, è un famoso maestro di arti marziali e creatore dello stile Wun Hop Kuen Do (che unisce stili cinesi e filippini): diviene il primo insegnante del figlio quando questi compie 6 anni, così come lo era stato di Moriko McVey, madre di Mark. Lo stile del padre è una derivazione del Kajukenbo (il cui nome deriva dalle iniziali degli stili che raggruppa: karate, Jūdō, kenpo, boxe), ed è stato sviluppato nelle isole Hawaii.
Quando il padre di Mark si risposa con Malia Bernal, più volte campionessa femminile statunitense di arti marziali (armi, combattimento e forme), quest'ultima diviene la seconda maestra di Mark. Malia è stata anche la prima donna ad apparire sulla copertina dell'illustre rivista statunitense Black Belt, dedicata al mondo delle arti marziali. Nel 1973, all'età di 9 anni, Mark vince il suo primo torneo internazionale, il Long Beach Internationals.

Adolescenza

Nel 1981, all'età di 17 anni, si trasferisce a Taipei, in Taiwan, per studiare con il suo terzo maestro, Shen Muo-Hui, esperto di Chin-Na e di Shuai Jiao (versione cinese della lotta). Studia anche alcuni stili del kung-fu Shaolin dal maestro Jiang Hao-Quane il Karate. Inoltre studia capoeira con Amen Santo, il quale recita con Mark nel film Solo la forza (Only the Strong, 1993).

La notorietà

Mark ottiene la copertina e uno speciale su di lui su Men's Fitness del novembre 1998, e appare sulla copertina della rivista specialistica Inside Kung Fu nel gennaio 1999.
Nel 1985, come racconta lo stesso Mark, mentre gira con la fidanzata per Chinatown, a San Francisco, viene fermato da due agenti cinematografici che gli chiedono se sia un attore. Alla risposta negativa gli propongono un provino, e così lo stesso anno Mark si ritrova attore in un film, Dim Sum: A Little Bit of Heart (alla fine delle riprese, però, le sue scene verranno tagliate). Dopo qualche apparizione in film minori come Angel Town (1990) o L'oro dei Blake (Dead on the Money, 1991), il successo arriva con Solo la forza (Only the Strong, 1993), dove interpreta un insegnante di capoeira che tenta di insegnare questo stile a dei ragazzi sbandati per salvarli dalla vita di strada. Lo stesso anno viene preso in considerazione (ma poi scartato) per la parte di Bruce Lee nel film briografico Dragon - la storia di Bruce Lee. Seguono altri B-movie come Guerriero senza tempo (American Samurai, 1993) e Double Dragon (1994), quest'ultimo tratto dal famoso videogioco omonimo. Nel 1995 interpreta l'amico di uno dei fratelli Sloane in Kickboxer 5, quinto e ultimo episodio della saga iniziata da Jean-Claude Van Damme.
Il successo e la notorietà cinematografica gli arrivano nel 1995 con Crying Freeman di Christophe Gans, trasposizione del famoso manga omonimo. Ma mentre aumenta la sua fama, diminuisce la sua marzialità sullo schermo. Infatti in Crying Freeman Mark riduce al minimo la sua prestanza atletica, lasciando così trapelare anche la sua bravura recitativa. Infatti nei film seguenti, come Incubo mortale (Deadly Past, 1995) o DNA (1997), Mark si impegna esclusivamente come attore, lasciando da parte la sua eccezionale prestanza atletica o la sua marzialità. L'unica eccezione arriva con Drive (1997), di Steve Wang, film che nasce esclusivamente come film di arti marziali, e in cui Mark mostra il meglio delle sue capacità, come a voler dimostrare di essere sì un bravo attore, ma anche un ottimo artista marziale. Una curiosità è data dal fatto che nel film, quando al personaggio di Mark viene chiesto come si chiami, per nascondere la propria identità lui risponde "Sammo Hung", per omaggiare il grande regista e attore di Hong Kong. Il quale, come a volerlo ringraziare, lo chiama l'anno successivo a partecipare ad un episodio della serie Più forte ragazzi (Martial Law), da lui ideata e interpretata.

Il corvo

Il 1998 è l'anno che vede Mark nei panni di Eric Draven, il protagonista de Il Corvo (The Crow, 1994) interpretato da Brandon Lee. Visto infatti il successo di questo film, nasce una serie di telefilm con Mark protagonista, intitolati The Crow: Stairway to Heaven. Ne viene girata solo una stagione, per un totale di 22 episodi. In Italia escono i primi due episodi in home video col titolo Il corvo: La resurrezione, in seguito la serie completa viene trasmessa dalla televisione pubblica.

Anni 2000

Mentre Mark negli anni successivi sembra specializzarsi in B-movie d'azione (ma non di arti marziali), come Codice criminale (No Code of Conduct, 1998) o La base (The Base, 1999), un'altra eccezione arriva nel 2001, quando Christophe Gans, il regista di Crying Freeman, lo rivuole per un suo film, Il patto dei lupi (Le Pacte des loups). Il film è prima un grande successo europeo, poi internazionale, e anche se Mark non ha spazio come attore, può però mostrare la sua bravura atletica e marziale, dando corpo a dei combattimenti a cui ormai i suoi fan non erano più abituati.
Un'altra occasione "marziale" arriva nel 2003 da Andrzej Bartkowiak, che lo chiama per il suo Amici per la morte (Cradle 2 the Grave), dove interpreta il suo primo ruolo da cattivo. Il film però vede la presenza in ruoli da protagonisti di Jet Li e DMX, due grandi personaggi, in generi differenti, che rubano la scena a Mark, il quale non ha modo di farsi apprezzare nel film.
Nel 2010 viene ingaggiato dalla CBS per interpretare il cattivo per eccellenza, Wo Fat, nel remake di Hawaii Five-0
Dal 2013 prende parte alla seconda stagione della web serie di Mortal Kombat: Legacy, nel ruolo di Kung Lao.

Vita privata

Nel 1998 sposa Julie Condra, con cui aveva recitato insieme nel film Crying Freeman (1995). Con lei ha avuto un figlio, Makoalani Charles Dacascos, nato il 31 dicembre 2000 ad Oahu nelle Hawaii.

Tornei vinti

  • Long Beach Internationals (Pee Wee) - 1973
  • Long Beach Internationals, forme (Brown Belt Division) - 1980
  • Hamburg Karate Championships (Junior) - 1980
  • Hamburg Karate Championships (Junior Division) - 1982
  • Italian Kung Fu and Karate Championships, pesi leggeri (Brown Belt Division) - 1982
  • European Kung Fu and Karate Championships, pesi leggeri (Brown Belt Division) - 1982


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martedì 24 aprile 2018

Wai

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Il wai è un gesto con cui in Thailandia si saluta e si dimostra rispetto. In Cambogia tale termine viene tradotto con la parola sampeah ed in Laos con nop. In alcuni casi è in tali Paesi anche un modo di dimostrare la propria devozione. Il gesto e il contesto in cui viene usato sono analoghi a quelli del namasté indiano, cingalese e nepalese, con l'utilizzo della posizione di preghiera detta pranamasana o Añjali Mudrā.
Viene realizzato congiungendo le mani, unendo i palmi con le dita rivolte verso l'alto, e tenendole all'altezza del petto, del mento o della fronte, facendo al contempo un inchino. Alcuni dettagli cambiano a seconda della persona o divinità a cui è rivolto il saluto o la riverenza. Viene usato quando le persone si incontrano, al momento dei saluti finali, nonché per ringraziare o per scusarsi.

