venerdì 25 novembre 2016

Xuánzàng

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Xuánzàng (玄奘, Xuánzàng), al secolo Chén Huī (陳褘) detto Sanzang (giapponese Sanzō, coreano Samjang) dal nome dei sutra che portò con sé dal suo viaggio (sanscrito Tripitaka, "tre canestri") (Luoyang, 602 – Yu Hua Gong, 664) è stato un monaco buddhista, esploratore e traduttore cinese, che intraprese un pericoloso viaggio lungo la via della seta, ed è per questo spesso paragonato a Marco Polo.

Biografia

Infanzia

Nacque nel 602 a Luoyang in Henan durante la dinastia Sui con il nome di Chen Yi (陳褘), nipote di un professore dell'Accademia Imperiale e figlio di un filosofo confuciano, ultimo di quattro figli; il padre si prese cura dell'istruzione dei figli, e insegnò loro tutti i testi canonici del confucianesimo ortodosso. Nonostante la formazione confuciana, però, già uno dei suoi fratelli maggiori era diventato monaco buddhista, e Xuanzang espresse il desiderio di seguirne l'esempio. Dopo la morte del padre nel 611, andò a Luoyang dal fratello, nel monastero di Jingtu (淨土寺), finanziato dall'imperatore; qui studiò testi del Buddhismo dei Nikaya e del Mahāyāna, schierandosi con questi ultimi insegnamenti.
Alla caduta dei Sui nel 618, i due fratelli fuggirono prima a Chang'an, la nuova capitale dei Tang, poi a Chengdu, nel Sichuan, dove trascorsero due o tre anni nel monastero di Kong Hui. Nonostante Xuanzang seguisse la vita monastica già da diversi anni, fu ordinato monaco solo nel 622; insoddisfatto delle molte contraddizioni nelle versioni cinesi dei testi, decise di lasciare il fratello e di tornare a Chang'an, dove studiò il sanscrito e forse anche il tocario, e si interessò di metafisica Yogācāra.

Viaggio

Nel 629 disse di aver avuto un sogno che lo spingeva a recarsi in India; la decisione fu probabilmente motivata dal desiderio di studiare i testi originali direttamente in sanscrito, e di avere accesso a molti più testi di quelli disponibili in Cina. Al tempo però l'imperatore Tang Taizong era in guerra con i Göktürk (turchi orientali), e l'espatrio era proibito: Xuanzang riuscì a convincere delle guardie buddhiste alle porte di Yumen e fuggì verso Nord-Ovest, attraverso le province di Gansu e Qinghai. Attraversò il deserto del Gobi fino all'oasi di Hami, costeggiò la catena montuosa del Tien Shan verso occidente e nel 630 arrivò all'oasi di Turfan, dove il re buddhista gli diede un passaporto e alcuni oggetti di valore per pagare le spese del viaggio.
Continuando il suo cammino verso occidente riuscì ad evitare i briganti e raggiunse Yanqi, poi visitò i monasteri Sarvastivada di Kucha, passò Aksu e deviò a Nord-Ovest per attraversare il valico di Bedal nell'odierno Kirghizistan. A Tokmok, nell'odierno Kirgiziskistan, il re turco era in buone relazioni con i Tang e gli offrì un banchetto; da qui proseguì per Tashkent e poi Samarcanda, in un'area di influenza persiana, dove avendo visto diversi templi buddhisti abbandonati impressionò il re locale con la sua predica. Ripartendo verso Sud, attraversò il Pamir e l'Amu Darya per giungere a Termez, dove incontrò un'ampia comunità di monaci buddhisti.
Tornando leggermente ad Est passò da Kunduz, dove si fermò brevemente per assistere ai funerali del principe Tardu, morto di avvelenamento; qui incontrò il monaco Dharmasimha, poi riprese il viaggio a Ovest verso Balkh (odierno Afghanistan), dove visitò siti e reliquie buddhisti, e specialmente il Nava Vihara, o Nawbahar, che descrisse come l'istituzione monastica più occidentale del mondo. Qui Xuanzang trovò più di 3.000 monaci probabilmente lokottaravada, tra cui Prajnakara, un monaco con cui anni prima aveva studiato le scritture del Buddhismo dei Nikaya; e qui trovò anche una copia del Mahāvibhāṣa Śāstra, un testo dell'Abhidharma Sarvāstivāda che avrebbe poi tradotto in cinese (Canone cinese). Prajnakara lo accompagnò per un breve tratto a Sud a Bamyan, dove Xuanzang fu ricevuto dal re e ebbe l'occasione di osservare le decine di monasteri lokottaravada e soprattutto i due Buddha di Bamiyan scavati nella parete di roccia, distrutti dai talebani nel 2001. Per proseguire dovette poi tornare leggermente a Est e attraversare il passo di Shibar per entrare a Kapisi (circa 60 km a Nord dell'odierna Kabul), parte del famoso regno greco-buddhista di Gandhara, e nella quale trovò più di cento monasteri e 6.000 monaci, prevalentemente del Mahāyāna. Qui Xuanzang incontrò i primi giainisti e induisti, e prese parte ad un pubblico dibattito religioso, dimostrando la sua conoscenza di molte scuole buddhiste. Proseguì per Nagarahāra (odierna Jalalabad) e Laghman, dove concluse di aver raggiunto l'India (la città infatti era situata sulla via commerciale che collegava il subcontinente a Palmira, ed era forte l'influenza indiana). L'anno era il 630.

