(SA)
«Śūnyatā karuṇā
garbham»
|
(IT)
«La vacuità [è] l'essenza della compassione»
|
(Nāgārjuna) |
Śūnyatā (devanāgarī:
शून्यता, pāli: suññatā,
cinese: 空 pinyin: kōng,
coreano: gong, giapponese: kū, tibetano:
stong-pan-yid, tr.it. Vacuità) è un sostantivo
femminile della lingua sanscrita che indica una delle dottrine
fondamentali nel Buddhismo.
La dottrina della Śūnyatā
acquisisce tuttavia significati diversi e diverso ruolo nelle varie
scuole che si sono succedute nel corso della Storia del Buddhismo,
alcune delle quali tutt'oggi esistenti. In questo senso è
preferibile suddividere l'esposizione di questa dottrina a seconda
dei testi di riferimento o delle scuole che la insegnano.
Rappresenta l'Ensō (円相)
che, nella simbologia del Buddhismo Zen, indica sia l'universo che la
vacuità, quest'ultima intesa come Realtà assoluta.
La dottrina della vacuità negli Āgama-Nikāya del Buddhismo dei Nikāya e del Buddhismo Theravāda
La presenza nelle più antiche
scritture buddhiste dell'attribuzione al Buddha Śākyamuni
dell'insegnamento della "vacuità" è indubitabile come è
indubitabile, in queste stesse scritture, la preoccupazione del
fondatore del Buddhismo che questo insegnamento potesse essere
addirittura dimenticato. Così afferma il Buddha Śākyamuni nel
Samyutta-nikāya del Canone pāli:
«I monaci non vorranno più ascoltare e studiare i sutta proclamati dal Tathāgata, profondi profondi nel significato, che giungono oltre il mondo e riguardano la "vacuità" (sunnatapatismyutta) ma presteranno solo ascolto ai sutta profani proclamati dai discepoli, composti dai poeti, poetici e adornati di belle parole e sillabe» |
(Samyutta-nikāya,
20,7.)
|
Ma se nel Majjhima-nikāya, il
Buddha Śākyamuni indica l'irrealtà, la vacuità delle cose, come
costantemente nei vari agama-nikaya espone l'insegnamento
dell'anatta ovvero della "vacuità" intesa come
inesistenza di una sostanzialità inerente al soggetto che percepisce
i fenomeni, è nel Culasuññata Sutta, dove il Buddha
Śākyamuni entra nel dettaglio di questa dottrina come esperienza
interiore quando, rispondendo ad Ānanda su una sua precedente
affermazione nella quale sosteneva di "dimorare pienamente in
uno stato di vacuità" afferma:
«Certamente, o Ānanda, tu
hai ben udito, ben appreso, ben inteso e ben ritenuto le mie
parole. Adesso, come allora, o Ānanda, io dimoro pienamente in
uno stato di vacuità. Così come questo palazzo della madre di
Migara è ora vuoto di elefanti, di buoi, di cavalli, vuoto d'oro
e d'argento, vuoto di gruppi di uomini e di donne, e la sua sola
non vacuità è questa unica cosa, la comunità dei monaci, allo
stesso modo, o Ananda, il monaco non pone mente all'idea di
villaggio, non pone mente all'idea di uomo, ma pone mente a
quest'unica cosa, alla foresta. Nell'idea di foresta la sua mente
si placa, si ferma, si libera; ed egli riconosce: 'Le cure (le
preoccupazioni, le ansie) che dipendevano dall'idea di villaggio
non esistono più; le cure che dipendevano dall'idea di uomo non
esistono più e l'unica cura che rimane è quella che dipende
dall'idea di foresta»
|
(Culasuññata
Sutta (Piccolo discorso sulla Vacuità).
Majjhima-nikāya,
121.)
|
Nel Culasuññata Sutta il
Buddha Śākyamuni non si ferma a questo "svuotamento"
dalle "ansie" del mondo ma, in un incessante processo di
svuotamento di tutti i riferimenti, ovvero dell'idea di 'foresta',
dell' 'idea di terra', dell' 'infinità dell'idea di spazio', dell'
'infinità dell'idea di coscienza', della 'nullità', della 'né
percezione né non percezione', del 'raccoglimento mentale privo di
segni', giunge a concludere che:
«anche questo
'raccoglimento mentale privo di segni' è coeffettuato e concepito
(non è la Realtà ultima); e tutto ciò che è coeffettuato e
concepito è impermanente, destinato a cessare. [...] Egli
comprende che il suo pensiero è vuoto dell'impurità del
desiderio, dell'impurità dell'esistenza e dell'impurità della
nescienza e che l'unica non vacuità è quella che dipende da
questo corpo, sestuplice sede dei sensi, conseguenza della vita.