Saluto

Secondo la tradizione di Thailandia, Laos e Cambogia, wai, nop e sampeah esprimono rispetto e devono essere fatti per primi dalla persona più giovane o da chi ha uno status sociale inferiore a colui il quale il saluto è rivolto. Sono quindi gli studenti a rivolgere il saluto per primi agli insegnanti, i giovani agli anziani, figli e nipoti a genitori, zii e nonni, impiegati al capo-ufficio ecc. Le mani giunte vanno tenute con le punte delle dita vicine al mento ed il gesto va accompagnato con un inchino della testa. Più differenza di status c'è tra le due persone o più benevolenza si vuole ottenere, maggiore è l'inchino che di solito si fa con la testa e più alte van tenute le mani giunte.
La persona più anziana o di status più alto risponde al saluto tenendo le mani giunte leggermente più in basso e flettendo meno il capo nell'inchino o non flettendolo affatto. Tra coetanei, persone di pari grado sociale o tra estranei di cui non si conosca il grado sociale si usa tenere le mani giunte vicine al mento senza chinare la testa.
Il wai in Thailandia di solito viene fatto dicendo sawat dii krap o sawat dii kah, il primo detto dai maschi e il secondo dalle femmine. Sawat dii (in thai: สวัสดี) viene dal sanscrito ed ha la stessa origine della radice svasti, compresa nel termine svastica, a sua volta composta dal prefisso su- (buono, bene) e da asti (coniugazione della radice verbale as: "essere"). Significato simile all'italiano salve (salute a voi). Il termine sawat dii fu coniato negli anni trenta del Novecento presso l'Università Chulalongkorn di Bangkok.
In Laos, sia uomini che donne usano dire l'analogo sabai dii (in lingua lao: ສະບາຍດີ) quando fanno il nop, mentre in Cambogia dicono cumriep sue (in lingua khmer: ជំរាបសួរ) quando si incontrano e cumriep lie (in khmer: ជំរាបលា) ai saluti finali.

Riverenza

Il gesto va fatto in maniera diversa a un monaco buddhista, ad un'immagine del Buddha o quando si passa davanti a un monastero. In tali casi, in segno di riverenza, la punta delle dita va tenuta in corrispondenza della fronte e l'inchino va fatto con il busto e la testa contemporaneamente. Durante le cerimonie, i devoti buddhisti si inginocchiano davanti ai monaci con le mani giunte sulla fronte e durante l'inchino si portano le mani in avanti e si abbassa la testa fino a toccare il pavimento. Il rito andrebbe ripetuto per tre volte davanti alle immagini del Buddha.
Secondo un'antica tradizione religiosa, in presenza dei regnanti i sudditi si prostrano nello stesso modo in cui lo fanno per i monaci, senza alzare la testa a guardare i sovrani. Tale cerimoniale si basa sul fatto che il monarca in questi Paesi era un'emanazione della divinità. Le monarchie sono rimaste solo in Thailandia e Cambogia, quest'ultima ridimensionata dopo la presa di potere dei khmer rossi nel 1976, mentre l'ultimo re del Laos ha abdicato nel 1975. L'antica tradizione della prostrazione davanti al re viene tuttora praticata negli incontri privati con il re di Thailandia, malgrado l'obbligo di prostrarsi e di non guardare in faccia i reali sia stato rimosso ai tempi di re Chulalongkorn, che regnò dal 1868 al 1910.

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lunedì 23 aprile 2018

Airavata

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Airavata (ऐरावत) è un elefante bianco mitologico che trasporta il dio hindu Indra. Viene chiamato anche 'Ardha-Matanga', che significa "elefante delle nuvole", 'Naga-malla', ovvero "l'elefante combattente" e 'Arkasodara', ovvero "fratello del sole". 'Abharamu' è l'elefantessa moglie di Airavata. Airavata ha quattro zanne e sette proboscidi, ed è di un bianco immacolato. È noto come Airavatam in lingua tamil ed Erawan in lingua thai.

Nelle tradizioni hindu

Secondo il Ramayana, la madre dell'elefante era Iravati. Secondo il Matangalila, Airavata nacque quando Brahma cantò i sacri inni sopra le metà dei gusci d'uovo che Garuda aveva covato, seguito da altri sette maschi e e da otto femmine. Prithu rese Airavata re di tutti gli elefanti. Uno dei suoi nomi significa "colui che tesse le nuvole", dato che secondo il mito sarebbe in grado di produrre le nuvole. Il legame di Airavata con acqua e pioggia è enfatizzato nella mitologia di Indra, che lo cavalca quando sconfigge Vritra. Questo potente elefante immerge la propria proboscide nel mondo sotterraneo, ne succhia l'acqua e la vaporizza creando le nuvole, che poi Indra usa per causare le piogge, unendo così le acque del cielo a quelle del sottosuolo.
Airavata si trova anche all'entrata di Svarga, il palazzo di Indra. Inoltre le otto divinità guardiane che presiedono i punti cardinali della rosa dei venti, siedono ognuna su un elefante, che prende parte alla difesa ed alla protezione della relativa zona. Il loro capo è l'Airavata di Indra. C'è un riferimento ad Airavata nel Bhagavadgita.
A Dharasuram, vicino a Thanjavur, si trova il tempio di Airavatesvara, in cui si crede che Airavata venerasse il Linga. Il tempio, il cui nome significa Linga di Airavata, abbonda di rare sculture ed opere architettoniche e fu costruito da Rajaraja Chola II, sovrano dell'Impero Chola nel sud dell'India tra il 1146 ed il 1173 d.C..

Erawan

Erawan (thai: เอราวัณ) è il nome in thai ed in lao di Airavata. È descritto come un elefante enorme con tre (o a volte 33) teste, spesso raffigurate con più di due proboscidi. Alcune statue mostrano il dio hindu Indra mentre cavalca Erawan. Viene a volte associato al vecchio regno lao di Lan Xang (lett.: un milione di elefanti) ed al defunto Regno del Laos, i cui emblemi reali raffiguravano Erawan, più comunemente noto come "L'elefante a tre teste".


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domenica 22 aprile 2018

Sistema di indirizzo giapponese

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Il sistema di indirizzo (住居表示 jūkyo hyōji) giapponese è utilizzato per identificare ogni luogo del Giappone. Questo sistema differisce dai canoni di presentazione dell'indirizzo postale occidentale, poiché comincia con il luogo geografico più generale per terminare con quello più specifico.