India

Xuanzang attraversò quindi il fiume Hunza e il passo di Khyber, raggiungendo Purushapura (odierna Peshawar), dove vide molti stupa, deducendo dal numero di fedeli che il buddhismo nella regione stava cominciando il suo declino; uno degli stupa che descrisse, chiamato Kanishka Stupa, fu riscoperto solo nel 1908 da D.B. Spooner proprio grazie alla sua descrizione. Lasciando Purushapura viaggiò verso Nord-Est attraversando la valle di Swat e raggiungendo Udyana, dove trovò circa 1.400 antichi monasteri, che in passato avevano ospitato 18.000 monaci ma ora erano custoditi solo da una piccola comunità di monaci del Mahāyāna; continuò a Nord nella valle di Buner, poi attraversò l'Indo a Hund, quindi si diresse a Takshashila (oggi Taxila), che si trovava all'interno di un regno buddhista vassallo del Kashmir; la città ospitava un'importante università, e all'epoca raccoglieva 5.000 monaci in circa 100 monasteri. Qui Xuanzang incontrò importanti esponenti del buddhismo del Mahāyāna e si fermò a studiare con loro per un paio d'anni; nell'università trovò anche importante materiale sul Quarto Concilio Buddhista tenutosi in Kashmir intorno al I secolo sotto l'egida del re Kanishka di Kushan.
Nel 633, Xuanzang lasciò il Kashmir e viaggiò a Sud verso Chinabhukti (forse l'odierna Firozpur), dove studiò per un altro anno con il principe Vinitaprabha.
Nel 634 si rivolse a Est verso Jalandhara, nel Punjab orientale, poi visitò i monasteri theravādin della valle di Kullu, quindi andò a Sud a Bairat e Mathura, sul fiume Yamuna; Mathura ospitava circa 2.000 monaci di entrambe le scuole, nonostante la popolazione fosse prevalentemente induista. Xuanzang risalì il fiume verso Srughna, poi attraversò il Gange e nel 635 arrivò a Matipura. Da qui, si incamminò verso Sud per visitare Sankasya (Kapitha), proseguì verso Kanyakubja (Kannauj). Qui, nel 636, Xuanzang incontrò 100 monasteri e 10.000 monaci tra Mahāyāna e Theravāda, e fu colpito dal patrocinio offerto dal re Harsha a entrambe le scuole buddhiste. Trascorse un po' di tempo in città per studiare le scritture theravādin, poi ripartì verso Est per Ayodhya (Saketa), terra natale della scuola Yogācāra; quindi proseguì a Sud per Kausambi (Kosam), dove si fece fare una copia di un importante e famoso dipinto raffigurante il Buddha.
A questo punto Xuanzang ritornò a Nord a Sravasti, attraversò il Terai (odierno Sud del Nepal), dove trovò dei monasteri buddhisti abbandonati, e arrivò a Kapilavastu, la sua ultima sosta prima di Lumbini, il luogo di nascita del Buddha. A Lumbini, ebbe modo di ammirare la colonna posta dal re Aśoka nel luogo in cui il Buddha nacque, e si fermò a pregare sotto di essa; la colonna sarebbe stata riscoperta nel 1895 da A. Fuhrer.
Nel 637, Xuanzang lasciò Lumbini per Kusinagara, luogo della morte del Buddha, poi si diresse verso il parco di Sarnath, dove Buddha aveva tenuto il suo primo discorso, e dove incontrò circa 1.500 monaci. Rivoltosi a Est, passando Varanasi raggiunse Vaisali, Pataliputra e Bodh Gaya. I monaci locali lo accompagnarono poi a Nālandā, la più grande università indiana dell'epoca, dove trascorse i successivi due anni. Qui era in compagnia di diverse migliaia di monaci e studiosi (si stima che all'epoca fossero circa 10.000) con i quali approfondì i suoi studi di logica, grammatica, sanscrito, e dottrina yogācāra.
Ebbe però difficoltà a inserirsi nell'ambiente accademico, e nel 638 ripartì alla volta del Bengala, ma pensò anche a un'altra destinazione, l'isola di Sri Lanka, sede principale della scuola del Theravāda e depositaria di un'importante reliquia, uno dei denti del Buddha ritrovato tra le ceneri della sua pira funeraria. Dei monaci del Sud venuti in pellegrinaggio lo convinsero a continuare per la via di terra e imbarcarsi più a Sud, anziché a Tamralipiti (odierna Tamluk), perciò seguì la costa orientale, attraversò Orissa, dove incontrò e descrisse delle tribù aborigene poco indianizzate, poi attraversò Andhra, la prima regione di lingua dravidica, e trascorse a Amaravati o Bezvada la stagione delle piogge (639). Continuando il viaggio entrò nel regno di Pallava fermandosi a Mahabalipuram e Kanchipuram, dove alcuni religiosi singalesi in fuga dalla guerra civile che devastava l'isola gli consigliarono di rinunciare; perciò controvoglia evitò di visitare Tanjavur e Madurai e risalì invece lungo la costa occidentale, attraversando Goa e Maharashtra, che allora formavano l'impero Chalukya, e forse trascorse la stagione delle piogge del 641 a Nashik. Visitò le grotte di Ajanta, pur senza descriverle nei suoi appunti, e sostò qualche giorno nel porto di Bharuch, la Barygaza dei greci, un grande porto commerciale che collegava l'India all'Egitto. Attraversò quindi il Gujarat, entrando nel Sindh, dove prese qualche appunto sull'Impero sasanide che sarebbe stato presto cancellato dalle invasioni arabe.
Stranamente, Xuanzang che visitava coscienziosamente tutti i siti buddhisti indiani non fece alcun riferimento a Sanchi, centro importante e attivo oltre che sede di numerosi monumenti buddhisti, tra cui il Grande Stupa costruito da Aśoka per contenere delle reliquie del Buddha.
A questo punto invece fece ritorno a Nālandā, dove riprese parte alle dispute oratorie, in cui difese la dottrina del Buddha contro quelle induiste dei brahmini, degli Śivaiti e dei vaishnaviti. Il re Bhaskara Kumara di Assam, avendo sentito parlare di lui, lo invitò nel suo regno; là, Xuanzang pensò di tornare in Cina, data la vicinanza, ma rinunciò per la difficoltà del terreno e dei rischi di malattie e bestie selvagge. Ricevette invece un invito dall'imperatore Harsha, che lo invitava nella sua capitale; malgrado la sua devozione alla scuola del Mahāyāna, Harsha, come tutti i sovrani dell'India, non si pose mai contro le scuole induiste, e desiderava perciò organizzare un'assemblea con rappresentanti di tutte le confessioni religiose. Durante i primi giorni del 643 l'imperatore l'accompagnò personalmente risalendo con lui il Gange verso Kanauj; nell'assemblea il monaco si dimostrò tanto abile da infastidire anche i monaci buddhisti di scuola theravādin. Un santuario costruito da Harsha per ospitare una statua del Buddha fu però bruciato, probabilmente da alcuni brahmini scontenti, e l'imperatore stesso scampò a un tentativo d'omicidio, forse da parte dello stesso gruppo: cinquecento brahmini furono espulsi dall'India, una punizione considerata peggiore della morte perché li costringeva a vivere nell'impurità. Xuanzang venne invitato dall'imperatore a presenziare alla Kumbh Mela, di cui Xuanzang fece la prima descrizione storica, a Prayag (odierna Allahabad) assieme a 18 vassalli dell'imperatore, poi nonostante le insistenze di questi decise di lasciare il Paese.
Nel 644 attraversò l'Indo, nel quale perse una cinquantina di manoscritti. Il re del Kashmir, avendo appreso che egli non avrebbe attraversato il suo regno, andò a incontrarlo, forse cercando in lui un appoggio contro le orde turche che premevano ai suoi confini allettati dalle ricchezze del regno, e che spesso finivano per convertirsi al Buddhismo. Xuanzang però insistette per tornare in patria, e del resto il suo aiuto sarebbe stato superfluo, poiché non molto tempo dopo tali tribù si sarebbero convertite all'Islam e avrebbero obliterato la civiltà greco-buddhista tagliando ogni collegamento con il bacino mediterraneo.
Xuanzang riprese perciò la strada del Pamir, facendo a ritroso il cammino che lo aveva condotto in India.

Ritorno

Xuanzang ritornò nella Cina dei Tang nel 645 portando con sé 657 sutra in sanscrito del Tripitaka, e l'imperatore Tang Taizong gli accordò grandi privilegi ma gli chiese di scrivere un resoconto di ciò che aveva visto nei suoi viaggi (probabilmente considerando l'utilità di queste informazioni in ottica espansionistica): l'opera che Xuanzang scrisse, Viaggio in Occidente dal Grande Tang (大唐西域記,Dà Táng Xīyù Jì), è oggi un documento storico molto importante, che permette di ricostruire la situazione politica, sociale e religiosa dell'India dell'epoca, lo stato del Buddhismo, descritto proprio all'inizio della sua fase di declino nel subcontinente, ed è la principale fonte di informazioni sull'imperatore Harsha. Le sue descrizioni furono utili a molti archeologi per ritrovare i monumenti da lui descritti, e dal 2005 una spedizione, condotta da Zemaryali Tarzi, sta cercando di trovare un terzo Buddha nell'area di Bamiyan, basandosi sulle due descrizioni di un Buddha sdraiato della lunghezza di circa 300 metri.
Secondo la tradizione a lui si deve anche il Cheng Weishi Lun, un commentario ai sutra.
A capo di un'accademia imperiale nella capitale Chang'an (oggi Xi'an), per il resto della sua vita si dedicò alla traduzione dei sutra in cinese. Il suo lavoro, oltre ad ampliare enormemente il numero di testi disponibili al Buddhismo cinese, preservò anche diversi testi andati perduti nella versione originale.
La scuola di Faxiang, fondata dal suo discepolo Fuiji, ebbe vita breve, ed il suo insegnamento sopravvisse solo in Giappone nella scuola Hossō.
Durante la dinastia Yuan, Wu Changling (吳昌齡) mise in scena un'opera teatrale incentrata sul viaggio di Xuanzang alla ricerca delle scritture. Il viaggio di Xuanzang, e le leggende che lo circondarono, ispirarono poi il romanzo del XVI secolo Viaggio in Occidente, considerato uno dei maggiori classici della letteratura cinese. Nel romanzo Xuanzang è la reincarnazione di un discepolo diretto di Gautama Buddha e al termine del viaggio diventa un buddha a sua volta.

