mercoledì 26 ottobre 2016

Hachiman

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Hachiman (八幡神 Hachiman-jin / Yahata no kami), secondo il pantheon delle divinità shintoiste giapponesi, è considerato il Kami della guerra, e può essere paragonato a Marte della mitologia romana.
Nel III secolo d.C., secondo la leggenda, Jingū, l'imperatrice consorte del defunto imperatore Chūai, fu alla testa dell'esercito nell'invasione della Corea, ed al rientro in Giappone diede alla luce Ōjin, che divenne imperatore molto giovane e passò gran parte della vita in battaglia.
Qualche secolo dopo sarebbe stato sincretizzato con Hachiman, il dio della guerra e protettore dei samurai, e gli furono dedicati numerosi templi, ad oggi se ne contano circa 25.000, che divennero meta di pellegrinaggio dei guerrieri che si recavano sul campo di battaglia, e degli atleti di arti marziali.
L'imperatore Ōjin fu antenato del clan dei samurai Minamoto, che divennero Shogun e fondarono alla fine del XIII secolo lo shogunato Kamakura, con il quale la popolarità di Hachiman crebbe sensibilmente, facendolo diventare il protettore della classe di guerrieri saliti al potere con i Minamoto. Per questo motivo la rappresentazione del kami (神体 shintai) nei santuari dedicati ad Hachiman è una staffa di cavallo o un arco, simboli di battaglia.
Viene anche considerato protettore del Giappone e dei giapponesi, degli agricoltori, che lo invocano per avere copiosi raccolti, e dei pescatori, che gli chiedono di riempire le reti di pesce. Il suo nome significa "divinità delle otto bandiere", tanti erano i confaloni che celebrarono la nascita di Ōjin. L'animale a cui viene associato, che è anche il suo messaggero, è il colombo.


martedì 25 ottobre 2016

Jingū

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Jingū (神功皇后, Jingū Kōgō; 169 circa – 269) è stata la leggendaria imperatrice consorte dell'imperatore Chūai del Giappone e servì come reggente e de facto leader dalla morte di suo marito fino alla salita al trono di suo figlio Ōjin.
Secondo la leggenda, condusse un esercito all'invasione di una terra promessa, che si ipotizza essere la Corea, ritornando vittoriosa in Giappone dopo tre anni. Secondo la leggende suo figlio Ōjin era stato concepito, ma non ancora nato alla morte di Chūai e nacque tre anni dopo la morte del padre. Quindi o un periodo di meno di nove mesi contiene questi "anni" (alcune stagioni), cioè tre raccolti, o la paternità è semplicemente mitica e simbolica, piuttosto che reale.
La leggenda dell'invasione della penisola coreana è basata sull'interpretazione tradizionale giapponese della stele di Kwanggeto, ritrovata in Manciuria, che afferma il dominio Goguryeo sulla Manciuria e sulla Corea settentrionale. Un esame accurato rivela che questa interpretazione tradizionale era basata su congetture, poiché molte lettere critiche mancano e il contesto è più correlato con gli immediati vicini meridionali di Goguryeo, Silla e Baekje. Inoltre ci sono solo prove circostanziali che il territorio della Corea settentrionale sia stato conquistato dal Giappone prima della guerra Imjin del XVI secolo. Baekje ha avuto relazioni molto strette con il Giappone, inclusi scambi tra le due corti e fu uno dei canali principali per l'ingresso della cultura continentale nel Giappone.
Arai Hakuseki afferma che ella fu in realtà Himiko, la sciamana-regina del III secolo di Yamataikoku, e poiché Himiko fu una figura storica venne inclusa nella famiglia imperiale dagli autori del Nihonshoki.
Nel 1881 divenne la prima donna a essere rappresentata su una banconota giapponese.

lunedì 24 ottobre 2016

Copertura

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Negli sport di combattimento (scherma, pugilato, karate, eccetera), la copertura è un movimento di difesa che permette di proteggersi, con un'arma o una parte del corpo (pugno, avambraccio, gomito, braccio o spalla), da un attacco (colpo) .
Questa forma di difesa, detta "passiva", si differenzia dalla parata che è invece un movimento detto "attivo".
La copertura è sinonimo di "protezione" specialmente in pugilato quando i combattenti alzano il braccio per proteggersi contro un eventuale attacco alla faccia.
Questa tecnica è utilizzata:

in maniera anticipata in caso di attacco dell'avversario, specialmente per proteggersi dal suo avanzamento o attacco (esempio: portare la spalla davanti alla mascella, coprirsi con il braccio e il guanto) 

in maniera istantanea quando l'attacco dell'avversario è lanciato.

domenica 23 ottobre 2016

Fukumibari

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Le fukimibari è una arma utilizzata dai ninja del Giappone medievale. Erano piccoli aghi metallici che si nascondevano nella bocca del ninja, che venivano sputati in faccia all'avversario nella mischia.

sabato 22 ottobre 2016

Kamae

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Kamae (構え) è una parola di origine giapponese che in italiano significa "posizione".
Nel kumite, cioè nel combattimento libero, la posizione di guardia si ottiene posizionando la mano avanzata a protezione del volto e quella arretrata sul plesso solare.
Nel kata spesso la posizione di guardia si assume posizionando le mani chiuse su un fianco una sopra l'altra.
La vediamo utilizzata in diverse arti marziali, tra cui il ninjutsu.