Storia

La legge giapponese sul sistema d'indirizzo è stata promulgata il 10 maggio 1962, al fine di rendere le zone urbane meglio identificabili e facilitare così la consegna della posta. Il sistema utilizzato è stato modificato dall'era Meiji.
Per ragioni storiche, alcuni nomi di luoghi sono identici. A Hokkaidō, numerosi luoghi possiedono un nome identico ad altre località del Giappone, risultato di un'immigrazione di abitanti dal resto del Giappone. Gli storici hanno notato che Hokkaidō possiede numerosi edifici il cui nome proviene da località dalla regione del Kansai e dal nord di Kyūshū.

Principio

Il Giappone è diviso in 47 prefetture (都道府県 todōfuken). Queste prefetture sono suddivise in città ( shi), o in distretti ( gun) che raggruppano delle cittadine ( chō/machi) e dei villaggi ( son/mura). Della prefettura di Tōkyō fanno parte anche 23 quartieri speciali (特別区 tokubetsuku). La maggior parte delle municipalità (市町村 shichōson) sono in seguito divise in quartieri, tranne le città designate per ordinanza governativa, vale a dire quasi tutte le città di popolazione superiore ai 500000 abitanti, che sono prima divise in circondari ( ku) e poi in quartieri.
Queste municipalità o quartieri sono a loro volta separati in “sezioni di quartiere” (丁目 chōme), poi in “blocchi di edifici” (番地 banchi), che raggruppano infine dei “numeri di edificio” ( ). Queste tre divisioni sono numerate, e non denominate. Il numero dei blocchi di edifici è generalmente attribuito dall'ordine di vicinanza al municipio: più la cifra è grande, più il blocco è lontano dal municipio. Gli edifici non sono numerati in modo sequenziale per rapporto alla loro situazione sulla strada (le vie non hanno generalmente dei nomi), ma piuttosto in base alla loro data di costruzione.

L'indirizzo

Gli indirizzi giapponesi cominciano con la più grande divisione del paese: la prefettura. Esse sono generalmente chiamate ken (), ma esistono tre altri nomi speciali: to () per la prefettura di Tōkyō, () per la prefettura di Hokkaidō, e fu () per le prefetture urbane di Ōsaka e di Kyōto.
Sotto la prefettura, si trova la municipalità. Per le grandi municipalità, si parla di città, (shi, ). La metropoli di Tōkyō possiede delle città ordinarie e dei quartieri speciali, ciascuno costituente una municipalità urbana a sé stante. Per le municipalità più piccole, gli indirizzi devono includere il distretto (gun, ), seguito dal nome della cittadina (chō o machi, ) o del villaggio (son o mura, ).
L'elemento successivo all'indirizzo è l'ubicazione nella municipalità. Parecchie città possiedono dei quartieri (ku, ), che a loro volta possono essere divisi in chō o machi (). Le città possono essere divise in parti più piccole chiamate, chō o machi (), le quali possono essere divise in ōaza (大字), che a loro volta possono essere suddivise in aza (), le quali possono essere divise in parti ancora più piccole chiamate koaza (小字).
I tre ultimi elementi dell'indirizzo nel sistema jūkyo hyōji sono i distretti urbani (chōme, 丁目), i blocchi (ban, ) ed il numero dell'abitazione (, ). La numerazione dei distretti e quella dei blocchi sono generalmente assegnate in relazione alla vicinanza con il centro della municipalità. La numerazione dell'abitazione è solitamente attribuita nell'ordine per tutti i blocchi della città. I tre ultimi tre elementi dell'indirizzo nel sistema chiban (nelle regioni dove il sistema jūkyo hyōji non è stato messo in funzione) sono i distretti urbani (chōme, 丁目), il numero di area (banchi, 番地) e l'estensione del numero di area. Il numero di area e la sua estensione designano un terreno registrato al servizio del catasto. Un'estensione del numero di area è assegnata quando un terreno è diviso in parecchi appezzamenti catastali.
Questi tre elementi sono in genere scritti come una catena, 1-2-3, cominciando con il numero del chōme, seguito dal numero del ban e terminato con il numero del . Quando si tratta di un condominio, non è rara l'aggiunta di un quarto numero: il numero d'appartamento.
Questo sistema di tre numeri, relativamente recente, non è applicato in certe strutture, come i quartieri antichi delle città o le zone rurali poco popolate, dove il banchi è scritto dopo il machi o lo aza.
I nomi delle vie sono raramente utilizzati, ad eccezione di Kyōto e di qualche città di Hokkaidō, la maggior parte delle strade giapponesi non hanno un nome. I blocchi hanno qualche volta una forma irregolare poiché i numeri di ban sono stati attribuiti con il vecchio sistema nell'ordine d'iscrizione al catasto. Questa irregolarità si nota soprattutto nei quartieri antichi.
È per questa ragione che quando si indica una direzione, la maggior parte delle persone fornisce come indicazioni le intersezioni, gli eventuali segnali visuali e le stazioni della metropolitana. Numerose aziende imprimono una mappa sui loro biglietti da visita. Inoltre, delle segnalazioni sono sovente annesse a dei pali per indicare il nome del distretto ed il numero del blocco dove lo si trova, ed una mappa dettagliata dei dintorni è a volte affissa al numero della fermata dell'autobus e dell'uscita della stazione.
Dalla riforma del 1998, in aggiunta all'indirizzo stesso, tutti i luoghi del Giappone possiedono un codice postale. Si tratta di un numero a 3 cifre seguito da un trattino e poi da un numero di 4 cifre, come ad esempio 123-4567. Un marchio può precedere questi numeri per indicare che si tratta di un codice postale.

Scrittura dell'indirizzo

L'indirizzo giapponese è scritto cominciando dalla zona più grande fino a quella più ristretta, con il nome del destinatario in fondo. Per esempio, l'indirizzo della Posta Centrale di Tōkyō[3] è:
100-8994
東京都中央区八重洲一丁目53
東京中央郵便局
100-8994
Tōkyō-to Chūō-ku Yaesu 1-Chōme 5-ban 3-gō
Tōkyō Chūō Yūbin-kyoku
oppure
100-8994
東京都中央区八重洲1-5-3
東京中央郵便局
100-8994
Tōkyō-to Chūō-ku Yaesu 1-5-3
Tōkyō Chūō Yūbin-kyoku
Per contro, per rispettare le convenzioni occidentali, l'ordine è invertito quando l'indirizzo è scritto in rōmaji. Il formato raccomandato per la posta giapponese è:
Tokyo Central Post Office
5-3, Yaesu 1-Chome
Chuo-ku, Tokyo 100-8994
In questo indirizzo, Tōkyō è la prefettura, Chūō-ku è uno dei quartieri speciali, Yaesu 1-Chome è il nome del quartiere ed il numero del distretto, 5 è il numero dell'unità e 3 il numero della residenza. È ugualmente comune rimuovere la parola chōme ed utilizzare la forma breve:
Tokyo Central Post Office
1-5-3 Yaesu, Chuo-ku
Tokyo 100-8994.