Reliquie

Un teschio che si dice fosse di Xuanzang era conservato nel Tempio della Grande Compassione a Tianjin fino al 1956, quando fu portato a Nalanda - sembra dal Dalai Lama - e donato all'India: la reliquia è ora conservata nel museo di Patna. Anche il Monastero Wenshu a Chengdu, nel Sichuan, sostiene di conservare parte del teschio di Xuanzang.

giovedì 24 novembre 2016

Uke (arti marziali)

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Nelle arti marziali giapponesi, uke (受け) (ɯkɛ) è colui il quale "riceve" una tecnica. Uke ha anche un altro significato: parata.
L'esatto ruolo di uke varia nelle differenti arti e spesso anche all'interno di una stessa arte marziale, a seconda dalla situazione. Per esempio in aikido e Jūdō kata, uke "attacca" il suo compagno che quindi si difende mettendo in pratica la tecnica. Recentemente negli stage di allenamento del jujutsu tradizionale gli studenti più giovani hanno il preciso compito di fare da uke. Nelle arti basate sulle armi, a fare da uke è spesso il maestro.
Ci sono diversi termini usati per descrivere il"contrario" di uke, sempre a seconda della situazione, esso può essere nage (投げ nagè), tori o shite.
L'azione di uke è chiamata ukemi (受身 ukemi). Letteralmente: "corpo ricevente"; in pratica sono le cadute: quest'arte insegna a saper ricevere correttamente ed in tutta sicurezza, un attacco. Per esempio si impara a "rotolare" a seguito di una proiezione sia per evitare danni fisici sia per allenare il fisico. Infatti sia in aikido sia in Jūdō spesso le lezioni iniziano proprio con specifici allenamenti di cadute Una componente essenziale dell'ukemi è la consapevolezza. L'uke diventa abile, attraverso la pratica e l'esercizio a rispondere velocemente a qualsiasi azione. Un ukemi realmente aggraziato si ottiene attraverso un serio allenamento e con un buon equilibrio sincretico con il compagno di allenamento.



mercoledì 23 novembre 2016

Yìjìng

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Yìjìng (義淨, Wade-Giles: I-ching, giapponese: Gijō, coreano: Uijeong o Ŭijŏng, 의정; Qizhou, 635 – Luoyang, 16 febbraio 713) è stato un monaco buddhista cinese, pellegrino in India e traduttore di testi dal sanscrito al cinese.

Vita e opere

Nacque a Qizhou (provincia dello Shandong) nel 635, il suo nome era Zhāng Wénmíng (張文明).
Prese i voti da shāmí (沙彌, sanscrito: srāmanera) all'età di sette anni quando entrò nel locale monastero, studiando sotto la guida di Shanyu (?-646) e Huizi (n.d.). Con quest'ultimo studiò in particolare il Vinaya, approfondendo gli insegnamenti di Dàoxuān (道安, 596-667), il fondatore della scuola Lǜ (律宗, Lǜ zōng, anche 南山宗 Nánshān zōng) la quale aveva come oggetto lo studio del Cāturvargīya-vinaya (Quadruplici regole della disciplina, 四分律 pinyin: Shìfēnlǜ, conservato nel Lǜbù) della scuola Dharmaguptaka.
Si recò quindi a Chang'an, intorno al 667, dove il viaggio di Xuánzàng (玄奘, 602-664) in India, compiuto tra il 629 e il 645, era ancora oggetto di dibattiti e di grande attenzione. Yìjìng decise quindi di compiere anche lui un viaggio verso quelle che erano state le terre natali di Fó (, resa del termine sanscrito Buddha in lingua cinese).
Tornato al monastero di Qizhou, dopo alcuni mesi e con un altro monaco si diresse a Canton dove si imbarcò, nel 671, su una nave persiana raggiungendo Sumatra. Il suo compagno morì poco dopo sull'isola, e Yìjìng, rimasto solo, si imbarcò per Tamralipti (odierna Tamluk, non lontano da Calcutta, India orientale) dove, dopo aver attraversato i domini di Malayu e Kacha, risiedette per un anno studiando il sanscrito.
Decise quindi di recarsi presso la prestigiosa università buddhista di Nalanda accompagnato da un altro pellegrino cinese, Dachendeng. Dopo un lungo pellegrinaggio lungo l'India settentrionale, dove visitò Rajagrha, Bodh Gaya, Vaisali, Amaraba, Benares, il monastero Jetavana a Samkasya (oggi Sankisa) giunse a Nalanda dove risiedette per circa dieci anni. A Nalanda, Yijing studiò l'Abhidharmakosa (Tesoro dell'Abhidharma, 阿毘達磨倶舍論本頌 pinyin Āpídámójùshèlùn běnsòng), opera di commento al Mahāvibhāṣā e che consiste in un commentario Sarvastivada dove compaiono tuttavia le prime critiche Sautrantika. A Nalanda Yijing studiò anche le dottrine Mahayana delle scuole Madhyamika e Cittamatra, nonché il Vinaya Sarvastivada. Egli sostenne, tuttavia, che tutte queste dottrine buddhiste erano solo "mezzi abili" (upāya) per degli scopi specifici, senza che nessuna di esse fosse valida in assoluto per sé stessa. Raccolse circa quattrocento testi buddhisti e, nel 685, fece ritorno a Tamralipti da dove rientrò a Sumatra nel 687. Sull'isola indonesiana avviò le prime traduzioni dal sanscrito al cinese dei testi raccolti. Trovatosi privo di denaro preparò varie lettere per la Cina per richiedere fondi, ma recatosi sulla nave che doveva trasportare le missive, questa improvvisamente salpò e lui si ritrovò, il 10 agosto 689, a Guanfu (Taiwan). Riuscì a rientrare a Sumatra solo alcuni mesi dopo, il 18 dicembre 689. Lì riprese le traduzioni, studiò con il maestro Sakyakirti e scrisse due importanti cronache: il Nánhǎi jìguī nèifǎ zhuàn (南海寄歸內法傳, Relazione sul Buddhismo inviata dai Mari del Sud, T.D. 2125), un trattato sul Buddhismo indonesiano e dell'Asia meridionale, e il Dà táng xīyù qiúfǎ gāosēng zhuàn (大唐西域求法高僧傳, Trattato sui venerabili monaci che partirono alla ricerca del Dharma nei territori d'Occidente, T.D. 2066) quest'ultima una biografia di monaci cinesi e coreani pellegrini in India e Asia centrale. Yijing fece recapitare questi due trattati, unitamente a numerose traduzioni, in Cina nel 692.
Nel 694 tornò a Guangfu accompagnato da due monaci e, nel 695, raggiunse Luoyang, dove venne ricevuto con grandissimi onori dall'imperatrice buddhista della dinastia Tang Wǔ Zétiān (武則天, conosciuta anche come Wǔ Zhào, 武曌, regno: 690-705). A Luoyang Yijing risiedette nel monastero di Foshouji dove, nel 699 con Śikṣānanda, tradusse l'Avataṃsakasūtra (華嚴經 pinyin: Huayanjing, Sutra della ghirlanda fiorita di Buddha, T.D. 279). Dal 700, Yijing coordinò i centri di traduzione di Luoyang e di Chang'an. Tradusse cinquantasei opere in duecentotrenta fascicoli. Tra queste va ricordata l'eccellente traduzione, realizzata nel 703, del Suvarṇaprabhāsasūtra (金光明經pinyin: Jīn guāngmíng jīng Sutra della luce dorata dei re eccellenti, T.D. 665). Yijing morì il 16 febbraio del 713. Fu insignito del titolo postumo di Honglu qing (Responsabile dell'Ufficio Esteri), sulla sua tomba fu eretto il tempio di Jin'guangming (Luce Dorata). Fu uno degli ultimi pellegrini buddhisti cinesi che raggiunsero l'India.


