"II conflitto puro
non ha regole, la
competizione gliele da.
La pratica marziale pura
è la sopravvivenza,
mentre la competizione,
in tutte le sue forme,
è... giocare alla
sopravvivenza."
II gioco della sopravvivenza
Quando si sta passando una gradevole serata in compagnia di amici con i quali si condivide la passione per le Arti Marziali, ci sono argomenti che sarebbe meglio non toccare, perché tante volte distruggono la meravigliosa fraternità che unisce il gruppo ed emarginano quelli che, sapendo poco o nulla del mondo del Budo, si zittiscono, mentre guardano annoiati l'orologio. Questo è il caso di una semplice discussione sull'agonismo.
Il judoka farà vedere i suoi muscoli e adotterà un atteggiamento minatorio per fare prevalere il suo punto di vista, i karateka discuteranno tra di loro sulla tradizione e l'efficacia, il praticante di Kung Fu guarderà con sorpresa il pugile, l'aikidoka sorriderà come quello che sa tutto, lo specialista in difesa personale riderà sarcasticamente...e infine, l'unica cosa in chiaro sarà che "l'agonismo è solo sport", oppure che "l'agonismo danneggia le Arti Marziali" o forse che "l'agonismo è un eccellente sostituto del combattimento reale" e molto altro ancora, come facilmente potrete immaginare.
Sembra che la confusione si sia impadronita delle menti... nonché delle Federazioni e dei dojo. Ma, a ben guardare, oltre alla confusione sembra che ci sia un vero malessere, estremamente dannoso, perché legato principalmente alle decisioni fondamentali delle strutture dirigenziali e agli interessi che ognuna di esse ha riguardo la propria disciplina. Inoltre bisogna tenere conto anche delle pressioni che possono fare i diversi "interlocutori" coinvolti nell'argomento, come i mezzi di comunicazione, il pubblico, gli organizzatori, gli esordienti, gli ingenui, i praticanti, i giovani, i campioni e quelli che non lo sono e molti altri che forse dimentico. Si potrebbe riassumere il problema nel seguente modo: da una parte l'agonismo conta dell'appoggio dei mezzi di comunicazione, che ne fanno propaganda, ma che al contempo ne distruggono anche i valori, rendendoli tecnicamente decadenti, fantasiosi ed elitari.
L'agonismo è dappertutto, persino dove non dovrebbe essere e quando non c'è, sembra che manchi qualcosa. Per alcuni è la cosa peggiore a cui può arrivare un praticante di Arti Marziali e per altri è l'unica cosa che conta. Appena si parla dell'agonismo vengono fuori l'ipocrisia, la cecità, l'ignoranza o la menzogna. Nessuno sembra sapere quale posizione adottare, nessuna struttura sembra poter sfuggire al dilemma fondamentale: agonismo, sì o no? Da parte nostra ci sentiamo in obbligo di informare lo speranzoso lettore che, sfortunatamente, non abbiamo nessuna risposta definitiva per questo problema. Ma forse possiamo contribuire ad aprire un dibattito per sapere cosa vi sia in gioco e di che cosa si tratti. Chi lo sa? Forse un lavoro organizzato potrà chiarire un po' l'argomento di cui ci occupiamo. Ma... che cos'è l'agonismo nella pratica rnarziale?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe prima porsela al contrario, cominciando dal chiedersi cosa sia la pratica marziale e in che modo "la pratica dell'agonismo" si differenzi da essa. Se consideriamo che l'allenamento marziale consiste prima di tutto nel dare a qualcuno i mezzi per potere competere con altri in un conflitto ed ottenere la vittoria, la differenza non è tanto evidente.
Dopo tutto, anche in un torneo si scontrano due uomini che mirano a vincere, impegnandosi seriamente nella lotta. Qualsiasi competizione è in fondo una lotta, un confronto nel quale c'è un vincitore e tanti vinti.
Dunque, si potrebbe dire che, per quanto riguarda la motivazione, l'agonismo non ha alcuna differenza con la pratica marziale.
Ma qui sorge un problema evidente: mentre nella pratica marziale vera e propria uno mette a repentaglio la propria vita, la morte non sembra, in principio, far parte di una competizione.
Le città greche si massacravano per anni e anni, per poi radunarsi ogni quattro a Delfi o ad Olimpia e continuare a giocare alla guerra, sublimandola nei Giochi olimpici, dove la morte era tenuta lontana. Ma anche di questo non ne siamo tanto sicuri.
Il pugilato antico, con le mani avvolte dal cuoio o addirittura dal piombo, pose fine a tante carriere.
