giovedì 19 giugno 2025

Le MMA giapponesi sono davvero deboli? Una leggenda tutta da sfatare

Nel dibattito contemporaneo sulle arti marziali miste, spesso affiora una provocazione: “Perché le MMA giapponesi sono così deboli?” La domanda, più che scaturire da un’analisi tecnica, rivela una lettura parziale e disinformata della storia e dell’evoluzione di questo sport. In realtà, le MMA giapponesi non sono mai state deboli: sono semplicemente diverse, nate da un contesto culturale e regolamentare unico, che ha plasmato campioni iconici e influenzato l’intero panorama mondiale.

Quando si parla di MMA nipponiche, è impossibile non partire da Kazushi Sakuraba, l’uomo che ha osato sfidare — e sconfiggere — l’intera dinastia Gracie, considerata intoccabile negli anni d’oro del Brazilian Jiu-Jitsu. Con uno stile eclettico, geniale e a tratti teatrale, Sakuraba batté Royce Gracie in un epico incontro durato oltre 90 minuti, con round da 15 minuti e senza limite di tempo. Il regolamento, durissimo, imponeva resistenza, lucidità e strategia a livelli mai visti. Alla fine fu la famiglia Gracie stessa a gettare la spugna, incapace di proseguire.

Non si trattò di un colpo di fortuna. Sakuraba mise in fila Royler, Renzo e Ryan Gracie, demolendo il mito dell’invincibilità del clan e ridefinendo il concetto stesso di grappling nelle MMA. In un’occasione arrivò persino a sculacciare l’avversario in diretta mondiale, un gesto simbolico che metteva in discussione l’aura sacra del jiu-jitsu brasiliano.

Quando, anni dopo, uno dei Gracie riuscì a batterlo, emerse un dettaglio inquietante: l’uso di steroidi e farmaci dopanti da parte del brasiliano. Una macchia che ridimensionò quella vittoria, già ottenuta contro un Sakuraba logorato dagli anni e dai combattimenti.

Le MMA giapponesi non hanno mai cercato di imitare pedissequamente il modello UFC. Al contrario, organizzazioni come PRIDE, Shooto e RINGS hanno coltivato un’identità autonoma, più orientata allo spettacolo, alla tecnica e alla filosofia marziale. PRIDE, in particolare, ha rappresentato per anni il vertice assoluto delle MMA mondiali, attirando campioni del calibro di Fedor Emelianenko, Wanderlei Silva, Mirko Cro Cop e Antonio Rodrigo Nogueira.

La differenza chiave? In Giappone il pubblico premia la tecnica e l’onore, non solo la brutalità. I combattimenti erano spesso lunghi, regolati da round da 10 o 15 minuti, e prevedevano l’uso di soccer kick, stomp e ginocchiate a terra — proibiti nell’UFC. Era un altro tipo di combattimento, che richiedeva skill specifiche e resistenza mentale estrema.

È vero: oggi la presenza giapponese ai vertici mondiali delle MMA è meno evidente rispetto agli anni 2000. Ma ciò non equivale a debolezza. Il Giappone ha attraversato una fase di transizione dopo la chiusura di PRIDE nel 2007, segnata da una diaspora di atleti e dalla crisi di diverse federazioni.

Tuttavia, eventi come RIZIN Fighting Federation stanno riportando in auge lo spirito delle MMA giapponesi, con uno stile spettacolare, ibrido e visivamente potente. E nuove generazioni di atleti come Kyoji Horiguchi o Roberto Satoshi Souza dimostrano che la scuola giapponese è tutt’altro che spenta.

Dire che le MMA giapponesi siano deboli è una semplificazione superficiale e storicamente sbagliata. La verità è che il Giappone ha contribuito in modo decisivo alla crescita globale di questo sport, offrendo un’alternativa stilistica e filosofica unica. I tempi cambiano, ma l’eredità di Sakuraba e del PRIDE vive ancora — e attende solo il prossimo capitolo.



Nessun commento:

Posta un commento