[...] In verità, o Ananda, tutti coloro, asceti o brahmana, che
nel futuro otterranno una stabile dimora nella purissima, suprema
vacuità, raggiungeranno e dimorranno proprio in questa purissima
e suprema vacuità. [...] Perciò, o Ānanda, voi vi dovete
esercitare così: "Io otterrò una stabile dimora nella
purissima, suprema vacuità»
|
(Culasuññata
Sutta (Piccolo discorso sulla Vacuità).
Majjhima-nikāya,
121.)
|
Riccardo Venturini, in riferimento a
questo sutta, nota che
«il Buddha descrive come
procedere verso i livelli più elevati di vacuità mediante lo
svuotamento della mente dai contenuti propri dei livelli
progressivamente superati. Al più alto livello di vacuità basati
sulla meditazione di calma, il Buddha osserva che ciò che rimane
è costituito dalla non-vacuità dei "sei campi sensoriali
che, condizionati dalla vita, sono basati sul corpo stesso"»
|
(Riccardo Venturini. Coscienza e cambiamento. Assisi, Cittadella Editrice, 1998, pag. 435) |
Questo, secondo Riccardo Venturini,
implica che
«Il metodo usato, portato
alla sua estenuazione, si rovescia nel contrario e
dall'osservazione dei caratteri 'negativi' della realtà
fenomenica (impermanenza, insoddisfacenza e mancanza di esistenza
inerente) si giunge a incontrare i caratteri 'positivi' della
Realtà incondizionata (permanenza, beatitudine, realtà), come
d'altra parte l'estasi/vacuità si rovescia nella
molteplicità/pienezza: essendo ancora 'posizioni' che si muovono
nel mondo del dualismo, esse rivelano e si tramutano nel
contrario»
|
(Riccardo Venturini. Coscienza e cambiamento. Assisi, Cittadella Editrice, 1998, pag. 435.) |
La dottrina della vacuità nei Prajñāpāramitāsūtra
Nei trentotto testi che costituiscono
l'insieme dei Prajñāpāramitāsūtra (composti tra il I
secolo a.C. e il VII secolo d.C.), la dottrina della 'vacuità'
riveste un ruolo centrale e fondamentale. Si può sostenere che fin
dai Prajñāpāramitāsūtra più antichi, l'estensore degli
stessi, che potrebbe voler riportare degli insegnamenti dello stesso
Buddha Śākyamuni non accolti negli Āgama-Nikāya,
accompagni la dottrina della vacuità con la pāramitā prajñā
ritenuta l'ultima e la più importante già nelle scuole del
Buddhismo dei Nikāya (scuola Sarvāstivāda).
Nel complesso la letteratura dei
Prajñāpāramitāsūtra elenca venti tipi di vacuità
(sanscrito viṃśati śūnyatā):
- Vacuità degli organi di senso (adhyatana śūnyatā).
- Vacuità dei fenomeni percepiti (bahirdhā śūnyatā).
- Vacuità degli organi di senso e dei fenomeni percepiti (adhyatanabahirdhā śūnyatā).
- Vacuità della vacuità (śūnyatā śūnyatā).
- Vacuità dello spazio (mahā śūnyatā).
- Vacuità dell'assoluto (paramārtha śūnyatā).
- Vacuità dei fenomeni condizionati (saṃskṛta śūnyatā ).
- Vacuità dei fenomeni non condizionati (asaṃskṛta śūnyatā ).
- Vacuità di ciò che è al di là dell'eterno e del nulla (atyanta śūnyatā ).
- Vacuità di ciò né inizia né termina, del Saṃsāra (anavaraga śūnyatā).
- Vacuità di ciò che degli insegnamenti che vanno accolti (anavakara śūnyatā ).
- Vacuità dell'intima natura dei fenomeni (prakṛti śūnyatā).
- Vacuità di qualsiasi fenomeno o dharma (sarvadharma śūnyatā ).
- Vacuità delle caratteristiche di ogni singolo dharma (svalakṣaṇa śūnyatā).
- Vacuità dell'inconcepibile (anupalambha śūnyatā).