Kamae nel ninjutsu

  • Ichimonji no kamae
  • Doko no kamae
  • Tonso no kamae
  • Happo cakuie no kamae
  • Achimonji no kamae
  • Jumonji no kamae
  • Icho no kamae
  • Hoko no camae

venerdì 21 ottobre 2016

Yabusame

Yabusame






Yabusame (流鏑馬) tiro con l'arco eseguito da un cavaliere. È un'arte marziale giapponese derivante dal kyudo (il tiro con l'arco tradizionale).
La particolarità è che le frecce utilizzate non hanno punta ma terminano con rigonfiamento ovoidale che evita gli eventuali danni di un tiro errato.
La disciplina richiede una notevole abilità sia nel cavalcare che nel tirare poiché, per maneggiare l'arco, il cavaliere ha entrambe le mani occupate e non può tenere le briglie, quindi deve tenersi in sella con la sola forza delle gambe. Si consideri che il tiro viene eseguito con il cavallo lanciato al galoppo in una corsia lunga circa 250 metri.
Inoltre i bersagli da colpire sono due, posti a circa 50 metri uno dall'altro. Eseguito il primo tiro, l'arciere deve incoccare una seconda freccia e, nel giro di pochi secondi, ripetere il tiro al secondo bersaglio. Sul percorso stazionano giudici che segnalano l'esito del tiro.
Questa disciplina ha origine nel periodo Kamakura (1192–1334), e nasce come una sorta di intrattenimento offerto agli dei. Come il kyudo è profondamente intrisa dei concetti della filosofia zen e come tutte le arti marziali è non solo un esercizio di bravura ma anche un cammino iniziatico di elevazione spirituale.
Possono praticare lo Yabusame anche le donne che indossano, al pari degli uomini, sontuosi costumi di foggia duecentesca. Anche i finimenti dei cavalli e tutto l'equipaggiamento riproducono con estrema minuzia quello dei tempi originari, raffigurato in innumerevoli opere pittoriche.

giovedì 20 ottobre 2016

Heike monogatari

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Heike monogatari (平家物語 lett. "Il racconto della famiglia Taira") è un romanzo epico giapponese del XIV secolo di autore anonimo, tratto da storie trasmesse oralmente e cantate con accompagnamento del liuto biwa. Questo genere di canto epico è detto heikyoku.
La parola Heike (平家) indica la famiglia Taira ed è composta dal primo kanji di Taira (平氏) più il suffisso relazionale -ke ( lett. "legami famigliari").

Descrizione dell'opera

È uno dei più importanti gunki monogatari, racconti di guerra, insieme allo Heiji monogatari e lo Hōgen monogatari. Lo Heike monogatari è basato sugli scontri avvenuti durante il periodo Kamakura fra i potenti clan Taira e Minamoto. In particolare fa riferimento alla Guerra Genpei (1180-1185), che vide la definitiva rovina dei Taira. È incentrato sulla figura di Taira no Kiyomori, generale dei Taira, ma è narrato dal punto di vista dei Minamoto. Kiyomori è descritto infatti come un condottiero crudele e sanguinario.

L'autore

L'epica storica è probabilmente il frutto di diversi canti, nati ad opera di monaci itineranti, che narravano presso le varie corti dei signori daimyō le avventure dei tempi tumultuosi di fine epoca Heian. Questi artisti erano conosciuti come biwa hoshi, poiché secondo la tradizione erano ciechi. Un'interessante riflessione sulla paternità dell'opera è offerta da Kenko Hoshi ([Yoshida Kenkō]), autore dello Tsurezuregusa, che al riguardo afferma: "Yukinaga scrisse lo Heike Monogatari e in seguito l'affidò ad un uomo chiamato Shobutsu affinché lo cantasse". L'identificazione dell'autore rimane controversa, anche in virtù dello stile eterogeneo dell'opera, frutto probabilmente della mano di diversi autori.

Stile

Lo Heike monogatari, concepito per un'aristocrazia guerriera, fa mostra di un linguaggio che non possiede la raffinatezza dei precedenti capolavori di epoca Heian, poiché rappresenta con crudo realismo le difficoltà della guerra e della vita, ma non è interamente dimentico della romantica eleganza e dello stretto rapporto con la natura riscontrato nel Genji monogatari. Con l'avvento del medioevo si affievoliscono i sentimenti provocati dal termine estetico aware (あわれ), e la sensibilità letteraria si evolve sfociando nel cosiddetto yugen (幽玄), termine chiave dell'estetica medioevale, tradotto spesso con "profondità" e "mistero"). È una sorta di risonanza mistica e di incanto sottile che nella sua oscura ambiguità ha tutto il fascino e la suggestione della grazia di un effimero fiore di ciliegio, lievemente coperto da leggeri lembi di nebbia alla fatua luce della luna d'inverno) già presente nello Heike monogatari.