martedì 22 novembre 2016

Esseri senzienti (buddhismo)

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Con esseri senzienti nel buddhismo si indicano la totalità degli esseri viventi dotati di almeno un organo di senso che vivono nel saṃsāra.
Nella letteratura canonica in sanscrito si indicano come सत्त्व sattva "esseri" (ma sono utilizzati anche i termini: जन्तु jantu, "esseri animali"; बहुजन bahujana, prāṇasameta, "che ha respiro"; e जगत jagat "quanto esiste"); in pāli come: सत्त satta; in cinese come: 有情 yǒuqíng ("dotati di sentimenti"), 眾生 zhòngshēng ("moltitudine dei viventi") e 含識 hánshí ("in grado di capire"); in coreano: 중생 jungsaeng; in giapponese: 衆生 shūjō; in tibetano: སྐྱེ་དགུ skye dgu (pr: jyeku) "totalità dei viventi" e སེམས་ཅན sems can "possessore di mente".
Nel buddhismo gli "esseri senzienti" vivono nei tre reami: nel Kāmaloka, il "reame del desiderio"; nel Rūpaloka, il "reame della forma" e nell'Arūpaloka, il "reame del senza-forma".
Un'altra suddivisione degli "esseri senzienti" li distingue in sei "classi", o "mondi": quello degli "esseri nel Naraka", i preta, gli animali, gli esseri umani, gli asura e i deva.
Gli "esseri senzienti", nel buddhismo Mahāyāna sono l'oggetto dell'attività salvifica espressa dal voto dei bodhisattva.


lunedì 21 novembre 2016

Torii

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Un torii (鳥居) è il tradizionale portale d'accesso giapponese che porta ad un jinja (santuario shintoista) o, più semplicemente, ad un'area sacra. La sua struttura elementare è formata da due colonne di supporto verticali e un palo orizzontale sulla cima e frequentemente viene dipinto in colore vermiglio. Tradizionalmente sono fatti di pietra o legno, ma in tempi recenti i costruttori hanno iniziato ad usare anche l'acciaio o il cemento armato.
Generalmente i torii si trovano a gruppi di tre, ma fuori dai templi o dai luoghi di culto non mancano mai. Il numero è tuttavia variabile. Ad esempio, i santuari dedicati al dio Inari possiedono tipicamente molti torii, mentre il santuario di Fushimi Inari-taisha a Kyoto possiede addirittura migliaia di torii.
La loro costante presenza nello shintoismo è dovuta al fatto che il passaggio sotto di esso è considerato una prima forma di purificazione, poi completata con le abluzioni rituali nelle immediate vicinanze del santuario. Le credenze popolari tendono ad identificarlo semplicemente come un simbolo di fortuna e prosperità. Per questo è costume che una persona che ha ottenuto successo negli affari doni un torii come segno di gratitudine agli dèi.

Origine

L'origine di queste costruzioni, da sempre caratteristiche del paesaggio giapponese, è incerta. Sebbene strutture simili si possano trovare in molte altre zone dell'Asia, come in India (i torana dell'architettura buddista e induista), in Cina (p'ai-lou), in Corea (Hongsalmun), in Thailandia, in Nepal e altrove, la ragione e le circostanze per cui questi portali siano stati importati anche nell'Arcipelago non sono conosciute.
Secondo una versione dei miti di Amaterasu (la dea del Sole), quando questa si rinchiuse in una caverna per sfuggire al pestifero fratello Susanoo, causando un'eclissi, le persone, timorose di non rivedere più la luce del Sole, misero su un grosso trespolo di legno per uccelli, tutti i galli della città. Il loro continuo cantare la incuriosì e la indusse a sbirciare fuori dalla caverna.
Approfittando del varco apertosi, uno degli dèi aprì completamente l'ingresso, spingendo via la roccia e permettendo alla luce del Sole di illuminare ancora la Terra. Quel trespolo divenne il primo torii.
È interessante che nel mito sia raccontato che sul trespolo siano stati messi vari uccelli. Secondo altre fonti autoctone infatti, un tempo i torii avevano proprio la funzione di ospitare i galli sacri dalla lunga coda e gli uccelli in generale, visti come messaggeri degli dèi (tra l'altro questi particolari galli si trovano ancora in certi sacrari). È probabile che con il tempo venne dimenticato l'uso primitivo e fu così che il torii divenne da un'uccelliera un portale. Questa teoria parrebbe confermata dallo stesso termine torii, composto di tori (uccello) e i (essere, stare, luogo).



Parti principali

I torii appartengono a due famiglie principali, quella del Shinmei torii, stile utilizzante solo travi diritte, e quella del Myōjin torii (di gran lunga la più comune), che utilizza invece anche travi ricurve.
Strutturalmente un torii è caratterizzato da nove elementi, non tutti sempre presenti:
  • il kasagi, la trave a cavallo delle due colonne
  • lo shimaki, una seconda trave a volte presente sotto il kasagi
  • il nuki, trave secondaria sotto il kasagi e lo shimaki che collega e tiene insieme le due colonne
  • i kusabi, cunei che fermano il nuki;
  • il gakuzuka, supporto situato tra shimaki e nuki a sostegno del primo e a volte recante un'iscrizione
  • gli hashira, le colonne cilindriche che sostengono la costruzione
  • i daiwa, i capitelli delle colonne
  • i daiishi o kamebara, le basi di queste ultime
  • i nemaki, guaine nere (o a volte di altro colore) alla base delle colonne
Le colonne possono avere una certa inclinazione verso l'interno detta uchikorobi.

domenica 20 novembre 2016

Santuario di Fushimi Inari-taisha

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Il Fushimi Inari Taisha (伏見稲荷大社) è il principale santuario dedicato al kami Inari, situato a Fushimi-ku, a Kyōto in Giappone. Il santuario si trova alla base di una montagna chiamata anch'essa Inari, che è a 233 metri dal livello del mare e che comprende diversi sentieri verso altri santuari minori.
Dai tempi antichi in Giappone Inari è sempre stato visto come il patrono degli affari, e sia commercianti che artigiani tradizionalmente venerano Inari. In primo luogo, tuttavia, Inari è il dio del riso. Ognuno dei torii al Fushimi Inari-taisha è stato donato da un'azienda giapponese.
Questo popolare santuario si dice abbia ben 32 000 sotto-santuari (分社 bunsha) in tutto il Giappone.

Storia

Il santuario divenne oggetto del mecenatismo imperiale durante la prima parte del Periodo Heian. Nel 965 l'Imperatore Murakami decretò che i messaggeri portassero dei resoconti scritti degli eventi importanti ai kami guardiani del Giappone. Questi heihaku si presentarono inizialmente a 16 santuari, tra cui anche il Fushimi Inari-taisha.
Dal 1871 al 1946, il santuario di Inari è stato ufficialmente designato uno dei Kanpei-taisha (官幣大社), ciò significa che si trovava nel primo rango dei santuari. Il santuario attira diversi milioni di fedeli per il Capodanno giapponese, nel 2006 la polizia ha dichiarato che per tre giorni furono presenti 2,69 milioni di persone, soprattutto dal Giappone occidentale.

Strutture

Le prime strutture sono state costruite nel 711 sulla collina Inariyama, nel sud-ovest di Kyoto, ma il santuario fu spostato nell'816 su richiesta del monaco Kūkai. La struttura principale del santuario è stata edificata nel 1499 Nella parte inferiore della collina ci sono la porta principale (楼門 rōmon, "porta torre") ed il santuario principale (御本殿 go-honden). Dietro ad essi, in mezzo alla montagna, il santuario interno (奥宮 okumiya) è raggiungibile con un sentiero fiancheggiato da migliaia di torii. Sulla cima della montagna ci sono centinaia di cumuli ( tsuka) per il culto privato.
Nel libro del folclorista Kiyoshi Nozaki Kitsune: Japan's Fox of Mystery, Romance and Humor c'è l'immagine di un dipinto del 1786 raffigurante la porta principale del santuario di cui si dice che sia costruita da Toyotomi Hideyoshi.