- Vacuità dei fenomeni privi di identità (abhāvasvabhāva śūnyatā ).
- Vacuità dei fenomeni che posseggono delle sostanzialità (bhāva śūnyatā).
- Vacuità di ciò che è privo di sostanzialità (abhāva śūnyatā).
- Vacuità dell'identità (svabhāva śūnyatā).
- Vacuità della natura trascendente (parabhāva śūnyatā).
Tali "vacuità" stanno ad
indicare che ogni forma, esistenza o non esistenza, è vacuità e
ogni vacuità è ognuna di queste.
Così come recita uno dei Prajñāpāramitāsūtra più noti, il Prajñāpāramitā Hṛdaya sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza):
Così come recita uno dei Prajñāpāramitāsūtra più noti, il Prajñāpāramitā Hṛdaya sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza):
(SA)
«Iha Śāriputro rūpaṃ
śūnyatā, śūnyataiva rūpam rūpānna pṛthak śūnyatā,
śūnyatāyā na pṛthag rūpam yadrūpaṃ sā śūnyatā, yā
śūnyatā tadrūpam evaṃ vedanāsaṃjñāsaṃskāravijñānāni»
|
(IT)
«Qui, O Sariputra, la forma
è vacuità e la vacuità è forma; la vacuità non differisce
dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità; qualsivoglia
cosa sia forma, quella è vacuità; qualsivoglia cosa sia vacuità,
quella è forma, stessa cosa riguarda le sensazioni, le
percezioni, le pulsioni e la coscienza»
|
(Prajñāpāramitā
Hṛdaya sūtra III 9-16)
|
L'insieme del corpus scritturale dei
Prajñāpāramitāsūtra sembrerebbe contenere una serrata
critica della dottrina dei dharma delle scuole del Buddhismo
dei Nikāya, segnatamente della scuola Sarvāstivāda, le quali
assegnavano esistenza reale ai costituenti (dharma) dei
fenomeni, anche se le stesse denunciavano la 'vacuità' del soggetto
che questi fenomeni percepiva, ovvero negavano la soggettività, l'io
individuale (dottrina dell'anātman). Questa "doppia
vacuità" (vacuità del soggetto percipiente, anātman, e
dei fenomeni percepiti) dei Prajñāpāramitāsūtra andava a
dunque a criticare i contenuti abhidharmici della scuola
Sarvāstivāda, la quale giungeva a sostenere la presenza, nel
soggetto che percepisce, di un dharma particolare, il prapti,
che fungeva da ricettacolo per la sua retribuzione karmica. È chiaro
che la dottrina della vacuità dei Prajñāpāramitāsūtra ha
dei precisi fondamenti, come abbiamo visto, negli Āgama-Nikāya
, tuttavia essa intende radicalizzare questi fondamenti come il
cuore (hṛd) della dottrina del Buddha Śākyamuni
(Buddhadharma).
In un altro famoso Prajñāpāramitāsūtra,
il Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra (Sutra della
perfezione della saggezza che recide come un diamante, o più
brevemente Sutra del diamante) si giunge, peraltro
coerentemente, a sostenere che
(SA)
«bhagavānasyaitadavocat-iha
subhūte bodhisattvayānasaṁprasthitenaiva
cittamutpādayitavyam-yāvantaḥ subhūte sattvāḥ sattvadhātau
sattvasaṁgraheṇa saṁgṛhītā aṇḍajā vā jarāyujā vā
saṁsvedajā vā aupapādukā vā rūpiṇo vā arūpiṇo vā
saṁjñino vā asaṁjñino vā naivasaṁjñino nāsaṁjñino
vā, yāvān kaścitsattvadhātuḥ prajñapyamānaḥ
prajñapyate, te ca mayā sarve'nupadhiśeṣe nirvāṇadhātau
parinirvāpayitavyāḥ evamaparimāṇānapi sattvān
parinirvāpya na kaścitsattvaḥ parinirvāpito bhavati tatkasya
hetoḥ? sacetsubhūte bodhisattvasya sattvasaṁjñā pravarteta,
na sa bodhisattva iti vaktavyaḥ tatkasya hetoḥ? na sa subhūte
bodhisattvo vaktavyo yasya sattvasaṁjñā pravarteta, jīvasaṁjñā
vā pudgalasaṁjñā va pravarteta»
|
(IT)
«Il Signore disse: "Ecco Subhuti, chi decide di entrare
nel veicolo del bodhisattva (bodhisattvayana)
dovrebbe concepire un pensiero di questo genere: "Per quanti
esseri senzienti ci sono nell'intero universo di esseri senzienti,
nati da un uovo, nati da un utero, nati dalla umidità, o nati per
mezzo di un miracolo, con forma o senza forma, in grado di
percepire o non in grado di percepire, per come sia concepibile
una forma concepibile di esseri senzienti, tutti questi io
condurrò verso il Nirvāṇa, nella dimensione del Nirvāṇa
che estingue ogni cosa. Nonostante questo per quanto siano
innumerevoli gli esseri senzienti guidati verso il Nirvāṇa
proprio nessun essere senziente è stato guidato verso il Nirvāṇa.