L'influenza buddhista

La storia degli Heike è incentrata su sentimenti più prettamente buddisti, che nella letteratura medioevale prendono vita soprattutto nelle opere a carattere zen di coloro che si erano ritirati dal mondo e dalle guerre continue, quali Kamo no Chōmei e Yoshida Kenkō: il mujō (無常), impermanenza di tutte le cose. Degno di citazione a questo proposito è il celebre inizio dello Heike:
(JA)
« 祇園精舎の鐘の声、諸行無常の響きあり。娑羅双樹の花の色、盛者必衰の理をあらわす。
おごれる人も久しからず、唯春の夜の夢のごとし。たけき者も遂にはほろびぬ、偏に風の前の塵に同じ。 »
(IT)
« Il rintocco della campana di Gion risuona l'eco dell'impermanenza di tutte le cose. Il colore dei fiori dei due alberi di Sala esprime l'ammonimento secondo cui le persone influenti ineluttabilmente cadono.
Anche gli arroganti, prima che passi molto tempo, somiglieranno a sogni in una notte di primavera. Anche i coraggiosi spariranno in tutto uguali a polvere di fronte al vento. »
(Heike monogatari)



Fortuna dell'opera

Numerosi episodi dello Heike monogatari sono stati ripresi in drammi nō, come ad esempio Sanemori di Zeami.

mercoledì 19 ottobre 2016

Vaiśravaṇa

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Vaiśravaṇa — dal sanscrito "colui che ode distintamente", pāli Vessavaṇa, cinese Weishamen-tian (畏沙門天, Wèishāmén Tiān) o Duowen-tian (多聞天, 多闻天, Duō Wén Tiān), giapponese Tamon-ten (多聞天) o Bishamon-ten (畏沙門天), coreano Damun Cheonwang (다문천왕), tibetano rnam.thos.sras — è il più importante dei Quattro Re Celesti del Buddhismo, equivalente del dio induista Kubera.

Attributi

La figura di Vaiśravaṇa è basata sulla divinità indù Kubera, ma ha assunto nella tradizione buddhista caratteristiche ed epiteti autonomi, con propri significati e propri miti; inoltre, in molti paesi anche non a maggioranza buddhista, la sua figura è stata assimilata dalla religione popolare, generando culti e miti locali.

Buddhismo Mahāyāna

Nel buddhismo Mahāyāna, Vaiśravaṇa è il guardiano del Nord, ed ha dimora nel quadrante nord dello strato più alto della parte inferiore del Monte Sumeru, da dove regna sugli yakṣa che abitano le pendici del Monte Sumeru.
È spesso ritratto con la faccia giallastra, con un ombrello o parasole (chatra, simbolo di regalità), talvolta al fianco di una mangusta (che si ciba di serpenti, simbolo di avidità e odio), e spesso con gioielli che fuoriescono dalla sua bocca (simbolo di generosità).

Buddhismo Theravāda

Nel Canone Pali della tradizione Theravāda, Vaiśravaṇa è indicato col nome "Vessavaṇa", e regna, come membro dei Quattro Re Celesti (Cātummahārājāno), il quadrante Nord; secondo alcuni sutta, il suo nome deriva dal regno di Visāṇa. Vessavaṇa governa inoltre sul popolo degli yakkha. La sua famiglia è composta dalla moglie Bhuñjatī, e da cinque figlie, Latā, Sajjā, Pavarā, Acchimatī, e Sutā; ha anche un nipote yakkha, Puṇṇaka, sposo della nāga Irandatī. Il suo carro è chiamato Nārīvāhana, e la sua arma era il gadāvudha (in sanscrito gadāyudha), ma vi ha rinunciato aderendo alla fede buddhista.
Secondo alcune versioni, "Kuvera" (sanscrito Kubera) era il suo nome nella sua vita mortale, in cui era un ricco brahmino che diede in beneficenza tutta la produzione di uno dei suoi sette mulini, garantendo il sostentamento dei bisognosi per i successivi ventimila anni; come ricompensa per il buon kamma (sanscrito karma) si reincarnò nel paradiso Cātummahārājikā.
Secondo un'altra tradizione, Vessavaṇa non è un nome di persona ma un titolo vitalizio, concesso di volta in volta a un mortale, ma essendo questi un abitante del Cātummahārājika la sua aspettativa di vita è di circa 90.000 anni (secondo altre fonti fino a nove milioni di anni); il Vessavaṇa di turno è incaricato di assegnare agli yakkha i luoghi da proteggere sulla terra (ad esempio laghi o foreste). Secondo alcuni, il posto di Vessavaṇa è occupato dallo yakkha Janavasabha, reincarnazione del re di Magadha Bimbisāra.
Alla nascita di Gautama Buddha, Vessavaṇa divenne suo seguace, giungendo allo stadio di sotāpanna (sanscrito srotaāpanna), cioè a sole sette reincarnazioni dall'illuminazione. Spesso agiva come intermediario portando al Buddha messaggi da parte delle divinità, ma anche da protettore; ad esempio insegnò al Buddha e ai suoi seguaci i versi Āṭānāṭā, che i buddhisti in meditazione nelle foreste possono usare per proteggersi dagli attacchi degli yakkha e delle altre creature soprannaturali.
Agli inizi del buddhismo, a Vessavaṇa erano dedicati come altari degli alberi, ed era venerato da coloro che desideravano concepire figli.