Le volpi

Le volpi (kitsune), considerate messaggeri, si trovano spesso nei santuari di Inari. Un attributo ricorrente è la chiave (del deposito di riso) nella loro bocca. A differenza della maggior parte dei santuari scintoisti, il Fushimi Inari-taisha, in armonia con i tipici jinja di Inari, ha molte statue di volpi, che sono oggetto di venerazione.

Geografia

Si trova vicino alla Stazione di Inari sulla Linea Nara della JR West, a 5 minuti di viaggio dalla Stazione di Kyōto. Si trova a pochi passi dalla Linea principale Keihan delle Ferrovie Keihan nella stazione di Fushimi-Inari.

Dintorni

Nei dintorni del santuario ci sono un gran numero di negozi (辻占煎餅 tsujiura senbei) che vendono una forma di biscotti della fortuna risalenti almeno al XIX secolo, e che sono ritenuti da alcuni l'origine dei biscotti della fortuna sino-americani.

sabato 19 novembre 2016

Calcio volante

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Il calcio volante è un tipo di calcio praticato in certe arti marziali e nei tipi di ginnastica basati su di esse, con la particolarità di essere scagliato nell'aria, più specificamente è effettuato muovendosi ("volando") verso l'avversario dopo una rincorsa iniziale per prendere lo slancio. In questo senso il "calcio volante" è un caso particolare del calcio saltato, cioè ogni calcio che viene scagliato a mezz'aria senza che i piedi tocchino il suolo.
I calci volanti e saltati sono insegnati in alcune arti marziali asiatiche, per esempio il karate, kempo, kalarippayattu, kung fu e taekwondo.

Storia

Il calcio in generale, così come il calcio saltato, erano estranei allo stile meridionale, e la loro presenza nelle arti marziali Giapponesi, Coreane e del Wing Chun erano probabilmente dovute all'influenza dello stile settentrionale. Storicamente, lo sviluppo e la diffusione delle tecniche del calcio saltato nelle arti marziali asiatiche sembra aver avuto luogo tra il 1930s e il 1950s. Durante questo periodo, che risale al 1940s le arti marziali cinesi influenzarono le arti marziali di Okinawa. Le arti marziali di Okinawa a loro volta si svilupparono nel karate e ultimamente nel taekwondo. L'enfatizzazione che svolge il taekwondo nello spinning, nel salto e nel calcio volante risale al 1960s.

Tecnica

Il completamento di un calcio volante si affida a una preparazione mentale combinata a una predisposizione per le attività atletiche. Infatti un elemento fondamentale per la preparazione consiste nell'esercizio mentale e nel visualizzare sempre mentalmente il calcio volante prima della sua esecuzione. Un calcio volante eseguito correttamente richiede che l'individuo atterri sui propri piedi mantenendo l'equilibrio.

Praticità e scopo

Sebbene l'efficienza di un calcio saltato in un sport di combattimento o per autodifesa sia molto discutibile, la mossa è utilizzata principalmente a scopo dimostrativo, per mostrare l'abilità e il controllo che possiede chi lo pratica, o come un passo di danza.
Il calcio volante (nonostante il riferimento all'utilità) è considerato come una fra le tecniche delle arti marziali più difficili da praticare correttamente. In un testo pubblicato nel 1991 dedicato ai calci volanti del taekwondo l'allenatore Yeon Hwan Park sosteneva che il principale beneficio dell'allenamento sul calcio volante sia "superare i limiti delle barriere mentali attraverso il superamento di imprese fisiche che danno confidenza a colui che lo sta imparando". Park enfatizza il fatto che il calcio volante e saltato siano fra le più difficili ed avanzate tecniche, e che lui stesso non ne consiglia l'utilizzo ma allo stesso tempo ipotizza che possano essere eseguite anche nell'autodifesa dopo averne conosciuto a fondo la tecnica di esecuzione.

venerdì 18 novembre 2016

Real Aikido

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Il Real Aikido (serbo: Реални аикидо) è un'arte marziale sviluppata da Ljubomir Vračarević, un istruttore di autodifesa serbo. Essa è un mix di tecniche di: aikido, judo e jujutsu con alcune modificazioni fatte da Vračarević.

Tecniche

Il sistema di difesa Real Aikido include tecniche di disarmo, come quelle da difesa contro armi quali: coltello, pistola, etc. Esso include le tecniche semplificate di aikido, judo e jujutsu che possono essere facilmente insegnate nei corsi di sicurezza e autodifesa. Principalmente si basa sul programma generico dell'aikido, con il sistema dei gradi kyū/dan. Oltre alle prese, autodifesa contro colpi, include anche evasioni ed alcune tecniche di parata.

Scuola dei bodyguard

La scuola di guardie del corpo di Vracarevic è ufficialmente certificata dalla International Bodyguard and Security Services Association (IBSSA).



Controversie sul nome

Il Real Aikido utilizza la parola "Aikido" nel suo nome , ma non è riconosciuto nella Fondazione Aikikai, dalla International Yoshinkan Aikido Federation, né da altre organizzazioni di Aikido.

giovedì 17 novembre 2016

Takemusu Aikido

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Per Takemusu Aikido, o Iwama Takemusu Aikido, o Iwama Ryu s'intende il metodo tradizionale di O'Sensei, che lui insegnava quotidianamente nel dojo di Iwama e che è stato tramandato puro e incontaminato fino a noi da Morihiro Saito Sensei. Per meglio capire cosa differenzia il Takemusu Aikido dagli altri stili praticati nel mondo bisogna considerare il fatto che non ci fu una vera e propria crescita internazionale dell'Aikido fino al termine della II Guerra Mondiale. L'arte così come viene praticata oggi nella maggior parte dei dojo deriva dalle interpretazioni di famosi Maestri e non direttamente dal Fondatore stesso. A partire dagli anni '50 costoro introdussero le loro modifiche personali all'arte. La ragione di ciò è facilmente spiegabile con gli eventi collegati alla II Guerra Mondiale, al lungo periodo di ritiro volontario di O'Sensei in Iwama e al fatto che il figlio del Fondatore iniziò in quel tempo a dedicarsi sempre più al Quartier Generale dell'Aikikai a Tokyo (Honbu Dojo). Quasi tutti i vecchi allievi che praticavano in Iwama si allontanarono dal dojo: molti durante la guerra, altri subito dopo. La vita in Iwama era molto dura in quel tempo, c'era scarsità di cibo e bisognava lavorare sodo per procurarsi di che vivere. Saito Sensei restò sempre vicino al Fondatore in quegli anni difficili, aiutandolo anche nei lavori più umili. Anche se fu una vita piena di sacrifici, Saito Sensei ebbe così la fortuna di trascorrere oltre 24 anni con il Fondatore. O'Sensei si fidava completamente del suo fedele e devoto allievo e gli insegnava tutto sia dal punto di vista tecnico che teorico. Saito Sensei non si permise mai di interpretare ciò che aveva ricevuto dal Fondatore; si limitava a memorizzare, a studiare e ad aiutare il suo Maestro. Morihiro Saito ha preservato e trasmesso intatto l'Aikido originario di O'Sensei. Ciò che distingue l'insegnamento di Saito Sensei da quello di altri maestri è l'uguale importanza che egli diede al Tai-jutsu (tecniche a mani nude) e al Buki-waza (tecniche con le armi), che comprende lo studio del Ken (spada) e del jō (bastone). Questa interrelazione tra il tai-jutsu, il jo e il ken era per il Fondatore determinante per lo studio dell'Aikido e Saito Sensei ha basato tutta la sua pedagogia sull'applicazione meticolosa di questi principi. La ragione dell'abilità di Saito Sensei nella pratica delle armi va ricercata nel fatto che solo pochissime persone ebbero il privilegio di allenarsi a lungo con Morihei Ueshiba.