Perché? Se in un bodhisattva dovesse intervenire la
concezione di un "essere senziente", egli non potrebbe
venire chiamato bodhisattva. E perché? Non si dovrà
chiamare bodhisattva colui nel quale interviene la
concezione di un "essere senziente" (sattva), o
la concezione di un' "anima vivente" (jīva) o la
concezione una "persona" (pudgala)»
|
(Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra,
3)
|
La dottrina della vacuità nelle scuole Mahāyāna Madhyamaka e Cittamātra
La scuola Madhyamaka è stata fondata
da Nāgārjuna nel II d.C. È dibattuto se, per quanto concerne il
periodo del suo fondatore, essa possa essere inserita nel contesto
degli insegnamenti Mahāyāna. La ragione di questi dubbi è fondata
sul fatto che nelle opere attribuite con sufficiente contezza al
filosofo indiano, non compare mai l'utilizzo del termine Mahāyāna
né i riferimenti ai Prajñāpāramitāsūtra.
L'opinione di molti studiosi, tuttavia,
si fonda sulla natura di queste opere che sono didattiche e non
polemiche. Intendono dimostrare la validità dei propri contenuti
piuttosto che svilire l'autorevolezza delle fonti avversarie magari
facendo leva su altre fonti. È possibile quindi che Nāgārjuna
abbia volontariamente evitato qualsivoglia riferimento ai
Prajñāpāramitāsūtra per evitare di discutere con i suoi
interlocutori Sarvāstivāda sulla loro autorevolezza.
D'altronde è innegabile, che a partire
dalla sua opera maggiore, il Madhyamakakārikā, egli non fa
che ribadire la dottrina della vacuità esattamente come insegnata
nei Prajñāpāramitāsūtra.
Nāgārjuna si presenta dunque come un
maestro buddhista che vuole dimostrare la fondatezza della critica
dei Prajñāpāramitāsūtra all'Abhidharma Sarvastivada.
Per Nāgārjuna, come per i Prajñāpāramitāsūtra, il
Buddha Śākyamuni aveva indicato, oltre l'impermanenza temporale
(anitya), una ulteriore qualità, il śūnyatā di
tutti i fenomeni: essi erano vuoti anche di una stessa loro identità
in quanto dipendevano uno dall'altro sul piano temporale del
presente, dell'immediato: esiste A solo in quanto esiste anche un non
A.
Tutti i fenomeni (dharma) sono
quindi privi di identità, sono vuoti di identità. Tutti i dharma,
secondo la lettura dell'insegnamenti del Buddha da parte di
Nāgārjuna, sono vuoti: poiché nessun fenomeno possiede una natura
indipendente, si può dire che tutto ciò che esiste è vuoto.
L'esperienza della vacuità è la via che porta al "Risveglio".
Ma la vacuità non può essere
conosciuta con il pensiero ordinario (o "convenzionale")
che tratta dei fenomeni come se fossero indipendenti e stabili,
dotati di natura immutabile e certa. Gran parte dell'opera di
Nāgārjuna consiste pertanto in una critica raffinata delle diverse
dottrine che sottinendono l'esistenza dei fenomeni in quanto tali, e
che vengono per questo ridotte all'assurdo (prasaṅga). Da
parte sua, Nāgārjuna non presenta alcuna dottrina:
«Se io avessi qualche tesi
sarei vittima di questi controsensi. Ma io non ho alcuna tesi e
quindi non mi si può imputare nessun controsenso»
|
(Nāgārjuna.
Vigrahavyāvartanī,
29)
|
«La vacuità male intesa
rovina l'uomo ottuso così come un serpente male afferrato o una
formula magica mal pronunciata»
|
(Nāgārjuna.
Madhyamakakārikā,
24, 11)
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