Buddhismo tibetano

In Tibet, Vaiśravaṇa è considerato un dharmapāla, cioè protettore della fede (dharma), oltre al suo ruolo classico di Re del Nord, ed è anche una divinità della ricchezza.
Le sue rappresentazioni si trovano spesso sugli ingressi dei templi; in esse regge un cedro, frutto del jambhara, il cui nome rimanda ad un altro suo nome, Jambhala (pronunciato come Zambala in tibetano) e che aiuta a distinguere le sue raffigurazioni da quelle di Kubera. Inoltre spesso è rappresentato come corpulento e ricoperto di gioielli, e quando è raffigurato seduto il suo piede destro è a terra poggiato su un fiore di loto insieme a una conchiglia.
Secondo i buddhisti di scuola tibetana l'associazione di Jambhala con la ricchezza è un mezzo per portare alla liberazione, fornendo prosperità in modo da consentire di concentrarsi sul cammino della spiritualità invece che sulle problematiche materiali.

Giappone

In Giappone, Bishamonten (anche solo "Bishamon") è un dio della guerra e dei guerrieri, punitore dei malvagi, tradizionale custode dei templi shinto, generalmente rappresentato in armatura, con una lancia in una mano ed intento a sorreggere con l'altra mano una pagoda dorata rappresentante il forziere divino, il cui contenuto egli al contempo protegge e distribuisce.
È anche noto come Tamonten (anche solo "Tamon"), che significa "colui che ascolta molti insegnamenti", poiché è considerato protettore dei luoghi in cui il Buddha ha predicato. La sua dimora è a metà delle pendici del Monte Sumeru.
Nello Shintō, egli è una delle Sette Divinità della Fortuna.




martedì 18 ottobre 2016

Genji monogatari

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Il Genji monogatari (源氏物語 lett. "Il racconto di Genji"), scritto nell'XI secolo dalla dama di corte Murasaki Shikibu vissuta nel periodo Heian, è considerato uno dei capolavori della letteratura giapponese così come della letteratura di tutti i tempi. I critici letterari si riferiscono ad esso come al "primo romanzo", il "primo romanzo moderno" o il "primo romanzo psicologico".

