Nel vasto panorama delle arti marziali, tra discipline millenarie e sistemi moderni ibridi, il Kajukenbo occupa un posto particolare. Spesso sottovalutato, talvolta ignorato dal grande pubblico, questo sistema sviluppatosi alle Hawaii nel secondo dopoguerra è stato concepito non per la gloria nei tornei o l’estetica nei kata, ma per sopravvivere e vincere nei combattimenti reali di strada.
Ma quanto è realmente utile il Kajukenbo nel contesto odierno? Può ancora considerarsi una scelta valida per chi cerca un’arte marziale efficace, soprattutto in un mondo in cui le MMA sembrano aver ridefinito cosa significhi “combattere davvero”?
Il Kajukenbo nasce negli anni ’40 a Oahu, da un gruppo di cinque maestri di differenti discipline — karate, judo, jujitsu, kenpo e boxe cinese (kung fu) — che decisero di fondere le tecniche più efficaci dei rispettivi stili per creare un sistema completo di autodifesa urbana. L’obiettivo non era il ring, ma le strade del quartiere Palama, segnate dalla criminalità e dalla violenza.
Il nome stesso del sistema è un acronimo:
Ka per karate,
Ju per judo/jujitsu,
Ken per kenpo,
Bo per boxe cinese (kung fu).
Una dichiarazione d’intenti chiara: efficacia, adattabilità e brutalità.
Chi ha esperienza diretta nel Kajukenbo tradizionale sa che non è uno sport per anime delicate. Le scuole più ortodosse mantengono sessioni di allenamento fisicamente provanti, con sparring a contatto pieno e simulazioni di attacchi a sorpresa, spesso persino prima di entrare in palestra. L’idea alla base è semplice: preparare il praticante a gestire situazioni reali, non idealizzate, dove non esistono arbitri, categorie di peso o regole.
In questo senso, il Kajukenbo è una forma di allenamento mentale tanto quanto fisico: sviluppa la prontezza, l'aggressività controllata, la resilienza e la capacità di rispondere in frazioni di secondo. L’accento è posto non solo sul colpire, ma anche sull’evitare, controllare, neutralizzare.
Nel XXI secolo, molte arti marziali sono state filtrate attraverso la lente dell’agonismo sportivo. Il Muay Thai, il Brazilian Jiu-Jitsu, il Karate moderno: tutte queste discipline hanno sviluppato regolamenti e tecniche ottimizzate per il ring o il tatami. Sebbene straordinariamente efficaci in quel contesto, non sempre risultano perfettamente trasferibili in una rissa da strada o in una situazione imprevedibile.
È qui che il Kajukenbo trova la sua nicchia. Non si misura con i punti, ma con la sopravvivenza. Non cerca la spettacolarità, ma la funzionalità immediata. E sebbene non abbia la visibilità globale di altre discipline, resta uno dei pochi sistemi a non aver mai perso il contatto con le sue origini di combattimento reale.
Tuttavia, non è tutto oro. Il Kajukenbo, come molte discipline meno regolate, soffre di una forte disomogeneità tra scuole e insegnanti. Alcuni insegnanti mantengono lo spirito originario, mentre altri lo hanno annacquato in forme più coreografiche o spiritualizzate. Questo rende difficile valutare l’efficacia globale della disciplina a meno di non accedere a un dojo serio e qualificato.
Inoltre, non è pensato per il combattimento sportivo, per cui chi cerca competizioni strutturate o una carriera agonistica dovrà affiancarlo ad altre pratiche.
Il Kajukenbo non è inutile, tutt’altro. È una delle poche arti marziali moderne nate per il combattimento reale, e quando insegnato nel rispetto del suo spirito fondativo, è uno strumento formidabile per l’autodifesa. Non è glamour, non è olimpico, non produce campioni da pay-per-view — ma prepara gli individui a sopravvivere, a reagire, a vincere in strada.
Nel mondo delle arti marziali, dove spesso forma e spettacolo prevalgono sulla sostanza, il Kajukenbo è una voce ruvida, autentica e per questo ancora necessaria.
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