Diffusione del takemusu aikido in Italia

Per capire come il Iwama Takemusu Aikido sia arrivato in Europa, e più specificamente in Italia, bisogna risalire al 1984, quando il Dott.Paolo Corallini si recò per la prima volta in Giappone col preciso scopo di conoscere Morihiro Saito Shihan: il mitico Maestro che era stato fedele per tutta la vita al fondatore dell'Aikido, Morihei Ueshiba O'Sensei e che, dopo la morte di quest'ultimo, era rimasto in lwama come custode dell'Aiki Jinja e Capo Istruttore dell'Ibaragi Dojo dove il Fondatore insegnava tutti i giorni. Il M° Corallini riuscì a incontrare Saito Sensei e a farsi accettare come uchi deshi (allievo interno). A quel tempo mai nessun italiano aveva messo piede in lwama. Quella esperienza fu decisiva per lui; egli si accorse che ciò che aveva appreso fino a quel giorno (in 15 anni di pratica) era un Aikido esteticamente fluido ma non molto efficace. Così, affascinato dalla grandiosità tecnica e pedagogica di Saito Sensei e dalla sua fedeltà totale allo stile del fondatore, il M° Corallini ebbe il coraggio e l'umiltà di ricominciare da zero lo studio dell'Aikido seguendo fanaticamente l'insegnamento di questo grandissimo storico Maestro: Morihiro Saito Shihan. Alla fine di questo primo soggiorno in Giappone, Saito Sensei chiese al M° Corallini quale fosse la sua impressione sulla pedagogia di lwama e, qualora fosse stata positiva, di farlo conoscere in Italia. Paolo Corallini, già completamente stregato da quella esperienza, rispose al suo Maestro che solo grazie a lui aveva finalmente capito la Via per studiare l'Aikido di O'Sensei, e che avrebbe fatto tutto il possibile per far conoscere "l'Aikido di Iwama" in Italia quasi fosse una missione. In quello stesso anno il M° Corallini invitò per la prima volta Saito Sensi a dirigere un Koshukai in Italia; egli accettò e così nel febbraio 1985 questo storico personaggio arrivò per la prima volta in Europa Centrale. Questo primo seminario svoltosi a Torino fu un vero e proprio shock benefico per il mondo dell'Aikido e servì in modo determinante a far conoscere l'Aikido Tradizionale di lwama in Europa. Restarono tutti affascinati dalla personalità e dalla grande pedagogia di Saito Sensei, il quale dall'alto del suo livello tecnico riusciva con semplicità e razionalità ad insegnare in modo accessibile a tutti, dal principiante al più esperto. Dopo quel primo Koshukai nel 1985, il M° Corallini ha invitato ogni anno in Italia Morihiro Saito Shihan creando così un vero e proprio nucleo di sviluppo dell'Aikido di Iwama in Europa. Tra coloro che parteciparono a quel primo Seminario di Saito Sensei in Italia c'erano molti stranieri, i quali rimasero anch'essi affascinati da questo grande uomo, al punto tale da cambiare ed avvicinarsi definitivamente all'Aikido di Iwama riconoscendo in questo finalmente l'Aikido Tradizionale. Così altre persone di altre nazioni europee cominciarono a frequentare il Dojo d'Iwama e ad invitare Saito Sensei per far conoscere anche nei loro stati questo metodo di insegnamento. Da allora il M° Corallini si è recato in Giappone tutti gli anni per studiare sotto la direzione di Saito Sensei ed inoltre lo ha seguito in molte altre nazioni del mondo per essergli vicino il più possibile e progredire tecnicamente. In tutti questi anni si è dedicato completamente a Saito Sensei e con fedeltà ed affetto lo ha aiutato a diffondere il Takemusu Aiki. Morihiro Saito Shihan capì che poteva contare sul suo allievo italiano e fidarsi di lui, così lo incaricò di rappresentarlo nell'Europa Centrale, nell'Europa Meridionale ed in Africa. Lo autorizzò ad esaminare i propri allievi ed a conferire loro gradi Dan Aikido fino al 5º Dan. Successivamente lo insignì del più alto grado di Buki Waza, nominandolo esaminatore anche per tali gradi. Attualmente il M° Corallini è 7° DAN Shihan di Takemusu Aikido; tale grado gli è stato conferito nel 2001, personalmente da Morihiro Saito Shihan durante il seminar internazionale di Roma. Questo grado è il più alto mai conferito da Saito Sensei nel mondo; ciò a conferma della grande stima che il Maestro giapponese nutriva per questo suo fedele allievo. Sempre nel maggio 2001 Morihiro Saito Shihan ha nominato Paolo Corallini e Ulf Evenås suoi rappresentanti ufficiali. Il M° Corallini è il Presidente ed il Direttore Tecnico della Takemusu Aikido Association Italy (già IWAMA RYU ITALY da lui fondata nel 1985): associazione responsabile dell'insegnamento e dello sviluppo dell'Aikido di lwama in Italia. Dal 1994 il M° Corallini è il Consulente Tecnico Nazionale per l'Aikido nella F.I.J.L.K.A.M. (C.O.N.I.). Dal settembre 2002 l'Iwama Ryu Italy assume il nome di TAKEMUSU AIKIDO ASSOCIATION ITALY. In data 10 aprile 2006 il M° Corallini rassegna le proprie dimissioni dalla carica di Direttore Tecnico del Settore Aikido della F.I.J.L.K.A.M. (C.O.N.I.).

mercoledì 16 novembre 2016

Abbigliamento giapponese

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Esistono essenzialmente due tipi di abbigliamento giapponese: l'abbigliamento tradizionale (和服 wafuku), come il kimono, e l'abbigliamento occidentale (洋服 yōfuku). La cultura giapponese è stata profondamente influenzata dal resto del mondo durante tutta la storia e uno dei cambiamenti più notevoli è avvenuto appunto nell'abbigliamento.
Sebbene gli indumenti etnici tradizionali del Giappone siano ancora in uso, essi sono indossati principalmente per cerimonie ed eventi speciali, funerali, feste per il raggiungimento della maggiore età (seijin no hi) e festival. In anni più recenti, l'abbigliamento moderno di tipo occidentale si indossa ormai in tutte le occasioni della vita quotidiana. Tuttavia, sebbene l'occidentalizzazione dei costumi sia proseguita a grandi passi, il kimono continua a vivere nella cultura giapponese.