Come ha fatto anche la Boxe agli inizi di questo secolo. D'altra parte, i duelli, così comuni sia nella nostra storia che in quella del Giappone, con la loro rigorosa etichetta ed il loro codice dell'onore, durante i quali si metteva a rischio la vita, sembrano più vicini all'idea della competizione che a quella dell'azione sul campo di battaglia, dove conta solo la sopravvivenza. Ma, allora, cos'è veramente la competizione? Dato che il fatto di rischiare la vita non risulta sufficientemente esplicativo, come abbiamo riscontrato negli esempi precedenti, bisognerà trovare un altro filo conduttore, un altro punto di partenza: il codice.
Il conflitto puro non ha regole, la competizione gliele da. Nella guerra tutto è permesso pur di sconfiggere il nemico, in un duello no. Nel pugilato si può fortuitamente danneggiare il cranio dell'avversario, ma non è permesso mordergli l'orecchio. Le regole della competizione stabiliscono come ci si deve comportare durante lo scontro. La competizione rende possibile lo scontro tra la specie animale dall'indole più aggressiva e combattiva del pianeta: l'uomo. E' curioso, quanto preoccupante, è il fatto che sembra che il sapere chi sia il più forte costituisca la principale occupazione della suddetta specie. Sopravvivere è un'altra cosa. Vincere gli altri può assumere diversi aspetti nel gran gioco della competizione, della morte simulata dell'avversario, del combattimento nella palestra. Si potrebbe dire che la pratica marziale pura sia la sopravvivenza, mentre la competizione, in tutte le sue forme, sia...giocare alla sopravvivenza. Un gioco semplice e con tante forme, con regole completamente diverse a seconda che si tratti di Kung Fu o di scacchi, di giochi di carte.
Ma in fondo parliamo dello stesso gioco, il Grande Gioco della nostra specie. E cosa cambia? Chiederanno alcuni. Tutto! Lo scopo si è leggermente spostato. Perché quando si gioca a qualcosa il problema non è più quello della sopravvivenza, ma quello della vittoria sull'avversario rispettando determinate regole o addirittura eludendole, se fosse necessario, come dimostrano numerosi episodi. Di fatto, potremmo dire che sia la difesa personale che la pratica agonistica utilizzano la pratica marziale in modo tale che essa non abbia più importanza. Perché tutto vale per chi vuole sopravvivere, come tutto vale per chi vuole vincere. Il modo, il mezzo utilizzato in entrambi i casi, non ha nessuna importanza in sé stesso. Così accade anche con la competizione. Essa non dimostra niente, l'atleta non cerca di convincere, ma di vincere, ovvero cerca di superare passare le diverse tappe per arrivare invitto alla fine. Questo è lo scopo, la sfida. Se per riuscirci bisogna approfittare delle possibili lacune dei regolamenti o utilizzare qualche piccolo trucco che permetta di ottenere un minimo vantaggio, lo si farà. Il fine è passare le tappe, nient'altro. Per fortuna ci sono ancora atleti che hanno la convinzione (o la debolezza) di pensare che una buona tecnica sia la miglior garanzia per arrivare alla finale. Fortunatamente!
Perché altri hanno già dimostrato chiaramente il contrario... La competizione ha un suo senso: "mi insegni le regole e saprò come passare le diverse tappe". Non si fa Judo da competizione, si compete dentro delle regole che stabiliscono che, per eliminare l'avversario, bisogna atterrarlo di spalle, costringerlo ad incappare nelle penalità o essere più attivo di lui. Questa è l'idea di ciò che bisogna tentare di fare se si è un bravo atleta. Nonostante possa sembrare triste o limitato, è soltanto un proposito.
L'essenziale è non confondere la disciplina, che costituisce le fondamenta di questo proposito, con il principio della competizione. L'automobilismo e il Karaté sono ben diversi, ma si può arrivare ad essere campione in uno o nell'altro con gli stessi principi. Competere utilizzando i movimenti tecnici delle discipline marziali può essere vantaggioso, ma confondere questa espressione sportiva con la disciplina è negativo. Tutti sanno (delle volte soltanto in modo intuitivo) che essere un bravo atleta di Judo o di Karaté non significa per forza essere un bravo praticante di queste discipline. Non bisogna scoraggiarsi per questo. Quando si pensa che il modo di competere non corrisponda ai principi dell'Arte Marziale che si pratica, non si vuole disprezzare la mediocrità degli atleti... basta cambiare le regole. La competizione non è un problema se viene considerata così come è, ovvero, un principio.
Così, può addirittura risultare particolarmente utile e istruttiva. Tuttavia, ogni disciplina deve definire i propri valori, i propri principi riguardo tutto ciò. In questo modo diventerà un elemento in più tra i tanti sui quali può contare il praticante per il suo progresso. Ma non bisogna dimenticare un piccolo dettaglio: questo principio -quello della competizione é uno dei più poderosi della natura umana. Definire un altro scopo, un'altra motivazione, un'altra dimensione, non è alla portata di qualsiasi disciplina.