Trama

Il romanzo narra la vita di Genji, un figlio dell'Imperatore del Giappone, conosciuto anche come Hikaru Genji, Genji lo splendente. Nessuno dei due epiteti tuttavia è il suo vero nome. Genji è semplicemente un modo di leggere il kanji che indica il clan Minamoto, realmente esistito, dal quale Genji era stato adottato per ordine imperiale; per ragioni politiche infatti, Genji non poteva appartenere ufficialmente al ramo principale della famiglia imperiale e dovette iniziare la sua carriera politica da semplice funzionario di corte.
Il romanzo ruota intorno alla sua vita amorosa e tratteggia la vita ed i costumi della società di corte del tempo. Pur incarnando il modello tipico del libertino (certamente influenzato dalla figura di Ariwara no Narihira), Genji mostra una particolare lealtà verso tutte le donne della sua vita, non abbandonando mai nessuna delle sue mogli (vigeva la poligamia) o concubine - in un'epoca in cui la perdita di un protettore per molte dame di corte significava l'abbandono ed una vita ai margini della società (fu questa la sorte anche della principale rivale di Murasaki Shikibu, Sei Shōnagon).
Genji era il secondogenito di un Imperatore del Giappone e di una concubina, di basso rango ma dotata di grande avvenenza e leggiadria. La morte della madre, avvenuta quand'era ancora bambino, lascerà in lui la figura materna vacante, e per tutta la vita cercherà una donna ideale spesso vagheggiata. Crederà di trovarla in Dama Fujitsubo, una nuova concubina dell'Imperatore suo padre, giovane e leggiadra, molto somigliante alla madre scomparsa, ma in quanto sua matrigna una donna assolutamente proibita. Nella prima parte del romanzo i due, che si scoprono innamorati, cercheranno di reprimere i loro sentimenti, Fujitsubo chiudendosi nel riserbo e Genji, da poco sposato con la principessa Aoi, sorella del suo miglior amico Tō no Chūjō, lanciandosi in continue avventure che però non riescono mai a soddisfarlo spegnendo il desiderio per la dama.
Per curarsi da una malattia, Genji visita Kitayama, la regione delle colline che cingono a nord Kyoto. È qui che incontra una bambina, Murasaki, che lo incuriosisce e che scopre essere nipote di Fujitsubo. La porta a vivere con sé, curandone l'educazione per trasformarla nella sua dama ideale. Nel frattempo riesce ad incontrare Dama Fujitsubo ed i due finiscono per avere un figlio, che però viene riconosciuto dall'Imperatore e diviene Principe ereditario, rendendo Fujitsubo imperatrice. I due amanti giurano di non rivelare mai il loro segreto.
Genji e la principessa Aoi si riconciliano ed ella dà alla luce un figlio, ma muore poco dopo il parto posseduta dallo spirito di Dama Rokujō, un'antica amante del principe ossessionata dalla gelosia. Genji trova consolazione in Dama Murasaki, ormai cresciuta, che sposa a Kitayama. Alla morte dell'Imperatore, ha sopravvento a corte un fazione ostile a Genji, che approfitta della prima occasione - lo scandalo che coinvolge lui e la concubina del fratello, l'Imperatore Suzaku - per esiliarlo nella provincia rurale di Harima, lontano dalla capitale. Qui un ricco possidente, Akashi no Nyūdō, ospita Genji e lo incoraggia ad intrecciare una relazione con la figlia, Dama Akashi, che gli darà una figlia - destinata a divenire Imperatrice.
Il perdono del fratello riporta Genji a Kyōto, dove conduce anche Dama Akashi. Il figlio suo e di Fujitsubo (ormai scomparsa) ascende al trono e conoscendo i reali legami di sangue che lo legano a Genji, lo eleva ai più alti onori.
Tuttavia, giunto alla quarantina, la vita di Genji giunge ad uno stallo. La sua posizione a corte è ormai consolidata, ma è la sua vita affettiva a risentire di qualche difficoltà. Seppur un po' controvoglia, Genji sposa una giovane dama dell'alta nobiltà, che però lo tradisce costringendolo a riconoscere un figlio non suo, Kaoru, come era già avvenuto all'Imperatore suo padre. Genji vede in ciò una punizione per i suoi peccati, ma non rescinde quella che rimarrà sempre un'unione non felice.
Dopo non molto tempo Dama Murasaki muore, lasciando a Genji una profonda melanconia ed un senso di solitudine. Nel capitolo seguente, Maboroshi (Illusione), Genji riflette sulla transitorietà della vita, sulla coscienza di vivere in un mondo galleggiante, esprimendo il senso di mono no aware, caducità e perciò stesso bellezza fugace di tutte le cose.
Il resto dell'opera, conosciuto come Capitoli di Uji per via dell'ambientazione, è successivo alla morte di Genji ed ha per protagonisti Kaoru ed il suo miglior amico Niou, principe imperiale figlio della figlia di Genji e di Dama Akashi. Segue le loro avventure e la loro rivalità nel tentativo di sedurre alcune delle figlie di un principe imperiale che risiede ad Uji. La narrazione ha una fine improvvisa, con Kaoru che si chiede se la dama di cui è innamorato sia invece insieme a Niou. Kaoru è stato talvolta definito il primo antieroe della letteratura giapponese.

Contesto letterario

Poiché fu scritto per venire incontro al gusto delle dame di corte del Giappone dell'XI secolo, l'opera presenta delle asperità per il lettore moderno. Per prima cosa, la lingua di Murasaki, il giapponese parlato a corte nel periodo Heian aveva una grammatica estremamente complessa. Un altro problema è che chiamare qualcuno per nome era considerato volgare nella società del tempo, perciò nessuno dei personaggi viene chiamato col proprio nome nel romanzo; ci si rivolge agli uomini facendo riferimento al loro rango od alla loro posizione a corte, ed alle donne facendo riferimento al colore dei loro abiti, alla loro residenza, alle parole usate in un incontro od al rango o posizione ricoperta da un loro parente uomo. Di conseguenza, a seconda del capitolo si possono trovare per i medesimi personaggi appellativi diversi.
Un altro aspetto del linguaggio è l'importanza che riveste l'uso della poesia nella conversazione. Modificare o rielaborare un classico a seconda della situazione del momento era un comportamento codificato nella vita di corte del tempo, e spesso serviva a comunicare attraverso sottili allusioni. Le poesie nel Genji sono spesso dei waka. La gran parte di essi era ben conosciuta dal lettore di riferimento, perciò ne vengono citati solamente i primi versi, ed il lettore è invitato a completarli da solo, proprio come oggi potremmo dire "tanto va la gatta al lardo..." e lasciare sottinteso il resto del proverbio ("...che ci lascia lo zampino").
Come la stragrande maggioranza delle opere letterarie Heian, il Genji era stato redatto in buona parte (se non interamente) in kana (caratteri fonetici giapponesi) e non in kanji (sinogrammi o caratteri cinesi), poiché era rivolto ad un pubblico prevalentemente femminile. La scrittura in sinogrammi era allora considerata prerogativa maschile e le donne potevano servirsi del cinese solo marginalmente e con discrezione, per non passare per saccenti.
Proprio per questo al di là del lessico relativo alla politica ed al buddhismo, il Genji contiene poche parole prese in prestito dal cinese. Ciò conferisce alla lettura un ritmo più scorrevole ed uniforme, tuttavia crea anche dei problemi di interpretazione, poiché in giapponese sono numerosissime le parole omofone il cui significato è generalmente chiarito dai sinogrammi, perciò per il lettore moderno spesso il contesto è insufficiente per scegliere il significato giusto.
Murasaki Shikibu non fu né la prima né l'ultima autrice del periodo Heian, né il Genji è il primo o l'unico esempio di monogatari. Piuttosto si può affermare che ricopra un'importanza ed un ruolo paradigmatico per tutte le opere del suo tempo, un po' come le commedie di Shakespeare al confronto con il resto della produzione teatrale Elisabettiana.