Influenza orientale e occidentale

La storia moderna della moda giapponese potrebbe essere rappresentata come il processo di graduale occidentalizzazione degli indumenti giapponesi. Le industrie della lana e della lana pettinata furono completamente un prodotto del ristabilito contatto tra il Giappone e l'Occidente negli anni 1850 e 1860. Prima degli anni 1860, l'abbigliamento giapponese consisteva interamente di una grande varietà di kimono.
Essi apparvero per la prima volta nel periodo Jomon (14.500 a.C.-300 a.C.), senza nessuna distinzione tra uomini e donne.
Dopo che il Giappone si aprì al commercio con il mondo esterno, iniziarono ad apparire nuove opzioni di abbigliamento. I primi giapponesi ad adottare l'abbigliamento occidentale furono gli ufficiali e gli uomini di alcune unità dell'esercito e della marina dello shōgun.
Verso gli anni 1850 questi uomini adottarono le uniformi di lana indossate dai marines inglesi di stanza a Yokohama. Produrle non dovette essere stato facile. La stoffa dovette essere importata. Forse l'aspetto più significativo di questa prima adozione degli stili occidentali fu la sua origine pubblica. Per parecchio tempo, il settore pubblico rimase il principale campione della nuova foggia del vestire.
Lo stile si sviluppò solo da là, muovendosi da quello militare ad altri settori della vita sociale. Presto, cortigiani e burocrati furono sollecitati ad adottare l'abbigliamento occidentale, che si riteneva fosse più pratico.
Il Ministero dell'istruzione ordinò che uniformi studentesche di stile occidentale fossero indossati nei collegi e nelle università pubbliche. Uomini d'affari, insegnanti, medici, banchieri e altri leader della nuova società indossavano abiti occidentali a lavoro e nelle grandi funzioni sociali. Tuttavia, sebbene l'abito di stile occidentale stesse diventando più popolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle strade, non era indossato da tutti.
A partire dalla Prima guerra mondiale, l'abbigliamento occidentale si era diffuso nella maggior parte dei settori. Così, all'apertura del XX secolo, l'abito occidentale era un simbolo di dignità e di progresso sociale. Tuttavia, la grande maggioranza dei Giapponesi rimanevano fedeli ai loro costumi, in favore del più comodo kimono. L'abito occidentale fuori casa e l'abito giapponese in casa rimase la regola generale per lunghissimo tempo.
Un esempio di influenza orientale proveniente dal Giappone che si diffuse nel resto del mondo è evidente alla fine degli anni 1880. Una comune coperta di lana fu usata come scialle per le donne, e una coperta rossa fu mostrata su Vogue per l'abbigliamento invernale.
Fino agli anni 1930, la maggioranza dei giapponesi indossava il kimono, e gli indumenti occidentali erano ancora ristretti all'uso fuori casa da certe classi. I giapponesi tuttavia non hanno assorbito passivamente la moda occidentale proveniente dagli Stati Uniti d'America e dall'Europa, ma l'hanno reinterpretata e fatta propria. Nel complesso, è evidente durante tutta la storia che vi è stata più di un'influenza occidentale sulla cultura e sull'abbigliamento giapponesi. Tuttavia, il kimono tradizionale rimane una parte fondamentale del modo di vivere giapponese e lo resterà a lungo.



Abbigliamento tradizionale

Jinbei

Il jinbei o jinbee (甚平 o 甚兵衛) è un indumento tradizionale giapponese indossato dagli uomini e dai ragazzi durante l'estate. È composto da una sorta di giacca e da un paio di pantaloni abbinati.
Tradizionalmente il jinbei è fatto di canapa o cotone tinto in modo uniforme, spesso blu o verde, anche se i jinbei moderni hanno anche delle stampe o trame floreali e colorate. La parte superiore somiglia ad una giacca a maniche corte che cade sui fianchi. Si allaccia sia all'interno che all'esterno. I jinbei tradizionali vengono usati per sostituire lo yukata alle feste estive, tipicamente da uomini e ragazzi ma anche dalle giovani donne. I jinbei da donna tendono ad essere più colorati e spesso figurano stampe con l'iconografia popolare giapponese.
Oggigiorno il jinbei si usa spesso come pigiama. I jinbei moderni sono fabbricati con varie stoffe e anche con motivi stampati a fantasia. Questo modello comprende una giacca più corta, con una taglia elastica.



Jūnihitoe

Il jūnihitoe (十二単) è una tipologia estremamente elegante e complessa di kimono che veniva indossato soltanto dalle donne di corte in Giappone. È apparso intorno al X secolo, nel periodo Heian. Letteralmente il nome dell'indumento significa veste di dodici strati. Gli strati sono indumenti di seta posti uno sull'altro. Il peso complessivo dell'indumento può arrivare a venti chilogrammi.
Lo strato più interno è fatto di seta bianca ed è seguito da dieci strati di indumenti con vari nomi che vengono poi chiusi da uno strato finale o un cappotto. Gli abbinamenti e i colori degli strati del jūnihitoe sono molto importanti dato che indicano il gusto e il grado della donna. Alcuni colori hanno nomi poetici come "susino in fiore primaverile". L'unico punto in cui sono visibili tutti i vari livelli di indumenti sono le maniche e il collo.
Il movimento in questo indumento è molto limitato dato il peso. Le donne infatti talvolta dormivano nei loro jūnihitoe, usandoli come una sorta di pigiama. I vari strati potevano essere tolti o tenuti, a seconda della stagione e della temperatura. Durante il periodo Muromachi, comunque, il jūnihitoe venne ridotto a cinque strati.
Dalla fine del ventesimo secolo il jūnihitoe può essere visto soltanto nei musei o nei film. La produzione di questo indumento è pressoché cessata. Queste vesti non hanno prezzo, essendo i più costosi in assoluto tra gli abiti tradizionali giapponesi. Soltanto la casa imperiale giapponese li usa ancora in alcune importanti cerimonie. Durante il suo matrimonio la principessa Masako ha indossato un jūnihitoe; così come l'imperatrice Michiko nella cerimonia di ascesa al trono dell'imperatore Akihito nel 1990. Anche le sue dame di compagnia indossarono un jūnihitoe, sebbene in una forma modificata tipica del periodo Edo e non del periodo Heian.


Kimono

Il kimono (着物 letteralmente "cosa da indossare" e quindi "abito") è un indumento tradizionale giapponese, nonché il costume nazionale del Paese del Sol levante.
In origine il termine kimono veniva usato per ogni tipo di abito; in seguito è passato a indicare specificamente l'abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età. Il kimono è molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang. Il kimono è una veste a forma di T, dalle linee dritte, che arriva fino alle caviglie, con colletto e maniche lunghe. Le maniche solitamente sono molto ampie all'altezza dei polsi, fino a mezzo metro. Tradizionalmente le donne nubili indossano kimono con maniche estremamente lunghe che arrivano fin quasi a terra, chiamato furisode. La veste è avvolta attorno al corpo, sempre con il lembo sinistro sopra quello destro (tranne che ai funerali dove avviene il contrario) e fissato da un'ampia cintura annodata sul retro chiamata obi.
I kimono per le donne tradizionalmente sono di una sola taglia e per questa ragione vengono infilati e ripiegati in modo da adattarsi alla corporatura di ciascuna persona. Oggigiorno tuttavia sia i kimono per uomini che per donne sono maggiormente disponibili in varie taglie. Per gli uomini dalla corporatura molto grande o molto pesante (ad esempio i lottatori di sumo) occorre un kimono fatto appositamente su misura.
In passato i kimono venivano completamente scuciti, in modo da poter essere lavati in pezzi singoli, dopodiché erano ricuciti insieme. I metodi di lavaggio e le stoffe moderni tuttavia hanno reso questo procedimento in gran parte superfluo. Talvolta per riporlo più facilmente si fissa con dei punti larghi e lenti una cucitura con un'impugnatura intorno al kimono ripiegato. Questo impedisce che si formino pieghe o sgualciture e contemporaneamente tiene uniti i diversi strati del kimono.
Con il tempo si sono affermate molte varianti nei colori, nelle stoffe e negli stili, anche negli accessori come l'obi.

Hakama

La hakama () è un indumento tradizionale giapponese che somiglia ad una larga gonna-pantalone o una gonna a pieghe. Originariamente soltanto gli uomini indossavano la hakama, ma oggigiorno viene portata anche dalle donne. Viene legata alla vita ed è lunga approssimativamente fino alle caviglie.
Ha acquisito la sua forma attuale durante il periodo Edo. Era tradizionalmente indossata dai nobili nel Giappone durante il medioevo e in particolare dai samurai. Fino alla Seconda guerra mondiale era perfettamente normale incontrare in pubblico uomini in hakama e haori. In seguito sempre più giapponesi scelsero l'abbigliamento occidentale per tutti i giorni.
Esistono due tipi di hakama: quelle con gambe divise, dette umanori (馬乗り, hakama per cavalcare), e quelle non divise gyōtō hakama (行灯袴). Le umanori sono divise come le gonne-pantaloni, le gyoto hakama sono invece tecnicamente delle gonne vere e proprie. La hakama ha sette pieghe, di cui cinque davanti e due dietro che rappresentano le virtù considerate essenziali dal samurai. Molti praticanti di arti marziali continuano questa tradizione, ma differenti fonti danno diversi significati a queste pieghe.
Oggigiorno, la hakama è indossata quasi esclusivamente come abbigliamento formale per le cerimonie e le visite al santuario, nella danza giapponese e da parte di artisti (prevalentemente senza gambe divise), nonché per tradizione in alcune arti marziali discendenti del bujutsu (insieme di antiche pratiche dei samurai) quali lo iaidō, il kenjutsu, il kendō, il kyūdō, il daito ryu, l'aikidō e alcune scuole di jūjutsu.