Esempio

L'indirizzo dell'Ambasciata francese in Giappone è «106-8514 Tōkyō-to Minato-ku Minami-Azabu 4-11-44» (106-8514 東京都港区南麻布4-11-44 che scritto all'occidentale diviene 4-11-44 Minami-Azabu, Minato-ku, Tōkyō 106-8514). La scrittura in kanji yon-chōme 11-ban 44-gō (四丁目1144 yon significa 'quattro') è egualmente possibile.
Si ottiene quindi l'ordine:
  • 106-8514, il numero del registro catastale o del codice postale;
  • Tōkyō-to, la prefettura;
  • Minato-ku, il circondario;
  • Minami-Azabu, uno dei trenta quartieri del circondario;
  • 4 è la sezione del quartiere;
  • 11 è il blocco di edifici;
  • 44 è il numero di edificio.
L'indirizzo della Torre di Kyōto è così «600-8216 Kyōto-fu Kyōto-shi Shimogyō-ku Higashi-Shiokōji 721-1» (600-8216 京都府京都市下京区東塩小路721-1): i quartieri sono piccoli, perciò non ci sono sezioni di quartiere.

Eccezioni

Parecchie località utilizzano dei sistemi d'indirizzo speciali, alcuni di essi integrati nel sistema ufficiale, come quello di Sapporo, mentre quello di Kyōto è totalmente differente, ma utilizzato parallelamente al sistema ufficiale.

Kyoto

Nonostante a Kyōto sia usato il sistema ufficiale, nella forma Chiban con i quartieri ( ku), i distretti (丁目 chōme), ed i numeri di zona (番地 banchi), i chō () sono molto piccoli e numerosi e possono avere un nome identico ad un altro chō del medesimo quartiere, rendendo il sistema estremamente confuso. In conseguenza, gli abitanti di Kyōto utilizzano un sistema non ufficiale basato sui nomi delle vie, una sorta di geografia vernacolare. Questo sistema è riconosciuto dalla posta e dalle agenzie governative.
Per maggiore precisione, l'indirizzo basato sulle vie può essere seguito dal chō e dal numero di area. Quando parecchie case condividono lo stesso numero di area, conviene allora precisare il nome (cognome o nome completo) del residente, che è di solito affisso davanti alla casa, sovente in maniera decorativa, seguendo l'esempio dei numeri di case che si trovano in altri paesi.
Il sistema si basa sulla denominazione degli incroci delle strade; si indica in seguito se l'indirizzo si situa a nord (上ル agaru, "salire"), a sud (下ル sagaru, "descendre"), a est (東入ル higashi-iru, "entrare ad est") o ad ovest (西入ル nishi-iru, "entrare ad ovest") dell'intersezione. Eppure, le due vie dell'incrocio non sono disposte in maniera simmetrica: la via in cui si trova l'edificio è denominata, poi la via trasversale vicina, infine l'indirizzo è specificato per rapporto a quella via trasversale. Un edificio può quindi avere parecchi indirizzi in relazione all'incrocio scelto colla via principale.
L'indirizzo ufficiale della Torre di Kyōto è:
600-8216
京都府京都市下京区東塩小路721-1
600-8216, Kyōto-fu, Kyōto-shi, Shimogyō-ku, Higashi-Shiokōji 721-1
Tuttavia, l'indirizzo informale della Torre di Kyōto è:
600-8216
京都府京都市下京区烏丸七条下ル
600-8216, Kyōto-fu, Kyōto-shi, Shimogyō-ku, Karasuma-Shichijō-sagaru
L'indirizzo qui sopra significa «a sud dell'incrocio delle vie Karasuma e Shichijō» (più precisamente «su Karasuma a sud di Shichijō», Karasuma è nella direzione nord-sud, e Shichijō è la trasversale est-ovest). L'indirizzo avrebbe potuto comunque essere scritto come: 烏丸通七条下ル; con la via ( dōri) inserita, che indica chiaramente che l'indirizzo è nella via Karasuma.
Il sistema è però flessibile e permette alternative differenti, come:
京都府京都市下京区烏丸塩小路上ル
Kyōto-fu, Kyōto-shi, Shimogyō-ku, Karasuma-Shiokōji-agaru
"(nella) (via) Karasuma, salire (a nord) (della via) Shiokōji"
Per gli edifici meno conosciuti, l'indirizzo ufficiale è sovente scritto dopo quello informale, come per esempio quello di un ristorante:
京都府京都市下京区烏丸通五条下ル大坂町384
Kyōto-fu, Kyōto-shi, Shimogyō-ku, Karasuma-dōri-Gojō-sagaru, Ōsakachō 384
"Ōsakachō 384, (nella) via Karasuma, scendere (a sud di) Gojō"

Sapporo

Il sistema applicato a Sapporo, malgrado ufficiale, differisce nella sua struttura da indirizzi giapponesi comuni. La città è divisa in quattro nel suo centro per due vie che s'incrociano. I blocchi sono in seguito denominati in rapporto alla loro distanza da questa intersezione. La distanza est-ovest è indicata dal chōme (il suo uso è però leggermente diverso a quello di altre città), mentre la distanza nord-sud è indicata dal , incorporato al nome del chō.
L'indirizzo della Sapporo JR Tower è:
札幌市中央区北5条西2丁目5番地
Sapporo-shi, Chūō-ku, Kita-5-jō Nishi-2-chōme 5-banchi
L'indirizzo indica il quinto edificio nel blocco a nord (kita, ) ed a due blocchi a ovest (nishi, 西) dal centro.
Sebbene le vie di Sapporo formino una "griglia" abbastanza regolare nel centro della città, all'esterno, è più difficile utilizzare il punto d'origine tradizionale. In questo caso, è designato arbitrariamente un altro punto di divisione, a partire dal quale i chōme ed i sono calcolati.

Prefettura di Ishikawa

Certe città della prefettura d’Ishikawa, come le città di Kanazawa e di Nanao, utilizzano talvolta il Katakana nell'ordine Iroha invece dei numeri per i blocchi. Questi Katakana sono chiamati bu ().
Per l'esempio, l'indirizzo di un hotel situato a Nanao è:
926-0192
石川県七尾市和倉町ヨ80
926-0192, Ishikawa-ken, Nanao-shi, Wakuramachi yo 80

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sabato 21 aprile 2018

T'ien shu

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Il T'ienshu è un sistema di autodifesa che si basa su un modello di attacco ideato e codificato dal fondatore con l'acronimo: CSTB (colpire - spingere - tirare - bloccare); in base a questo modello di attacco libero, vengono presentate, tramite programmi, la metodologia di difesa sia di base che avanzate.
La parola T'ienshu è composta da due termini: (T'ien=quiete, pacifico) e (Shu=arte, metodo, sistema). Il suo significato sta per: "Arte della pace, della quiete interiore"
Fondato in Italia nel 1970 dal maestro Fernando Tronnolone, il T'ienshu - dopo circa 20 anni di codifiche e aggiornamenti teorico-applicativi viene riconosciuta come disciplina marziale nel 1989 dalla Federazione Italiana Wushu, già FIWuK CONI, e nel 1994 dall'Ente sportivo ASI, attuale Associazioni sportive sociali italiane, Ente riconosciuto dal CONI, con il quale collabora, avendo il Coordinamento nazionale della Disciplina.