Struttura dell'opera

Iniziato nel 1001, è diviso in 54 libri. I primi 41 capitoli, ambientati nella capitale del Giappone Heian Kyō, narrano la vita del principe Genji, il principe splendente, chiamato così per la sua intelligenza, cultura, e bellezza fisica; la trama si fonda sulla fortuna mondana, la caduta, la risalita al potere e infine la morte del principe galante, a cui fanno cornice stupende figure femminili dell'aristocrazia di corte. All'inizio del quarantaduesimo capitolo il lettore viene informato, senza enfasi, della morte di Genji e assiste a un profondo cambio di atmosfera: l'azione si sposta nel villaggio di Uji e i nuovi protagonisti del libro diventano Kaoru, figlio illegittimo della consorte di Genji, e Niou, nipote di Genji.

Fortuna letteraria

Grandi scrittori giapponesi di ogni epoca si rivolsero al Genji Monogatari come fonte d'ispirazione letteraria prettamente nazionale; anche alcune tra le opere più conosciute del Teatro Nō traggono il loro tema dal romanzo (come ad esempio Aoi no Ue, La principessa Aoi), e divenne presto oggetto di commenti filologici e critici da parte dei maggiori autori e studiosi giapponesi.
In epoca moderna sono stati numerosi gli scrittori di primo piano che hanno rivalutato l'opera apprezzandone modernità e complessità e si sono dedicati alla sua traduzione in giapponese moderno; tra di essi Akiko Yosano, Enchi Fumiko, Jun'ichirō Tanizaki e Yukio Mishima.
Il Genji inoltre ha ispirato almeno tre celebri versioni manga: Asaki yumemishi di Waki Yamato (1979), i più moderni Gekka no kimi di Ako Shimaki (2002-2004) e la versione parodica Patalliro Genji Monogatari di Mineo Maya (2004), tutti e tre inediti in Italia. Nel 2009 ne è stata inoltre tratta una serie anime di 11 episodi trasmessa su Fuji TV all'interno di noitaminA, intitolata Genji monogatari sennenki.


lunedì 17 ottobre 2016

Date Terumune

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Date Terumune (伊達輝宗; 1543 – 1585) Fu un samurai e daimyō del periodo Sengoku.
Succedette al padre Harumune e divenne il 16° capo della famiglia Date della provincia di Mutsu all'età di 16 anni espandendo il clan negli anni seguenti fino a controllare trenta distretti.
Quando Oda Nobunaga fu assassinato nel 1582, Terumune supportò Toyotomi Hideyoshi nella disputa per il potere che ne seguì.
Terumune era padre di Date Masamune, il quale gli succedette alla guida del clan nel 1584. Masamune continuò la perenne guerra contro i loro rivali locali, il clan Nihonmatsu-Hatakeyama fino a quando Hatakeyama Yoshitsugu chiese a Terumune di intercedere. Nell'incontro che ne seguì Yoshitsugu rapì Terumune che morì durante un tentativo di salvataggio del figlio Masamune.
Terumune era molto disponibile ed amato dai propri servitori e molti di essi commisero junshi (殉死; suicidio dopo la morte del proprio signore) dopo la sua morte. Era sposato con una figlia di Mogami Yoshimori della provincia di Dewa.
Terumune è ricordato anche per la corrispondenza con Oda Nobunaga il quale gli mandò una serie di lettere dopo il 1574 per assicurarsi la sua alleanza nel lontano nord.

domenica 16 ottobre 2016

Spade coreane

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La storia della fabbricazione della spada ha in Corea una tradizione antichissima, ad oggi poco approfondita. L'evoluzione dell'arma bianca manesca nella Penisola coreana fu strettamente legata allo sviluppo delle spade cinesi, di cui condivise le particolari tappe: spade cerimoniali in pietra, spade lunghe in bronzo sino alla predilezione per la scimitarra. La spada coreana restò però per moltissimo tempo un manufatto appositamente sviluppato per un utente di alto ceto sociale, non realizzata su vasta scala per armare un esercito.
La più famosa spada coreana fu lo Hwandudaedo (환두대도), una scimitarra con pomolo ad anello, negli esemplari più pregiati ornato da figure di dragoni e fenici, già diffuso al tempo dei Tre Regni di Corea (I secolo a.C.-VII secolo).