Yukata

Lo yukata (浴衣) è un indumento estivo tradizionale giapponese. Viene indossato principalmente durante gli spettacoli pirotecnici, alle feste bon-odori e ad altri eventi estivi. Lo yukata è un tipo molto informale di kimono. C'è poi un altro tipo di yukata, che ha l'utilizzo di una vestaglia e viene indossato dopo il bagno nei ryokan, gli alberghi tradizionali giapponesi. Infatti, la parola yukata significa letteralmente "abito da bagno".
L'indumento risale al periodo Heian (794-1185), quando i nobili indossavano lo yukata dopo il bagno. Durante il periodo Edo (1600-1868), invece, lo yukata veniva portato anche dai guerrieri.

Obi

L'obi ( o おび) è una fusciacca o cintura tipica giapponese indossata principalmente con i kimono e i keikogi sia da uomini che da donne.
Nacque nel periodo Kamakura (1185-1333) grazie all'abbandono da parte della donna degli hakama e dunque all'allungamento del kosode, che rimanendo aperto nella parte anteriore aveva bisogno di una cintura che lo tenesse fermo. L'obi poi si evolse durante il periodo Edo, seguendo il nuovo stile del kimono femminile: con il passare del tempo, date le proporzioni sempre più ampie dell'abito, per mantenere libertà nei movimenti le donne giapponesi fecero scivolare la cintura nella parte posteriore dell'abito, dove si standardizzò nel XX secolo.
Nelle arti marziali giapponesi (budō) l'obi è parte del keikogi (uniforme di allenamento) e serve principalmente per tenere insieme l'uwagi (giacca del vestito) e per sostenere la hakama. Nello iaidō e nel kenjutsu serve anche per portare la spada nel fodero. Inoltre in molte discipline sportive del budō indica il grado di abilità del lottatore.

Calzature tradizionali

Tabi

I tabi (足袋) sono dei calzini tradizionali di cotone giapponesi che arrivano all'altezza della caviglia e che separano l'alluce dalle altre dita del piede. Risalgono al XVI secolo ed hanno raggiunto un picco di popolarità durante il periodo Edo (1603 - 1867).
A differenza dei normali calzini, che quando indossati aderiscono perfettamente al piede perché fatti di materiale elastico, i tabi vengono tradizionalmente creati con due lembi di stoffa non elastica; hanno quindi un'apertura sul retro per permettere al piede di scivolare dentro e naturalmente dei bottoni per chiudere l'apertura. Sembra che il nome derivi dal termine tanbi, che significa "un livello di pelle". In antichità erano fatti di cuoio e venivano portati dalle classi più agiate e dai samurai
I tabi vengono indossati abitualmente, soprattutto nel periodo estivo, sia da uomini che donne con dei sandali zōri, geta o calzature analoghe. Di solito sono bianchi e vengono usati in situazioni formali come le cerimonie del tè e sono inoltre essenziali con i kimono o con costumi tradizionali simili. Talvolta gli uomini indossano dei tabi blu o neri durante i viaggi, mentre i tabi con colori più sgargianti o con delle fantasie stampate vengono indossati principalmente dalle donne.
Esistono anche dei tabi di tipo rinforzato, chiamati jika-tabi (地下足袋), ossia letteralmente "tabi che hanno contatto con il suolo", spesso anche con la suola rivestita di gomma, che si indossano senza ulteriori sandali o scarpe. Tradizionalmente questo tipo di tabi sono usati ad esempio da operai edili, falegnami, contadini o giardinieri, perché offrono un appoggio migliore degli zōri.

Zōri

Gli zōri (草履) sono dei sandali tradizionali giapponesi. Si tratta di calzature senza tacco, simili all'infradito occidentale, fatte di paglia di riso o altre fibre naturali, stoffa, legno laccato, pelle, gomma o altri materiali sintetici.
Vengono indossati con indumenti tradizionali giapponesi come il formale kimono, mentre in abbinamento con la versione più informale di quest'ultimo, lo yukata, sono preferiti i geta, un altro tipo di sandalo tradizionale giapponese. Gli zōri sono indossati con i tabi, gli appositi calzini (quando presenti, per occasioni più formali). Gli zōri con la suola ricoperta di giunco che somiglia ai materassini tatami non vengono di solito indossati con il kimono, ma sono considerati scarpe da lavoro o vengono abbinate ad un abbigliamento occidentale casual oppure ad altri indumenti tipici giapponesi come ad esempio il jinbei.

Geta

I geta (下駄) sono dei sandali tradizionali giapponesi a metà tra gli zoccoli e le infradito. Sono un tipo di calzatura con una suola in legno rialzata da due tasselli, tenuta sul piede con una stringa che divide l'alluce dalle altre dita del piede. Vengono indossate con gli abiti tradizionali giapponesi, come gli yukata e meno frequentemente con i kimono, ma durante l'estate (in Giappone) vengono portate anche con abiti occidentali.
Grazie alla suola fortemente rialzata, con la neve o la pioggia, vengono preferite ad altri sandali tradizionali come gli zōri, anche perché più adatti all'ideale di pulizia e igiene personale tradizionale della cultura giapponese. Generalmente, i geta vengono portati sia senza calzini che con gli appositi calzini chiamati tabi, già visti sopra.

Waraji

I waraji (草鞋) sono dei sandali tradizionali giapponesi fatti di corda di paglia, che in passato erano la calzatura abituale per le persone comuni in Giappone. Nel corso del periodo gekokujō, che fu caratterizzato dalle guerre dei contadini, divennero popolari anche tra i samurai, nella stessa misura in cui si affermò la battaglia a piedi. Oggigiorno, i waraji vengono portati quasi soltanto dai monaci buddhisti. Vengono indossati anche con gli appositi calzini chiamati tabi.
Tradizionalmente vengono indossati facendo sì che il piede vada oltre il bordo anteriore della scarpa, così da far sporgere le dita per tre-quattro centimetri.
I waraji vengono prodotti con molti materiali diversi, come ad esempio la canapa, steli di myōga (una varietà di zenzero), fibre di palma, cotone, paglia di riso ed altro. È importante che i materiali scelti siano difficilmente deteriorabili nel tempo.
Esistono vari modi di legare le corde che vanno a fermare il piede alla suola, come le tecniche nakachi-nuki, yotsu-chigake e takano-gake. Un monaco buddhista e un contadino ad esempio le allacciano in modi differenti.

martedì 15 novembre 2016

Atemi

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Nelle arti marziali giapponesi con il termine atemi si indicano sia le tecniche di percussione sia specifici punti del corpo verso i quali devono essere portate le tecniche.
Questi punti sono anche detti punti vitali e se li si percuote si impedisce all'avversario di reagire ulteriormente. (il termine vitale non tragga in inganno: la percussione degli atemi di norma non è letale, tranne pochissimi punti raggiungibili solo da praticanti esperti).

Esecuzione

Nel judo gli atemi-waza sono divisi in due macrogruppi, a loro volta suddivisi in sottogruppi:

Ude-ate

Le Ude-ate sono le "tecniche eseguite con gli arti superiori". Si dividono in:
  • Yubisaki-ate
  • Kobushi-ate
  • Tegatana-ate
  • Hiji-ate

Ashi-ate

Le Ashi-ate sono le "tecniche eseguite con gli arti inferiori". Si dividono in:
  • Hiza-gashira-ate
  • Sekitō-ate
  • Kakato-ate