T'ienshu - disciplina di autodifesa

Il T'ienshu deriva da alcune arti marziali presenti in Italia negli anni '60, tuttavia questo metodo pone l'accento sul valore dell'individuo, sul singolo praticante, e non su questa o quella determinata tecnica o su questo o quello specifico stile.
Nel corso degli anni '70 lo stesso Caposcuola cercò di avvicinare la mentalità occidentale ai principi classici della filosofia cinese (questo il motivo per cui anche se la disciplina è europea ha assunto il nome: T'ien Shu), in particolar modo al trittico Tao Yin Yang ed ai Cinque elementi (Terra, Metallo, Acqua, Legno e Fuoco) con i suoi due cicli (generativo e di controllo), non interpretati però secondo la concezione taoista ma con concetti diversificati” nel T'ienshu quale disciplina marziale occidentale. Egli, infatti, pur rispettando contenuto, finalità e significato della filosofia cinese riguardo al trittico Tao Yin Yang ed ai Cinque Elementi, ritenne opportuno avvicinare dei concetti comprensibili alla mentalità occidentale, definendo il trittico Tao Yin Yang ed i Cinque Elementi quali componenti dell'uomo nella sua totalità ed all'interno dell'ambiente in cui egli vive e si realizza.
Rimanendo saldi questi principi teorici, ormai cardini della disciplina del T'ienshu, il Caposcuola, consapevole dei mutamenti che avvengono nella società e nell'ambiente, ha istituito una regola basilare ed indispensabile affinché la stessa disciplina potesse percorrere fasi evolutive e di crescita, non fossilizzandosi ma sviluppandosi attraverso cicli quinquennali, in modo tale da aggiornarsi, adeguandosi ed adattandosi nei vari quinquenni succedutisi. A tutt'oggi, a partire dalla sua fondazione nel 1970, il T'ienshu ha superato ben nove quinquenni adattandosi a diverse realtà durante il suo percorso di crescita e formativo.
Lo stesso maestro Tronnolone ha fatto sì che questo sistema, questo metodo di autodifesa, nelle attività di formazione teorica, si interfacciasse con tematiche come: il bullismo tra i teenager, la violenza contro le donne, la prevenzione e pericolo negli ambienti esterni, le insidie nei social network rete sociale, il cyberbullismo, ma soprattutto, insegnare a distinguere e comprendere a fondo, in modo pragmatico le differenze tra simulazione e realtà, dove ad esempio, affrontare un uomo armato nella realtà non è come simularlo in palestra perché per la strada, in caso di violenza, non esistono regole, principi etico-morali o rispetto che tengano, ma solo la consapevolezza di ciò che si è e dei propri limiti.

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venerdì 20 aprile 2018

Qwan Ki Do

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Il Qwan Ki Do è un'arte marziale cino-vietnamita codificata dal Maestro Pham Xuan Tong. Fin da giovane egli poté apprendere lo stile vietnamita dal prozio Pham Tru e lo stile cinese dal Maestro Chau Quan Ky (朱颧期, Zhu Quanji in Pinyin). Il Maestro Chau riuniva nella sua scuola vari stili: Kejiaquan (客家拳); qualche stile di Emeipai (峨眉派); Zhoujia Tanglangquan (周家螳螂拳) meglio conosciuto come Tanglangquan del Sud; Thiêu Lâm Nam Phai (in Cinese Shaolin Nanpai, 少林南派, vedi Nanquan / Nam Quyên) che risulta essere un insieme di esercizi presi da differenti tradizioni del Sud della Cina tipicamente Vietnamita. Per terminare la sua preparazione, il Maestro Pham Xuan Tong si trasferì in Francia, unendo alla sua già vasta conoscenza, anche le nozioni apprese nel nuovo Paese.
Nel 1981 nacque la World Union of Qwan Ki Do che attualmente ha dei rappresentanti in Europa, America, Africa. In Italia è rappresentata dalla Unione italiana Qwan Ki Do che è diretta dal Maestro Roberto Vismara, uno dei discepoli diretti del Maestro Pham Xuan Tong, che grazie all'aiuto dell'équipe nazionale si occupa personalmente della formazione dei numerosi istruttori che, in molte città hanno palestre in cui insegnano questa arte marziale.
Il Maestro Pham Xuân Tong riconosce nel termine Qwan Ki Do l'omaggio al Grande Maestro Chau Quan Ky menzionandolo foneticamente nel nome del metodo.

La corrente cinese

Nel Qwan Ki Do è quindi confluito l'insieme di apprendimenti del Maestro Chau Quan Ky, che quest'ultimo ha raccolto in un sistema che chiamava Emei Huhezhao Men (峨眉虎鹤爪门, in pronuncia vietnamita Nga mi hổ hac trao mon). Questo sistema conteneva elementi dei seguenti insiemi di stili cinesi:
  • Il Kejiaquan (客家拳, letteralmente "Pugilato degli Hakka") (in pronuncia vietnamita khách già quyền). Il Maestro Chau apparteneva a questa minoranza.
  • La Emeipai (峨眉派, letteralmente "Scuola di Emei") (in pronuncia vietnamita Nga mi phái). È l'insieme di stili che rivendicano la propria origine nei dintorni del Monte Emei, visto che viene citata nel nome dello stile di Chau deve rivestire un ruolo molto importante nella sua formazione.
  • Il Nanquan (南拳, letteralmente "Pugilato del Sud") (in pronuncia vietnamita Nam quyền). Questa è una classificazione che fa da contenitore a numerosi stili. Nei documenti del Qwan Ki Do vi si fa riferimento anche come Shaolin Nanpai (少林南派, Fazione del Sud dello Shaolin, in pronuncia vietnamita Thiếu Lâm nam phái).
L'unico stile a cui si fa riferimento con precisione è il Tanglangquan (螳螂拳, letteralmente "Pugilato della Mantide Religiosa") (in pronuncia vietnamita Đường long quyền). Lo stile è esattamente quello del sud, anche detto Zhoujia Tanglangquan.
Del sistema creato da Chau, in Vietnam ed in Cina, non si trovano tracce. L'unica evidenza di un continuatore ad Ho Chi Minh (città) è la presenza di un rappresentante del metodo Hổ hac trao alla riunione alla riunione di un gruppo di maestri nel 1995. Si tratta del Maestro Pham Minh Kinh.
Dal testamento del Maestro Chau Quan Ky emerge anche che egli fondò un'Unione delle Arti Marziali Cino-Vietnamite chiamata Shaolin Wo-Mei.