sabato 15 ottobre 2016

Scimitarra

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La scimitarra (persiano: شمشیر, shamshir) è un'arma bianca manesca del tipo spada originaria dei paesi dell'Asia occidentale. Ha lama monofilare dalla curvatura molto pronunciata, con taglio convesso e dorso concavo, capace di provocare danni molto gravi se usata di taglio, ed impugnatura ad una mano.
Dalla scimitarra orientale venne derivata la moderna sciabola occidentale, dalla quale la prima si differenzia sempre per l'avere lama molto più ricurva.

Etimologia

Il vocabolo "scimitarra" compare nel lessico della Lingua italiana e della Lingua francese (in questo caso "cimeterre") a partire dal Tardo Medioevo e si afferma poi in tutte le lingue europee. La quasi certa origine del vocabolo europeo è da ricercarsi nei termini in persiano shim- o shamshir, indicanti appunto, sin dall'XI secolo la scimitarra persiana, la shamshir. Il vocabolo "shamshir", a sua volta, è di possibile derivazione da shafshēr, in lingua pahlavi "artiglio del leone" (sham = artiglio, shir = leone), in riferimento alla forma ricurva della lama dell'arma. Tuttavia è molto probabile che si tratti di un'erronea interpretazione recente, radicatasi anche in ambiente accademico, in quanto la parola shafshēr era già presente in pahlavi con il significato generico di spada (v. spada sasanide).
Una serie di armi tradizionali sono comunemente chiamate scimitarre:
  • Dao (scimitarra archetipica dei turco-mongoli)
  • Kilij (turco)
  • Saif (arabo)
  • Shamshir (persiano)
  • Talwar (hindi)
  • Nimcha (di origine marocchina)
  • Pulwar (di origine afghana)

Storia

I turchi dell'Asia Centrale iniziarono ad utilizzare spade a lama ricurva dalla fine dell'era degli Xiongnu (III secolo), con un'affermazione definitiva del modello al tempo degli imperi dei turchi Kok.
Si trattava di armi dalla lama marcatamente ricurva, monofilare, con un contro-taglio (yelman) lungo quanto un terzo della lama, in acciaio con alte percentuali di carbonio. Per via del suo peso contenuto e della lunghezza, nonché per la peculiare sagoma che risultava particolarmente adatta ai colpi di taglio preferiti dal guerriero in sella, ebbe larghissima diffusione tra i cavalieri. Le normali spade erano più versatili, grazie alla loro capacità di colpire di taglio e soprattutto di punta ma questa capacità non risultava così necessaria per i soldati a cavallo che avevano necessità di colpire rapidamente senza rischiare di impigliare la lama.
La diffusione dell'Islam tra i turchi contribuì alla diffusione della loro spada ricurva, il kilij, tra i grandi regni dell'Asia occidentale, a discapito delle spade a lama diritta precedentemente in uso presso gli arabi (v. kaskara), in uso sino al IX secolo. I primi kilij ad entrare nel bacino culturale arabo appartenevano ai Ghulam, gli schiavi-soldati di etnia turca che combatterono per i califfi Omayyadi ed Abbasidi. La creazione dell'Impero selgiuchide in Persia e del Sultanato di Iconio in Anatolia (XI secolo) fece dei turchi la potenza dominante dell'Asia centrale e del Medio Oriente, garantendo ulteriore diffusione e successo alla loro spada ricurva. Proprio in questo periodo, in Iran, iniziarono a diffondersi le shamshir a lama ricurva derivate dal kilij. Il parallelo avvio delle crociate ed il conseguente intensificarsi dei contatti e degli scontri tra europei, bizantini e potentati musulmani, diffuse in Europa l'idea della scimitarra quale arma "standard" di "mori" e "saraceni".
Nel XV secolo, la costituzione dell'Impero Moghul introdusse l'uso della scimitarra in India, ove sviluppò la locale variante, il talwar, a discapito della spada monofilare a lama diritta (khanda) in uso alla casta guerriera locale. Parallelamente, la definitiva affermazione dell'Impero ottomano quale potenza dominante in Europa orientale e Medio Oriente garantì al kilij un'enorme diffusione. Al volgere del XVI secolo, i continui contatti e scontri tra la cavalleria pesante occidentale e l'esercito ottomano nei Carpazi ed in Ucraina favorì lo sviluppo di una spada da cavallo ibrida, la szabla, in forza alla cavalleria della Confederazione Polacco-Lituana, che funse da archetipo per lo sviluppo della sciabola occidentale.
Il sistematico affermarsi dell'artiglieria pesante tra XVIII e XIX secolo, unitamente alla diffusione del moschetto e della baionetta, relegò la scimitarra, così come quasi tutti gli altri tipi di lama, ad un ruolo puramente di prestigio e ornamentale. La vittoria di Napoleone sui Mamelucchi egiziani (1798-1801), grazie ad un uso disciplinato e impeccabile delle tecniche di combattimento moderno, costituì certamente una significativo segnale del sempre più ristretto campo d'azione della cavalleria leggera armata di scimitarra (seppur poi una brigata di mamelucchi armati di scimitarra venne incorporata nelle file della Grande Armata). Anche quale arma di rappresentanza, sul territorio europeo, la scimitarra andò quasi scomparendo, in favore dell'ormai ben sviluppata sciabola, prediletta dagli eserciti occidentali. Nel 1826, il sultano Mahmud II operò una radicale ristrutturazione dell'esercito ottomano, abolendo l'uso del vecchio kilij proprio in favore della sciabola occidentale, segnando la fine di un'epoca.