Cừơng nhu tương tể

Uno dei principi di base di questo stile è quello dell'armonia continua tra la forza e la morbidezza. Questo è un principio molto comune nelle arti marziali cinesi, che ritroviamo scritto Gang rou xiang ji (剛柔相濟, inflessibile e morbido si aiutano reciprocamente). In pronuncia vietnamita viene reso in Cừơng nhu tương tể.

I Thao Quyên e le forme cinesi

Thao Quyên (套拳, Taoquan, serie di pugni) è un termine che indica una concatenazione di tecniche creata per allenare determinati movimenti, cioè quelle che comunemente sono chiamate forme, e nelle arti giapponesi sono chiamate "kata". Nelle arti marziali cinesi questi concatenamenti sono importantissimi ed il termine è reso nella maggior parte dei casi con Taolu. I Thao Quyên del Qwan Ki Do sono appunto un'eredità proveniente in parte anche dagli stili cinesi. In alcuni casi questa provenienza è chiarissima:
  • Zui Baxianquan (醉八仙拳, letteralmente "Pugilato degli Otto Immortali Ubriachi") (in vietnamita Tuy bát tiên). È una forma molto comune nelle arti marziali cinesi. In Vietnam , nel Tân Khánh Bà Trà si insegna una forma che si chiama bát tiên (Otto Immortali).
  • Luohanquan (罗汉拳, letteralmente "Pugilato degli Arath") , nella versione dei 108 Luohan (一百零八罗汉拳, Yibailingba Luohanquan, in vietnamita NHÂT BACH LINH BAT La Hán Quyền). È una forma molto comune nelle arti marziali cinesi.
  • Menghu chudong (猛虎出洞, letteralmente "La tigre feroce esce dalla caverna") (in vietnamita MANH HÔ XUÂT DÔNG). Una forma con lo stesso nome la ritroviamo nel Nanzhiquan, uno stile Nanquan.
  • Longhuquan (龙虎拳, letteralmente "Il pugilato del Drago e della Tigre") (in vietnamita LONG HÔ QUYÊN ). Una forma con questo nome la ritroviamo nel Kongmenquan, un altro stile classificato come Nanquan. Il Long Ho Quyen è anche una forma codificata del Vovinam e la forma insegnata dal Maestro Tong è pressoché identica a quest'ultima.
  • Tanglangquan (螳螂拳, letteralmente "Il pugilato della mantide religiosa") (in vietnamita DUONG LANG QUYÊN PHÔ ).
  • Huhe Shuangxin (虎鹤双形, letteralmente "Doppia immagine di Tigre e di Gru") (in vietnamita HÔ HAC SONG HANH ). Il nome completo è Pugilato a doppia forma di Tigre e di Gru. C'è una forma con questo nome nell'Hongjiaquan, ma esiste anche uno stile del Guangdong.
  • Tuma Lianhuan (四马连环, letteralmente "Quattro Cavalli incatenati") (in vietnamita Tứ Mã Liên Hoàn ) è una forma che troviamo anche nel Baimeiquan (In pronuncia vietnamita Bạch Mi quyền). Il Maestro Tran Huu Ha, del Viet Vo Dao in Portogallo, insegna una forma che si chiama Tứ Mã, i quattro cavalli.
  • Shishiquan (石狮拳, letteralmente "Pugilato del Leone di Pietra") (in vietnamita thach su quyên ) è una forma che troviamo sempre nel Baimeiquan.
  • Anche i Thao Quyen più moderni creati dal maestro Pham sono il frutto dell'unione di tecniche vietnamite al Thât Bô Huyên Công Quyên praticati dalla minoranza Hakka (Kejiaquan).

La corrente vietnamita

L'altro insegnante che ha contribuito alla formazione di Pham Xuan Tong ed in definitiva alla recente fondazione del Qwan Ki Do, è stato Pham Tru che viene definito un praticante del Metodo dell'Arte Marziale Vietnamita, nella tradizione famigliare. Di questo maestro e di Long Ho Hoi e Phan Tranh Su, altri due maestri che avrebbero insegnato a Phan Xuan Tong questo Metodo Vietnamita, non vi sono altre informazioni se non quelle fornite dall'Unione Mondiale di Qwan Ki Do.

Thuât Cân Chiên

Un principio di base del Qwan Ki Do è la Teoria dell'Avvicinamento, in Vietnamita Thuât Cân Chiên, che privilegia le linee curve, rispetto a quelle dirette, in modo da deflettere l'attacco e poter contrattaccare. Questa teoria proverrebbe, secondo il Maestro Pham Xuan Tong, da un antico testo di strategia militare Vietnamita, senza però citarne il titolo e l'autore.

I Thao Quyên e i Quyen Vietnamiti

I nuovi Thao Quyen codificati da Pham Xuan Tong inglobano anche le tecniche Cuu Chân Bao Quyên, che sarebbero parte di un antico metodo detto Quan Khi trasmesso da un regnante Vietnamita nell'epoca pre-cristiana. Anche tra i Thao Quyen "Antichi" ed i Thao Quyen "Speciali" compaiono sequenze che appartengono al Metodo Vietnamita.

La sintesi

Nel 1981, Pham Xuan Tong ha creato il sistema Qwan Ki Do creando una nuova progressione di studio e delle forme di base che vogliono unire tecniche cinesi a tecniche vietnamite, provenienti dall'esperienza del Maestro Tong stesso. Queste nuove forme di Base dette anche Thao Quyền Tiểu Mon (Letteralmente Sequenze di Pugilato della Piccola Porta) hanno questi nomi: Cuu chan huyen cong quyên mot; Cuu chan huyen cong quyen ha; Cuu chan huyen cong quyên ba; Cuu chan huyen cong quyên bon; Quan ky nam; Quan Ky sau; Quan ky bay. In seguito i praticanti possono apprendere delle forme del Sistema Cinese e del Sistema Vietnamita, distinte in due grandi sottogruppi dette Forme Antiche o Thao Quyên Đại Mon (Letteralmente Sequenze di Pugilato della Grande Porta) e Forme Speciali o Thao Quyên Dac Di. In questo secondo gruppo vengono inserite le Sequenze di Esercizi Respiratori, che provengono dall'esperienza di Qigong (in vietnamita Khí Công) e Nei gong (in vietnamita Nội Công) del maestro Pham. Inoltre il Qwan Ki Do è caratterizzato dall'utilizzo di:
  • tecniche di presa e di controllo delle articolazioni (Qinna 擒拿, il termine utilizzato da questa scuola in pronuncia vietnamita è Cầm Nã), qualcuno le definisce come Tecniche di Leva.
  • tecniche di proiezione (il termine utilizzato da questa scuola in pronuncia vietnamita è Vật)
  • tecniche di rottura (il termine utilizzato da questa scuola in vietnamita è Công pha)
  • combattimento prestabilito (in cinese 双对, Shuang Dui, anche se è comunemente utilizzato Duilian, il termine utilizzato da questa scuola in vietnamita è Song Doi)
  • combattimento libero
  • armi tradizionali (il termine utilizzato da questa scuola in vietnamita è Cổ võ đạo).
Tutte queste categorie sono presenti sia nelle arti marziali cinesi sia nelle Arti marziali vietnamite.

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giovedì 19 aprile 2018

Akita Sanesue

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Akita Sanesue (秋田実季; 1576 – 11 gennaio 1660) è stato un daimyō giapponese del primo periodo Edo, capo del clan Akita. Figlio di Andō Chikasue, potente signore del nord della provincia di Dewa.
Sanesue giurò fedeltà a Toyotomi Hideyoshi nel 1590 durante l'assedio di Odawara, e servì sotto di lui durante numerose campagne inclusa l'invasione della Corea.
Durante la battaglia di Sekigahara si schierò con l'armata Orientale di Tokugawa Ieyasu. Quando Satake Yoshinobu fu spostato a nord nei domini degli Akita, il clan Akita, sotto il comando di Sanesue, fu spostato nel dominio di Shishido, nella provincia di Hitachi. Sanesue guidò i suoi figli in combattimento durante l'Assedio di Osaka. Nel 1630, per il suo discontento contro lo shogunato Tokugawa, fu esiliato ad Asama nella provincia di Ise, dove morì nel 1659.
Nonostante l'esilio, suo figlio Toshisue sopravvisse e fu spostato nel dominio di Miharu nella provincia di Mutsu, dove i suoi discendenti rimasero potenti fino alla resturazione Meiji.

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mercoledì 18 aprile 2018

PROGARAMMA ESAMI PER I PASSAGGI DI GRADO KICK BOXING

Risultati immagini per kick boxing logo


CINTURA GIALLA
LE POSIZIONE DI GUARDIA E SPOSTAMENTI
DIRETTO SINISTRO E DESTRO
CALCI: FRONTALE, CIRCOLARE, LATERALE, UNCINO
COMBINAZIONI
A) DIRETTO DEX + DIRETTO SIX + LOW KICK GAMBA DIETRO
B) PARATA BLOCK + DIRETTO DEX + DIRETTO SIX
A) DIRETTO SIX + LOW KICK GAMBA DESTRA
B) PARATA BLOCK + DIRETTO DEX + LOW KICK SIX
RIPRESA DI BOXE DA 1 MINUTO - RIPRESA DI KICK BOXING DI MINUTI 1,30



CINTURA ARANCIONE
DIRETTO SIX E DEX , GANCIO SIX E DEX E PARATE BLOCK
LOW KICK ORIZZONTALE, ASCENDENTE, DISCENDENTE, PARATA BLOCK
COMBINAZIONI
A) DIRETTI SIX E DEX AL VISO + MIDDLE KICK GAMBA SINISTRA
B) PARATA CALCIO + DIRETTO DEX AL VISO + LOW KICK SIX
A) MIDDLE KICK GAMBA SIX + DIRETTO DEX AL VISO + LOW KICK GAMBA SIX
B) PARATA BLOCK + DIRETTO SIX + FRONT KICK GAMBA DIETRO
1 RIPRESA DA 1 MINUTO LIBERO DI BOXE
2 RIPRESE DA 1 MINUTO LIBERO DI KICK BOXING
COMBATTIMENTO CON SPARRING – 2 RIPRESE DI MINUTI 1,30 DI KICK BOXING




CINTURA VERDE
DIRETTO SIX E DEX, GANCIO SIX E DEX , MONTANTI SIX E DEX
TECNICHE DI PUGNO - PARATE, PARATE BLOCK, SCHIVATE
CALCIO UNCINO, SIDE KICK, SIDE KICK UNCINO IN ROTAZIONE, GINOCCHIATE SIX E DEX
COMBINAZIONI
A) DIRETTI SIX DEX AL VISO + SIDE KICK GAMBA AVANTI + SIDE KICK AD UNCINO IN
ROTAZIONE CON L’ALTRA GAMBA
B) SCHIVATA + FRON KICK GAMBA AVANTI + DIRETTO DEX + GANCIO SIX + HIGH KICK
GAMGA DIETRO
A) DIRETTI SIX DEX AL VISO + MONTANTE SIX AL CORPO + DIRETTO DEX + GINOCCHIATA
SIX CON SCAMBIO DI GUARDIA
B) PARATA PROTEZIONE + GANCIO SIX + LOW KICK GAMBA DESTRA INTERNO COSCIA
1 RIPRESA DA1 MINUTO LIBERO DI BOXE
2 RIPRESE DI MINUTI I,30 LIBERO DI KICK BOXING
COMBATTIMENTO CON SPARRING – 2 RIPRESE DI MINUTI 1,30 DI KICK BOXING



CINTURA BLU
PUGNO ) TECNICHE COMBINATE - TECNICHE PORTATE AL CORPO
CALCI ) TECNICHE COMBINATE
GINOCCHIATE ) SINGOLE E CON PRESA
COMBINAZIONI
A) DIRETTI SIX DEX AL VISO + LOW KICK GAMBA AVANTI + HIGH KICK GAMBA DIETRO
B) PARATA PROTEZIONE + GANCIO SIX + DIRETTO DX + GINOCCHIATA SIX
A) CALCIO AD UNCINO GAMBA AVANTI + MIDDLE KICK GAMBA DIETRO + PRESA + DUE
GINOCCHIATE
B) CONTRO PRESA CON ROTAZIONE
UNA RIPRESA DI BOXE LIBERO DA 2 MINUTI
DUE RIPRESE DI KICK BOXING LIBERO DA 2 MINUTI
COMBATTMENTO CON SPARRING – DUE RIPRESE DA 2 MINUTI DI KICK BOXING



CINTURA MARRONE
PUGNO ) TECNICHE COMBINATE – TECNICHE PORTATE AL CORPO
TECNICHE DI PUGNO ) SCHIVATE , PARATE, PARATE PROTEZIONE
CALCI ) TECNICHE COMBINATE CON GINOCCHIATE
TECNICHE DI CALCI ) PARATE BLOCK, SCHIVATE
COMBINAZIONI
A) TENICHE DI PUGNO B) CONTRATTACCO DI PUGNO O DI CALCIO
A) TECNICHE DI CALCIO B) CONTRATTACCO DI PUGNO O DI CALCIO
UNA RIPRESA DI BOXE DA 1 MINUTO - DUE RIPRESE DI KICK BOXING DA 2 MINUTI
UNA RIPRESA DI KICK BOXING AGGIUNGENDO TECNICHE DI GINOCCHIO DA 2 MINUTI
COMBATTIMENTO CON SPARRING – TRE RIPRESE DA 2 MINUTI DI KICK BOXING



CINTURA NERA I° DAN
PUGNO ) TECNICHE COMBINATE CON CALCIO
CALCI ) TECNICHE COMBINATE CON PUGNO
PRESE + ROTEAZIONI, GINOCCHIATE FRONTALE E LATERALE
COMBINAZIONI
A) UNA COMBINAZIONE A PIACERE CON UN MINIMO DI 2 PUGNI E 2 CALCI
B) CONTRATTACCO CON UN MINIMO DI 2 CALCI E 2 PUGNI
A) COMBINAZIONI DI SOLO CLINCH B) CONTRATTACCHI
UNA RIPRESA DI BOXE DA 1 MINUTO
UNA RIPRESA DI KICK BOXING CON AGGIUNTA DI GINOCCHIATE DA 3 MINUTI
COMBATTIMENTO CON SPARRING
DUE RIPRESE DI KICK BOXING DA 3 MINUTI - UNA RIP. A CORPO A CORPO DI MINUTI 1,30,
UNA RIPRESA DI CLINCH DI MINUTI 1,30 - UNA RIP CON PIU’ AVVERSARI DI MINUTI 1,30.