Simbologia

L'importanza dell'arma nella cultura islamica è tale da far sì che essa venga usata simbolicamente in numerose bandiere di stati della zona araba, come quella dell'Arabia Saudita o come quella della divisione Handzar, la forza composta da bosniaci islamici organizzata dalle SS.

Costruzione

La caratteristica peculiare della scimitarra è la sua lama ricurva, volta ad amplificare il momento angolare del colpo per garantire, a parità di larghezza, maggior efficacia al colpo di taglio rispetto ad una spada a lama diritta. Detta dinamica era già stata approfonditamente studiata da Sir Richard Francis Burton (1821-1890) nel suo The Book of the Sword (1884), basando le sue considerazioni fisico-scientifiche su quanto osservato da lui e da altri ufficiali dell'esercito britannico durante le campagne nel subcontinente indiano nel corso del XVIII-XIX secolo.
« The superiority of the curved blade for cutting purposes is easily proved. In every cut the edge meets its object at some angle, and the penetrating portion becomes a wedge. But this wedge is not disposed at right angles with the Sword: the angle is more or less oblique according to the curvature, and consequently it cuts with an acuter edge. […] The Talwar, or half-curved sabre of Hindustan, cuts as though it were four times as broad and only one-fourth the thickness of the straight blade [i.e. a Claymore]. But the drawing-cut has the additional advantage of deeping the wound and of cutting into the bone. Hence men of inferior strength and stature used their blades in a manner that not a little astonished and disgusted our soldiers in the Sing and Sikh campaigns. »
(Burton, Richard (1884), The Book of the Sword, Londra, Chatto & Windus, pp. 130-132.)
Onde garantire ulteriore efficacia al colpo di taglio, la scimitarra, nella sua forma archetipica (dao mongolo) e nella sua forma classica (kilij turco), presenta inoltre un allargamento in prossimità della punta della lama, il contro-taglio (yelman in lingua turca). Si tratta però, in questo caso, non di una invenzione orientale ma di un accorgimento già noto ai popoli del Mediterraneo antico.
Già il tattico e storico della Grecia Antica, Senofonte (morto 355 a.C.), parlando della spada più consona per le forze di cavalleria aveva raccomandato il ricorso al coltellaccio tipo Makhaira, con lama leggermente ricurva ed ingrossantesi in prossimità della punta:
(EL)
« ὡς δὲ τοὺς ἐναντίους βλάπτειν, μάχαιραν μὲν μᾶλλον ἢ ξίφος ἐπαινοῦμεν: ἐφ' ὑψηλοῦ γὰρ ὄντι τῷ ἱππεῖ κοπίδος μᾶλλον ἡ πληγὴ ἢ ξίφους ἀρκέσει. »
(IT)
« Ma per ferire i nemici, a mio parere, è molto meglio il la sciabola che la spada, perché venendo il colpo dall'alto più profonda sarà la ferita inferta dalla sciabola, arma che ferisce di taglio, che dalla spada. »
(Senofonte, Sull'equitazione - XII, 11-12)




venerdì 14 ottobre 2016

Shao gun

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Lo shao gun era un'arma usata anticamente dalla fanteria cinese, formata da un bastone molto lungo (gun) con incatenato all'estremità un bastone più corto. Il suo uso principale era quello di disarcionare i cavalieri.
Per effettuare questo attacco il fante colpiva il cavaliere usando la parte terminale del bastone lungo, mirando all'arma o al corpo dello stesso. La catena e il bastone corto, a causa del contraccolpo giravano vorticosamente annodandosi intorno all'arma, alle braccia o colpendo il cavaliere.
La lunghezza della catena poteva variare a seconda di quanto si voleva enfatizzare l'uso descritto. Con una catena più lunga era più facile disarcionare un cavaliere, ma ogni altro uso era reso più difficoltoso. Invece con una catena più corta (fino a pochi cm) era possibile usare lo shao gun come un gun, attribuendogli in più la facoltà di colpire ulteriormente con la parte mobile.