PASSAGGI DI CINTURA NERA SUCCESSIVE
PERFEZINAMENTO DEL PROGRAMMA PRATICO E TEORICO DEL I° GRADO




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martedì 17 aprile 2018

LA STORIA DEL TEMPIO IMPERIALE DELLE MONACHE DI YONGTAI E DEL KUNG-FU DI SHAOLIN

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Il tempio, per secoli uno dei maggiori poli culturali della Cina, la culla del Buddismo Zen e del Kung-Fu di Shaolin in versione femminile, era ormai quasi dimenticato e vittima del tempo e dell’incuria. Recentemente il tempio imperiale di monache di Yongtai è stato restaurato grazie alla generosa offerta di una mecenate privata ed è così ridivenuto il centro del Kung-Fu di Shaolin femminile.
All’origine della fondazione del tempio di Yongtai c’erano tre principesse. La prima monaca della Cina fu la principessa Zhuanyun, che nel 467 d.C. si costruì un modesto eremo dove poter vivere secondo i principi del Buddismo.
Quando il monaco indiano Boddhidharma, che i cinesi chiamano Tamo, giunse nel 498 d.C. alla montagna Songshan e re-interpretò in una grotta le regole del Buddismo, tra i suoi 4 adepti c’era anche la principessa Minglian, che a quel tempo aveva 13 anni e apparteneva alla famiglia imperiale Liangwu della Dinastia del Sud e del Nord. Tamo la iniziò all’arte del Kung-Fu che non rappresenta tanto un’attività sportiva, quanto piuttosto un sistema filosofico e di vita che mira ad una vita in armonia con la natura, all’autocontrollo del corpo e dello spirito ed alla tolleranza verso tutti gli esseri viventi. Minglian è considerata la prima Maestra del Kung-Fu di Shaolin e trasformò l’eremo di Zhuanyun in un piccolo tempio.
Tuttavia il tempio di Shaolin gode di una maggiore considerazione rispetto al tempio di Yongtai e le monache sono state spesso chiamate monaci di seconda classe. Le monache di Yongtai hanno lottato per secoli per raggiungere pari diritti con i monaci del tempio di Shaolin, e infine hanno avuto successo.
Esse hanno così acquisito il diritto di utilizzare gli stessi termini per definire le diverse generazioni di monache e gli stessi ordini gerarchici che Tamo ha stabilito per i suoi seguaci maschili. Inoltre anch’esse possono seppellire le loro Maestre nel bosco che circonda la Pagoda accanto al tempio
di Shaolin.
Nel corso dei 1500 anni di storia del tempio, Yongtai fu devastato più volte e raso al suolo da incendi. Fu sempre possibile ricostruire il tempio anche grazie alle generose offerte dei seguaci. L’ultima ricostruzione è avvenuta grazie alla generosità di un’imprenditrice cinese che ha voluto lasciare un segno tangibile dell’emancipazione delle donne in Cina, offrendo 1,5 milioni di Euro per la ricostruzione del tempio e della scuola annessa.
Oggigiorno il tempio di Yongtai è il centro spirituale del Buddismo Zen e la roccaforte del Kung-Fu femminile in Cina.
Il tempio di Yongtai si trova nella provincia di Henan, tra la città distrettuale di Dengfeng ed il tempio di Shaolin, lontano dalle principali arterie stradali, alle pendici della montagna sacra di Songshan.

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lunedì 16 aprile 2018

La differenza tra allenamento e lezione tecnica

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E' di fondamentale importanza capire la differenza tra allenamento e lezione tecnica nelle Arti Marziali.
L'allenamento è l'insieme della preparazione atletica generale e specifica dei fondamentali tecnici e delle forme di Kata e di combattimento (Kumite), sviluppati in maniera armonica e sinergica allo scopo di ottenere un miglioramento generale.
L'allenamento è il minimo comune denominatore della pratica dell'Arte Marziale! Senza l'allenamento nessuno è in grado di capire una lezione tecnica avanzata. Il primo allenamento deve essere quello fisico, senza l'adeguata fisicità nessuna tecnica può essere eseguita in modo corretto. Nell’ambito di un allenamento non possono essere insegnati nuovi concetti, ma solo ripetute nozioni già acquisite. L'insegnante quindi dovrà partire dall'allenamento delle qualità fisiche di base necessarie alla pratica delle Arti Marziali.
La lezione tecnica è un tipo di allenamento costruito in modo completamente diverso. Innanzi tutto la lezione tecnica possiede un "perimetro didattico", cioè una speciale costruzione metodologica, atta ad aprire la mente, catturando l'attenzione e la concentrazione degli allievi di qualsiasi livello tecnico essi siano.
Il "perimetro didattico" si costruisce con questa sequenza:
1) Premessa: una volta individuato il contenuto della "lezione" si spiega la scelta fatta, motivandola.
2) Obiettivo: spiegati i motivi della scelta dell'argomento, si pone un raggiungibile obiettivo tecnico, che deve essere poi ottenuto. Se la lezione tecnica è suddivisa in più tappe didattiche o più appuntamenti, si ripeteranno ad ogni successiva lezione le premesse fatte e l'obiettivo finale.
3) Svolgimento: durante lo svolgimento, dovranno essere continuamente stimolate le capacità di apprendere di ognuno utilizzando parole, spiegazioni, dimostrazioni tecniche, riferimenti e citazioni storiche utili a rafforzare l’apprendimento con l’uso di supporti didattici e sistemi di comunicazione moderni.
4) Riassunto: il riassunto ha lo scopo di far capire agli allievi ciò che hanno capito. Sembra un gioco di parole, ma è esattamente così. A volte le nozioni spiegate non si fissano facilmente nella memoria. E' di grande aiuto una buona tecnica riassuntiva, magari interagendo con gli allievi in modo molto attivo.
5) Conclusione: la conclusione è un momento che serve al Maestro di Arti Marziali per motivare gli allievi a sperimentare da soli le tecniche o le nozioni apprese durante la lezione. La conclusione, se è ben costruita, può fare in modo di trasformare una buona lezione in un grande successo didattico.
La lezione tecnica deve essere uno speciale momento di formazione e di ispirazione, che serve a suggerire nuove vie di studio, le quali devono essere poi esperimentate nell'allenamento normale.

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